martedì 21 dicembre 2004

Scontro Ciampi-Berlusconi sulla Costituzione

di Vincenzo Vasile

La mimica è quella dei giorni di battaglia: Berlusconi che ascolta per venti minuti, occhi a fessura, mascella all'infuori

La mimica è quella dei giorni di battaglia: Berlusconi che ascolta per venti minuti, occhi a fessura, mascella all'infuori e braccia conserte. E Ciampi che guarda innanzi a sé, e scandisce implacabili rimproveri al governo. Nel salone dei Corazzieri al Quirinale il rituale scambio di auguri di fine anno con le alte cariche dello Stato si trasforma in una sequenza filmica da antologia.

Mai così distanti, governo e Quirinale su una sventagliata di temi, al centro del discorso - preoccupato e teso - di Ciampi. Non si sa se sia stato più l'appello a «rispettare i magistrati», o la bocciatura di una riforma costituzionale condotta a colpi di maggioranza, o la diagnosi negativa della politica economica, a provocare lo scatto di nervi trattenuto a stento da Berlusconi, che alla fine del discorso ha solo accennato un formalissimo applauso e ha battuto le mani sulle ginocchia come per andarsene, mentre la cerimonia sarebbe proseguita per un'ora.

Il presidente del Consiglio s'è guardato, infine, dal raggiungere il capannello delle autorità che si congratulavano con il capo dello Stato. Che aveva cominciato quasi subito a provocare un fremito sulle labbra di Berlusconi a proposito di riforma costituzionale. Con un'autocitazione: «Le istituzioni fondamentali dello Stato non possono certo essere cambiate a ogni mutare di maggioranza». Sono parole tratte dal discorso di fine anno del 2003, che il presidente ora attualizza: «Auspico che l'esame della riforma costituzionale che riprenderà il proprio iter nell'aula del Senato all'inizio del prossimo anno consenta ancora alle forze politiche di recuperare il metodo del dialogo al quale si erano in precedenza dichiarate disponibili».

E al Senato, vuol dire Ciampi, non sarà più accettabile che si vada avanti a colpi di maggioranza. Avverte, infatti, «il dovere nell'esercizio di quella primaria funzione di garanzia che compete al capo dello Stato - di manifestare la mia preoccupazione per l'accentuarsi di uno stato di difficile comunicabilità tra i principali schieramenti politici e parlamentari su un tema che interessa le strutture portanti della vita democratica della Nazione in primis il Parlamento». E così «la modifica di queste strutture, per dar luogo a soluzioni durature, deve essere frutto di un dibattito approfondito e aperto, non irrigidito da precostituite posizioni di maggioranza e di opposizione».

Altro essenziale puntino sulle «i» della parola giustizia. Si è fatto da destra un gran parlare sul carattere «marginale» e «tecnico» che avrebbero i rilievi mossi da Ciampi nel messaggio con cui ha rinviato alle Camere la legge sull'ordinamento giudiziario. Macché, il «riferimento» - controbatte Ciampi - è «ad alcuni importanti profili di costituzionalità». Importanti. Altro che marginali: Ciampi ha contestato, infatti, due assi portanti della politica giudiziaria del governo, che è basata sulla pretesa di sottrarre attribuzioni e potere al Csm e su quella di inventare poteri di indirizzo di politica giudiziaria in capo al Guardasigilli. E il capo dello Stato tiene a dire che ciò non toglie nulla alla validità degli scopi proclamati dal legislatore, e cioè l'efficienza e la rapidità dei processi. Ciampi può a maggior ragione rivolgersi ai magistrati, incitarli all'«impegno» a realizzare «economie di tempi», a «essere» e anche «apparire» autonomi e indipendenti «in ogni loro comportamento», perché nel frattempo ribadisce con fermezza «un principio più volte affermato - osserva - fin dall'inizio del mio mandato: i magistrati vanno rispettati nell'esercizio delle loro funzioni, tutelate dai principi costituzionali di autonomia e indipendenza».

Anche la pubblica amministrazione, secondo Ciampi, rischia di essere soffocata dalle interferenze dell'esecutivo. È vero che «mostra segni di progresso sul piano dell'efficienza», anche se «i tempi dell'ammodernamento dovrebbero esser più rapidi». Ma il punto è un altro. Non piace al capo dello Stato il metodo più aberrante dello spoils system, l'apparato burocratico deve «rispettare il principio di imparzialità» sancito dall'articolo 97 della Costituzione. Un'invasione della politica nella gestione può ostacolare l'efficienza, demotivare i pubblici dipendenti. È indispensabile che gli apparati di governo si impegnino a rispettare questo precetto costituzionale; l'imparzialità comporta la distinzione tra politica e amministrazione, bisogna lasciare separata la sfera dell'«indirizzo e del controllo» propria degli «organi di governo» e quella della «gestione» propria dei «dirigenti amministrativi».

Ancora: l'economia italiana va proprio male. La diagnosi di Ciampi si discosta da quella, edulcorata del governo: «Il clima congiunturale, nonostante qualche segno di miglioramento non si è ancora tradotto in un aumento della produzione industriale che da tempo ristagna sia perché la domanda interna è debole sia perché la nostra capacità competitiva si è ridotta». Il vademecum presidenziale prevede al primo punto, «pregiudiziale per un rilancio durevole dell'economia italiana», il consolidamento del «risanamento della finanza pubblica». Un «solido» bilancio dello Stato ci farà meritare le fiducie delle piazze finanziarie, oltre che metterci in regola con gli impegni stipulati in sede europea, e potrà essere lo strumento per contrastare i cicli economici negativi. E occorre, aggiunge Ciampi, che il «sistema-Paese» si impegni con unità di intenti nel «recupero di competitività». Qui un altro affondo, che riguarda i tagli in Finanziaria: «Bisogna puntare sempre di più sul binomio ricerca-formazione». E valorizzare il Mezzogiorno.

Un troppo grande «divario» ci separa, infatti, dalle maggiori economie: in Italia le risorse dedicate a ricerca e innovazione sono appena l'1,2 per cento del Prodotto interno lordo, contro l'1,9 della media europea, e il 2,7 degli Stati uniti. C'è «il rischio che venga compromesso il futuro della nostra economia».

In un inciso c'è anche il tempo per ricordare che al più presto bisognerà ratificare il Trattato della Costituzione europea. Si sa che il presidente del Consiglio s'era impegnato a farlo prima di tutti gli altri, ma che per l'opposizione della Lega la ratifica è slittata. Il primo a stringere la mano di Ciampi era Pierferdinando Casini, seguiva il presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida, e infine Marcello Pera che nel suo discorso introduttivo aveva evitato di prendere posizione su alcunché. Berlusconi si guardava le punte dei piedi, e faceva il distratto.

http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=39855

Gli elettori traditi

di Miriam Mafai

Una giornata amara per chi ha creduto e crede nello schieramento di centrosinistra e nelle forze riformatrici dell'Ulivo come le sole capaci di indicare al nostro paese una via d'uscita dalla crisi, dal degrado non solo economico ma sociale e culturale nel quale è stato precipitato da chi, dal 2001, ci governa. Una giornata amara che ha rivelato quanto i gruppi dirigenti della coalizione siano distanti dai sentimenti e dalle speranze del loro elettorato. Sono passati pochi giorni da quando, a Milano, una platea entusiasta acclamava Prodi al grido di "unità, unità, unità". L'eco di quella invocazione non si era ancora spenta e i leader della coalizione annunciavano ieri sera di dover rinunciare all'ipotesi, apparsa vincente alle elezioni europee, d'una lista unitaria alle prossime elezioni regionali.

Interessi personali e di partito, di cui è esempio il leader della Margherita Francesco Rutelli, piccoli protagonismi e ambizioni hanno reso impossibile una soluzione unitaria che qualcuno aveva giudicato, con un eccesso di ottimismo, a portata di mano, dopo il ritorno in Italia di Prodi. Solo per pudore o per ipocrisia potremmo declassare questa decisione al rango di una battuta d'arresto del processo unitario. È più corretto forse parlare di una sconfitta, che investe i leader dello schieramento che a questo progetto avevano lavorato da più di un anno.

Una sconfitta, duole dirlo, anche di Prodi, che dal luglio scorso aveva avanzato per primo la sua proposta di una lista unitaria. Una sconfitta di Piero Fassino che ha impostato, con coerenza e tenacia, tutta la sua azione e lo stesso congresso del suo partito, già convocato per febbraio, su questa ipotesi politica. Una sconfitta per coloro che, in questi mesi, anche al di fuori dei partiti, si erano mobilitati in forme e con inziative diverse, per sostenere queste prospettive. Una sconfitta, e un'amara delusione, per tutti coloro che, anche fuori dei partiti e degli schieramenti politici, avevano chiesto e sperato che le varie forze dell'Ulivo volessero e potessero accantonare le proprie divergenze e giungere invece ad una soluzione unitaria, sia nella definizione di un programma sia nella scelta delle candidature.

Una battuta d'arresto o una sconfitta tanto più amara perché giunge nel momento in cui la Casa delle libertà appare, nonostante una formale ricomposizione delle sue fratture interne, divisa su temi cruciali di politica estera, economica, interna.

Si veda, tanto per fare un esempio, la posizione della Lega a proposito dell'ingresso della Turchia nell'Unione Europea, l'incredibile richiesta di Maroni di cancellare l'art.18, la proposta del vicepresidente Follini di azzerare i vertici della Rai strenuamente difesi, invece, dal ministro Gasparri. Un governo in difficoltà, che sopravvive in virtù di ripetuti voti di fiducia, miserabili espedienti demagogici, vergognose leggi ad personam, cosidette "riforme" in violazione di principi costituzionali, e che con la sua politica sta mettendo in serio rischio non solo l'uguaglianza dei cittadini e il loro tenore di vita, ma anche la democrazia nel nostro paese.

L'opposizione dovrebbe sentire, oggi più che mai, la responsabilità che grava sulle sue spalle. Sono, a ben vedere, le stesse forze politiche che, uscite dalla crisi della Prima Repubblica, seppero trovare attorno a Prodi, nel lontano 1996, la generosità e l'intelligenza necessarie per mettere insieme culture che erano state non solo lontane, ma anche avversarie, rinunciando ai propri simboli e alle ambizioni personali.

Una operazione, quella del 1996, coraggiosa e generosa, che portò l'Ulivo alla vittoria. Molta acqua, da allora, è passata sotto i ponti. E si potrà discutere a lungo sulle responsabilità di coloro che non hanno creduto fino in fondo a quella esperienza, e che hanno, più o meno volutamente, sollecitato il riemergere di pulsioni identitarie, oggi tanto più forti quanto minore è il consenso elettorale. La lunga assenza di Prodi dall'Italia ha, probabilmente, facilitato il riemergere di quelle pulsioni e di ambizioni personali nei vari partiti che facevano e fanno parte della coalizione.

Il ritorno di Prodi non poteva da solo compiere il miracolo di rivitalizzare un Ulivo che aveva già sofferto troppe ferite. Abbiamo assistito così al riemergere anche tra le forze dell'opposizione di nostalgie proporzionaliste che, assieme al tentativo di Berlusconi di modificare la legge elettorale, hanno sollecitato le latenti ambizioni identitarie all'interno del centrosinistra.

Sta anche qui, probabilmente, la ragione o una delle ragioni dell'infelice esito della riunione di ieri, di quella che possiamo chiamare più che una battuta d'arresto una sconfitta nel processo unitario dell'opposizione. Ma una opposizione che, ripiegata su meschini interessi e giochi di parte, non fosse in grado di proporre al paese una via d'uscita dalla crisi in cui si trova, una via d'uscita credibile attorno alla quale raccogliere quanti sono oggi preoccupati per il proprio avvenire e delusi dalla gestione berlusconiana della cosa pubblica, una opposizione incapace di assolvere a questo ruolo, si assumerebbe, non credo di esagerare, una pesante responsabilità di fronte al paese.

Le scadenze sono ormai vicine. Il tempo è ormai una risorsa scarsa. Il rischio è che si accentui la stanchezza, l'amarezza e la delusione in coloro che chiedono, invano e da tempo, una maggiore unità a tutti i propri leader. La vicenda di ieri può significare l'inizio di un vero e proprio declino del consenso attorno alle forze dell'opposizione. A meno che, come talvolta accade nella vita e nella politica, la sensazione del pericolo imminente non spinga a un ripensamento, a un rilancio del progetto unitario sia sul piano programmatico che sul piano organizzativo. Ma chi ne avrà la forza e l'autorità?
(21 dicembre 2004)

http://www.repubblica.it/2004/k/sezioni/politica/proditorna/mafaimiriam/mafaimiriam.html

Un giorno nero

di Furio Colombo

Scriviamo con imbarazzo e persino con incredulità, alla fine di una brutta giornata. È accaduto questo. I leader del centrosinistra, coloro che in Parlamento, nei telegiornali, nei talk show rappresentano l’altra faccia dell’Italia, la speranza di mettere alla porta il rovinoso governo Berlusconi, ieri hanno partecipato a due riunioni in cui avrebbero dovuto decidere tutto: Federazione, lista unitaria, scelta dei candidati per le regionali che potrebbero segnare la prossima grande sconfitta di Berlusconi.

Il disastro Berlusconi rimane e si aggrava. Oggi sappiamo che il capo del Governo e i suoi non riescono nemmeno a mettere insieme la legge Finanziaria. Ma neppure l’estrema vulnerabilità dell’uomo ricco, prepotente e incostituzionale al governo, ha fatto da stimolo a una nuova, grande strategia dell’opposizione. Eppure l’opposizione ha un capo del peso e del prestigio di Romano Prodi. No. Tutti i leader del centro sinistra sono entrati in quelle due riunioni (mancava solo, per un suo disappunto o sospetto, o ragione non pervenuta, Mastella). Ma sono usciti totalmente divisi. Niente Federazione, niente lista unitaria, niente designazione dei candidati, niente simbolo dell’Ulivo. Prodi adesso appare solo e isolato.

Partiti, gruppi e leader dell’opposizione, evidentemente hanno - ciascuno - un progetto e una ambizione diversi. Ciò che è trapelato lascia capire che soltanto i Ds hanno tentato di evitare questa conclusione. Ma lo sforzo non è bastato. Frivolezza o mancanza di senso della realtà hanno portato via gli altri componenti della tavola, come se una pozione magica avesse cancellato per alcuni di essi coscienza e memoria di quello che sta accadendo in Italia.

Un tragico libro sui giorni di Weimar (Von Solomon, I Proscritti) racconta di una immensa folla radunata di fronte al luogo in cui l’opposizione era convocata. Era l’ultima opposizione. Passano giorni, passano notti e dal palazzo non esce nessuno. A poco a poco la folla se ne è andata. È arrivato il nazismo. Ma qualcuno si rende conto del danno immenso che sta provocando, adesso, in questa Italia, prima che ce lo dica la Storia?

l'Unità del 21/12/2004

lunedì 20 dicembre 2004

Partecipa ai gay pride, per il tribunale non può disporre dei suoi beni

(ANSA) - VITERBO, 20 DIC - ''Potrebbe dilapidare i suoi beni per partecipare ai Gay Pride in tutta Italia'': questa e' solo una delle motivazioni con le quali il tribunale civile di Viterbo ha respinto il ricorso di un omosessuale, che aveva intentato una causa civile per far annullare un provvedimento di inabilitazione emesso nel 1981 e quindi disporre liberamente dei suoi averi. Una decisione che ha indignato il diretto interessato, Giovanni Orlandi Brenciaglia, 60 anni, giornalista professionista, figlio di una firma importante del dopoguerra, Vittorio Orlandi, e discendente, da parte materna, della famiglia Brenciaglia, nobili d'antica schiatta, proprietaria, tra l'altro, della Rocca Farnese di Capodimonte, dichiarata monumento nazionale.

''La mia vita - racconta - e' stata segnata dalle discriminazioni'', alcune delle quali - aggiunge - gli hanno impedito anche ''di svolgere l'attivita' di giornalista''. ''Ho avuto solo la solidarieta' e il sostegno del Cardinal Martini - aggiunge Branciaglia - quando era arcivescovo di Milano. Sono dovuto emigrare in America e, nonostante due lauree e cinque lingue correttamente parlate, ho dovuto fare i mestieri piu' umili, tra i quali il portiere di notte''. Tra le motivazioni della sentenza, tra l'altro, si sostiene che Giovanni Orlandi Brenciaglia avrebbe intenzione ''di fondare un ente morale per sostenere le iniziative omosessuali''. ''Non e' affatto vero dice l'interessato - , avevo solo l'intenzione di fondare una piccola casa editrice per fa conoscere il grande amore che Pasolini nutriva per il Viterbese. E siccome il prossimo anno ricorrera' il trentennale della sua morte stavo pensando di ricordarlo in modo adeguato''. La ''prodigalita''' dell'uomo, secondo la sentenza, sarebbe dimostrata anche dal fatto che spenderebbe 5 euro di taxi ogni volta che deve recarsi al centro di Viterbo. ''Ma io - ribatte Orlandi Brenciaglia non ho la patente e tanto meno la macchina. E poi saro' libero o no di spendere i miei soldi come mi pare? Oltre tutto aggiunge io mi reco da La Quercia, dove abito, a Viterbo poche volte al mese, forse spenderei molto di piu' se avessi un mezzo privato''. L'inabilitazione (una forma piu' tenue dell'interdizione) cui l'uomo fu sottoposto nel 1981, a suo dire, sarebbe scaturita dal clima di persecuzione in cui vivevano gli omosessuali negli anni Settanta. ''Credevano che fossi malato, mi consigliarono di ricoverarmi in casa di cura ricorda -, una volta ho dato anche il mio consenso. E fu proprio durante uno di quei ricoveri mi fu nominato un giudice tutelare.

Da allora, per disporre dei miei beni, mi devo far autorizzare dal giudice. Una trafila umiliante. E ancor piu' umiliante e' la motivazione con la quale il tribunale ha respinto il mio ricorso, cioe' perche' sono un omosessuale dichiarato, con un ruolo attivo nei movimenti omosessuali e frequento tutti i Gay Pride. E se, invece, dissipassi i miei soldi per partecipare alle manifestazioni di un partito?''. Un altro aspetto singolare della vicenda giudiziaria di cui e' protagonista Giovanni Orlandi - Brenciaglia riguarda le testimonianze. ''Avevano citato 56 testimoni conclude -, se ne e' presentato solo uno: mio fratello, ovviamente contrario all'annullamento del provvedimento del 1981''. Unico motivo di consolazione per l'uomo, le manifestazioni di solidarieta' ricevute da chi e' venuto a conoscenza della sentenza.

http://www.gaynews.it/view.php?ID=30379

Iraq: soldato USA fa sesso con un irakeno e lo uccide, condannato

Ha agito in un momento di "panico gay"

Un soldato della North Carolina ha ucciso un ragazzo iracheno di 17 anni dopo avere avuto con lui un rapporto sessuale consensuale.

Il soldato della Guardia Nazionale, Federico Daniel Merida, 21 anni, di Biscoe, e' stato condannato, da una corte marziale, a 25 anni di carcere e sara' congedato con disonore.

Il soldato, secondo quanto riferisce un giornale locale, il The News and Observer, che ha avuto accesso a documenti della Corte Marziale, s'e' riconosciuto colpevole: il giovane ha detto di ''essere andato fuori di testa'', dopo il rapporto sessuale.

La vittima, secondo fonti di stampa e irachene, si chiamava Falah Zaggam e s'era arruolato nelle forze di sicurezza irachene: era, dunque, un alleato, non un nemico, dell'americano.

I due erano, anzi, di turno di guardia insieme, l'11 maggio, in un campo nei pressi di Tikrit, a nord di Baghdad, quando il dramma si svolse. Merida prima cerco' di accreditare la tesi della legittima difesa, poi ammise di avere agito in un momento ''di panico gay''.

http://www.gaynews.it/view.php?ID=30376

domenica 19 dicembre 2004

A carte scoperte

di Furio Colombo

Molti dei problemi affrontati finora da chi ha fatto opposizione al governo Berlusconi nascevano da una certa bravura del vasto giro governativo di negare tutto, di dire altre cose, di cambiare discorso nei momenti più imbarazzanti. Certo, si può fare solo se tutti i media rispondono, per comando o intimidazione. Hanno risposto al punto che molti cittadini in buona fede rimproverano a volte l’opposizione di dire cose non vere. Lo dicono perché quelle cose non corrispondono alle narrazioni delle televisioni e della maggior parte dei giornali.

Improvvisamente il vento è cambiato. Berlusconi parla e si comporta con sfrontata chiarezza, dice esattamente ciò che intende dire e lo conferma, felice, naturalmente, del codazzo di media che come sempre lo asseconda in tutto, capricci e vanità incluse (ora che gli sono ricresciuti un po’ i capelli, dopo il trapianto, tutte le inquadrature di tutte le macchine fotografiche e telecamere improvvisamente hanno adottato l’angolatura giusta per farcelo vedere). Per la prima volta in tre anni e mezzo, dice cose che dovrebbero essere un’autoaccusa. Ma le dice, le ripete, le fa diffondere. Lo fa con vitalità e con impegno.

A coloro che a questo punto mi dicono: ma state parlando di nuovo di Berlusconi, non è troppo? Non dovremmo parlare del Paese? mi sento di rispondere: stiamo parlando del Paese. Nel Paese qualcosa è cambiato, forse perché stiamo raggiungendo un punto critico nel processo di smantellamento, abbandono, distruzione dello Stato che certo non è opera di Berlusconi da solo.

Vorrei portare alcune prove di ciò che dico.

La prima: Berlusconi lancia l’evento di Venezia con il nome di “NO TAX DAY” . NO TAX non vuol dire ridurre il prelievo fiscale, e non ha nulla a che vedere con il normale dibattito sul come si possa alleviare il peso di ciò che ricade sulle spalle dei cittadini. “NO TAX” vuol dire “NO TAX” e c’è da domandarsi in quale Paese democratico un capo di governo potrebbe usare un simile azzardo, che si traduce come segue: niente da nessuno, niente per nessuno. E con totale impudicizia dice che il fondamento della sua affermazione è nella «legge naturale». E’ una affermazione priva di senso. Ma che - con tolleranza - tutti i giornali accettano, come una sorta di «creazionismo» del sistema fiscale.

Non è uno scherzo. È il preannuncio di una spallata violenta allo Stato. Si tolga di mezzo e faccia largo agli interessi privati. Non tutti i privati. Qui si parla dei privati che, al momento, sono anche titolari del potere politico.

Si affaccia una cultura molto simile, dal punto di vista del metodo, al paleo-comunismo staliniano. Il partito (e la strategia elettorale del suo leader) viene prima e al di sopra dello Stato. Lo Stato può essere sacrificato agli interessi della fazione politica che governa.

“NO TAX DAY” non è soltanto una boutade elettorale. Chi l’ha organizzata e condotta appare serio, credibile, determinato. È una sfida alla Costituzione, alle Istituzioni, il tentativo di tendere una trappola mortale, in vista delle prossime elezioni, agli sfidanti, per poterli definire “Partito delle tasse”.

L’opposizione non è caduta nella trappola. Ma adesso sappiamo con chiarezza che la linea che divide la democrazia dal governo si è spostata su un punto estremo.

Cerca lo smantellamento dello Stato, il protagonismo di un solo personaggio e l’invito a formare banda per l’evasione totale. Evasione non solo dalle tasse. L’appello è molto più vasto: evadere tutte le regole e tutte le leggi. O perché vengono alterate senza più finzioni, ma anzi sbandierando come legittimo l’interesse personale. O perché si leva un clima di favore per ogni violazione, per ogni illegittimità. Avviene attraverso il sistematico antagonismo contro tutti gli strumenti di cui si era provvisto lo Stato per combattere i reati più gravi.

Come ha spiegato Fassino nel suo intervento alla Camera, come ha scritto Gerardo D’Ambrosio nel suo commento alla incredibile legge “salva-Previti” (entrambi i testi pubblicati su questo giornale) si tratta di deformazioni gravissime del diritto penale, che facilitano i peggiori reati e che vengono approvate con urgenza per le peggiori ragioni. Il dato nuovo è che queste ragioni non sono più motivo di negazione e di vergogna.

Diventa clamoroso lo scontro. Lo scontro non è fra maggioranza e opposizione. Lo scontro è fra Governo e Stato. Lo dicono anche le motivazioni con cui il Presidente Ciampi ha rinviato alle Camere la legge sulla cosiddetta riforma della Giustizia, non solo dove si fanno notare clamorose incostituzionalità, ma anche dove il presidente sottolinea il pessimo modo di concepire e di scrivere una legge, bloccando in un solo articolo fino a 39 pagine di testo e usando giganteschi e deformi maxi-emendamenti concepiti per ostacolare l’opposizione ma anche per bloccare gli eventuali dissensi o spaccature interne.

Ovvero per impedire che la democrazia funzioni.

* * *

La prova di tutto ciò che abbiamo detto e andiamo denunciando su questo giornale contro il pericolo grave rappresentato per il nostro Paese da questo governo, viene da due voci che non sono di sinistra e non hanno interessi di opposizione. Ma parlano, con gravissima ansia, da cittadini italiani.

Mi riferisco all’appello che Mario Segni ha voluto pubblicare sul nostro giornale. Ricordate? Iniziava con queste parole che si usano solo per circostanze estreme (e risulterà difficile definire Mario Segni un estremista, come a molti piace fare con noi): «L’Italia sta perdendo la civiltà. Un Paese non rimane civile se non ha più passione per la vita pubblica. Ancor meno rimane civile se perde completamente il senso del giusto e dell’ingiusto, del lecito e dell’illecito». Con queste frasi drammatiche Segni si riferisce al processo Berlusconi di Milano e a quella che i cortigiani di governo hanno celebrato come “assoluzione e liberazione.” Segni continua infatti dicendo: «Il fatto della corruzione mediante versamento di denaro è stato accertato. Il fatto è straordinario. Ripeto la parola: straordinario. È la prima volta che un reato di tale gravità viene accertato giudizialmente a carico della più alta carica politica. Queste sono cose che il Paese deve sapere, valutare, discutere. Ma non è possibile che taccia, che per una sorta di tacito accordo generale, la cosa venga ridimensionata, svilita, dimenticata».

L’altra voce, altrettanto estranea ad ogni progetto politico di opposizione, ma evidentemente in coincidenza profonda con i sentimenti di tanti cittadini, è quella di Luca Montezemolo. Il presidente della Confindustria non può tacere sul paesaggio sul quale si affaccia, data la sua responsabilità: «Mai l’economia italiana è stata in condizioni così drammatiche dal 1945».
È una frase chiara e durissima che colpisce due volte. La prima per far sapere che, dal punto di vista degli industriali, la situazione è giunta a un punto estremo di gravità. C’è dunque un effetto di rottura della vasta omertà di stampa e televisione, una rottura che ha certo fatto trasalire molti cittadini.

Ma la frase di Montezemolo costringe tutti, anche i disorientati e i distratti, a rendersi conto che l’Italia sta affondando mentre il suo governo si occupa esclusivamente di leggi speciali per Berlusconi e per gli altri inquisiti legati a lui. E qui interviene ancora una volta il nuovo corso dello spettacolo di cui siamo spettatori attoniti.

Berlusconi va a Bruxelles per liberarsi dalle regole del trattato di Maastricht, e lo dice con aperta disinvoltura, come per proclamare il merito di un guerriero. Spaccia frasi generiche degli altri capi di governo come consensi. Sarà smentito entro due o tre giorni ma non importa. Le sue tv non lo diranno. Finge di non sapere di quale immenso debito sono gravati i conti pubblici italiani. Nessuno lo ricorderà ai nostri cittadini.

Berlusconi va a Venezia, al suo NO TAX DAY di aperta offesa alla Stato e alla democrazia, e non esita a proclamare due persuasioni che screditerebbero qualunque capo di governo in cerca di rielezione.

La prima è il suo disprezzo per la “par condicio”. Come è noto la “par condicio” è una modesta legge che prevede parità di accesso ai media durante la campagna elettorale. È un piccolo rimedio all’immensa illegalità italiana: un capo partito, capo governo, capo azienda che possiede tutto. Lui promette di cancellare anche quella leggina, in modo che diminuisca il più possibile il numero di coloro che possono far sentire la loro voce contro la sua. La seconda persuasione che vuole condividere con noi è un pensiero basso e volgare: «andare a votare è come andare al supermercato». Si sceglie ciò che la pubblicità ti ha già indotto a scegliere. Di solito questo è l’argomento di chi denuncia che la democrazia viene soffocata dal denaro. Berlusconi ha fatto propria questa squallida prospettiva senza vergogna. E conclude (lui, proprietario di Mediaset e padrone politico della Rai): «Tutto avviene in televisione, non avete visto le elezioni americane? Ciò che conta è apparire sempre in Tv. Perché dovrei dividerla con altri?». Lo dice lui, capite? Lo dice apertamente, trasformando in programma elettorale l’accusa e lo scandalo di tutta l’Europa contro di lui. Il progetto non è di persuadere. Il progetto è di intimidire, di far vedere chi comanda.

Per questo ieri Antonio Padellaro ha scritto su questo giornale un appello che, come dimostra l’Unità di oggi, non è caduto nel vuoto. «Dobbiamo ritornare in piazza in tanti, insieme», ricordando il milione di cittadini che si è spontaneamente presentato il 14 settembre 2002 in Piazza San Giovanni a Roma per dire no, fin da allora a questo barbaro modo di governare.

Per questo, anche senza le televisioni e i grandi giornali, anche in questa condizione estremamente difficile che, come dice Montezemolo, è la peggiore in Italia dal 1945 che, come dice Claudio Magris sul Corriere della Sera di sabato è di piena e inaccettabile illegalità, dobbiamo far sentire ben chiara la voce di tutti, dalla vita di tutti i giorni, dal lavoro, dalle piazze, cittadini e politici, volontari e militanti e tutta la società civile che non vuole più vergognarsi di fronte al resto del mondo. Ormai sono in tanti, tra coloro che seguono la politica attentamente e tra coloro che sono occupati soprattutto con i propri impegni e la propria vita, a rendersi conto che è diventato impossibile accettare, tergiversare e tacere. Non è estremismo. È democrazia.


da l'Unità del 19/12/2004

Uno straccio di laicità

Sex crimes and the Vatican

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