«L'otto per mille originariamente doveva essere devoluto tutto agli aiuti al terzo mondo, alla cultura e a cose di questo genere. Poi una parte venne utilizzata per le missioni all'estero. E una parte anche per l'Iraq». Giuseppe Vegas, vice-ministro dell'Economia nell´ultimo governo Berlusconi, conferma candidamente quanto già denunciato il 2 luglio 2005 da l'Unità e adesso riproposto anche da Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente del Fai (Fondo per l´ambiente italiano): l'otto per mille che i cittadini italiani hanno voluto assegnare al restauro dei beni culturali, alla lotta alla fame, all´assistenza ai rifugiati, e alle calamità naturali, è andato invece a finanziare la missione militare in Iraq.
«Era stata sottratta una parte originariamente poi il resto è stato lasciato per le varie scelte che son state fatte sull'otto per mille» spiega il senatore di Forza Italia. Ma, in concreto, quanto andò all'Iraq? Chiedono i giornalisti all´ex sottosegretario «Attorno a un terzo, circa 80 milioni», ammette candidamente Vegas.
La notizia dell´uso improprio dell´8 per mille è stata rilanciata in mattinata dal presidente del Fai: «Mi ha colpito quello che mi ha detto Enrico Letta, e cioè che l'otto per mille che i cittadini italiani hanno assegnato all'arte, alla cultura e al sociale è stato attribuito alla guerra in Iraq e solo una minima parte è stata data per combattere la fame nel mondo – ha detto Giulia Maria Mozzoni Crespi in apertura di un convegno sulla tutela dei beni ambientali – Letta lo aveva detto in una conferenza, ma mi ha riferito desolato che era stato pubblicato solo in un trafiletto da un quotidiano».
In effetti lo scorso 31 agosto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Enrico Letta, al termine di una riunione del Consiglio dei ministri, aveva dichiarato che l´esecutivo, affrontando la questione dell'8 per mille per quel che riguarda la quota statale, aveva scoperto un "buco" di diversi milioni: «Questa quota, all'incirca 110 milioni di euro, con le Finanziarie degli anni scorsi è stata decurtata, e i fondi usati per altri scopi – disse Letta - Per questo abbiamo trovato soltanto 4,7 milioni di euro su gli oltre 100 che dovevano essere disponibili».
http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=60970
sabato 11 novembre 2006
Berlusconi usò l'8 per mille per la guerra in Iraq
mercoledì 8 novembre 2006
Luca e Francesco, sposati due volte
Torino, la coppia omosessuale sposata con rito cattolico in Italia, per la prima volta, nel 1978. Ora sono convolati in Spagna.
Don Franco: "Li sposai in clandestinità"
Il prete 'ribelle' sospeso a divinis continua a celebrare messa
"La fede è superiore alla dottrina della Chiesa. L'amore è un dono di Dio"
di ALBERTO CUSTODERO
LUCA e Francesco sono gli unici gay al mondo ad essersi sposati due volte. Il loro primo matrimonio è stato religioso, celebrato in totale segretezza, il 4 febbraio del 1978, a Pinerolo (nel Torinese), da un sacerdote, don Franco Barbero. Il secondo - in piena ufficialità - che li ha resi legalmente "coniugi" (formula che sostituisce un improbabile marito e moglie), si è svolto in Spagna grazie alla recente legge che autorizza i matrimoni gay.
Luca e Francesco, quando sono stati dichiarati "sposi" da don Franco, avevano rispettivamente 27 e 31 anni, il primo era commesso in un negozio di alimentari, il secondo professore di lettere al liceo. Un paio di anni fa, sapendo che il governo laico di Zapatero, in una cattolicissima Spagna (dopo Belgio e Olanda), di lì a poco avrebbe reso legali i matrimoni omosessuali, si sono trasferiti nei pressi di Malaga, sulla Costa del Sol, per diventare cittadini spagnoli.
E così, a maggio di quest'anno, 10 mesi dopo l'approvazione della legge Zapatero, nel municipio di una cittadina dell'Andalusia si sono giurati fedeltà per la seconda volta. Oggi (uno 59enne, l'altro 55enne, entrambi in pensione), sono forse i primi omosessuali italiani a essere stati dichiarati "coniugi" in Spagna. A raccontare la loro lunga storia d'amore durata 28 anni e "consacrata" da due matrimoni, uno cattolico e l'altro laico, il primo clandestino, il secondo alla luce del sole, è il sacerdote pinerolese.
Don Franco, tre anni fa, per la sua teologia che considera "non trasgressione, ma oltrepassamento" della dottrina cattolica (è per una rilettura dei dogmi alla luce del vangelo e dei priblemi della società contemporanea), fu sospeso a divinis da Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, oggi papa.
Nonostante quel provvedimento che suscitò molto clamore negli ambienti del cattolicesimo progressista italiano, il prete "ribelle" ("ma non gay", precisa), fondatore della comunità di base "Viottoli", continua a celebrare messa come se nulla gli fosse successo rifacendosi al dogma cattolico (semel sacerdos, semper sacerdos), secondo il quale chi un giorno è stato ordinato sacerdote, lo rimane per sempre.
"Ricordo quel 4 febbraio di 28 anni fa come fosse ieri - racconta don Franco - la cerimonia, segreta, è stata semplice, colorata da qualche mazzo di fiori, ma senza
festa, né canti, né musica. Solo tanta gioia intorno al tavolo nella sede della comunità. Eravamo in 5, Luca e Francesco, i due testimoni (uno dei due era un omosessuale che aveva sofferto le pene dell'inferno per essere stato relegato fra gli 'impuri'), e io, in camice e stola. Fu una celebrazione normale, con la
comunione sotto le due specie, e il solito calice".
Non fu certo facile, per un don Barbero allora trentanovenne (oggi ne ha 68), due anni prima della Fondazione Sandro Penna, il primo movimento omosessuale italiano voluto da Angelo Pezzana, compiere un gesto così azzardato e così contrario alla dottrina della Chiesa. "Quel matrimonio - ricorda il sacerdote - rappresentava per gli 'sposi' e per me una scelta convinta e felice che vivemmo come fosse una cosa naturale. Nel febbraio del 1978, però, era un
fatto che non potevo comunicare a nessuno. Segretissimo".
I tempi, allora (a Torino s'inziavano i processi alle Bierre di Curcio, il 16 marzo ci sarebbe stato il sequestro Moro), non erano ancora maturi per parlare di "matrimoni omosessuali". "Per questo - ha aggiunto il sacerdote - era un episodio da chiudere. Noi della comunità di base eravamo impegnati nella lotta contro il concordato e la Dc in quella contro il terrorismo. Il vaticano (dopo la dichiarazione 'Persona Humana' di Paolo VI), era ostile agli omosessuali e a nulla era valso lo 'strappo' dell'Associazione dei teologi americani che pubblicò 'La sessualità umana'. Anche avessi voluto, non avevo interlocutori".
Don Franco non si fermò con Luca e Francesco. "Dopo il primo episodio - racconta - continuai a essere sollecitato a celebrare segretamente matrimoni. Fra l'83 e l'84 ne feci in tutto una sessantina in regime di totale clandestinità non solo fra maschi, ma anche fra donne. Qualcuno aveva portato il papà, pochissimi la mamma".
Il prete pinerolese ha sempre avuto la consapevolezza che difronte alla legge della Chiesa quei matrimoni non fossero riconosciuti. "Ero cosciente - ha confessato - di compiere un rito gravemente peccaminoso. E le coppie gay lo erano di fare un atto non valido". Perché, allora, li celebravano? Ecco la "teologia" sui matrimoni gay del prete "ribelle". "Per noi, la fede è superiore alla legge ecclesiastica che va presa per quello che vale visto che non è mai uguale nel tempo. Noi, con tranquillità, diciamo: una cosa è la dottrina della Chiesa, un'altra il dono di Dio della fede che libera dall'obbedienza - e in questo caso schiavitù - della norma. Ebbene, quando due uomini o due donne
hanno capito che quel loro amore è un dono di Dio, davanti a lui ritengono di essersi sposati. È questo il significato che i gay danno alla cerimonia nuziale che
non ha valore di fronte alla legge civile, ma costituisce un cammino di fede".
(8 novembre 2006)
http://tinyurl.com/ycrcp3
lunedì 6 novembre 2006
Dov'è finito l'architetto del ponte?
di Curzio Maltese
La destra scialacqua, la sinistra è chiamata a risanare i conti. Il meccanismo dovrebbe essere ormai chiaro. Un lettore mi ha ascoltato raccontare in tv la storia del ponte sullo Stretto e siccome il programma era satirico mi chiede se avessi scherzato. Niente affatto.
Dopo tanti proclami alla nazione, demonizzazioni degli oppositori "nemici del progresso", il bilancio è questo: il governo Berlusconi ha buttato a mare seicento o settecento milioni di euro per non cominciare neppure i lavori.
Il conto è rapido. Oltre 150 milioni sono stati sprecati per gli studi preparatori, in laute consulenze agli amici degli amici per studiare fra l'altro il "flusso dei cetacei fra Scilla e Cariddi", "l'mpatto psico-socio-antropologico dei lavori sulla popolazione locale". Una montagna di 126 chili di carta che giace negli uffici del ministero. Un altro centinaio di milioni per l'esproprio dei terreni, nel tripudio delle cosche. Ed è da record la penale che lo Stato dovrà pagare all'impresa appaltatrice, l'Impregilo: 388 milioni di euro. Il ponte doveva essere una delle più grandi opere pubbliche d'Europa ed è invece la truffa del secolo.
Si poteva immaginare che non si sarebbe mai fatto? Si doveva. I mercati ne erano sicuri. Quando l'Impregilo vince l'appalto, il titolo crolla in borsa di quasi il 6 per cento. Appena il Parlamento decide che non si farà nulla, la quotazione schizza in alto. Nessuno ha mai creduto che il lavoro si sarebbe fatto. Tutte le imprese straniere si erano ritirate dall'asta, dove la vittoria dell'Impregilo era annunciata, fra l'altro, da una telefonata dell'amministratore delegato Savona, intercettata per caso dai magistrati di Monza: "Tranquilli, l'appalto è nostro, me l'ha giurato Dell'Utri".
Il mondo dell'architettura internazionale è impazzito per capire come gli italiani potessero credere al progetto. In particolare i giapponesi, massimi esperti, che vantano il ponte più lungo a una campata, l'Akashi Kyokyo, 1960 metri. Volevano farci passare una linea ferroviaria, ma gli ingegneri hanno spiegato che non esistono materiali in grado di reggere una struttura simile: sarebbe crollato tutto.
Il ponte sullo Stretto avrebbe dovuto essere lungo quasi tre chilometri e mezzo e con due linee di ferrovia, non una. Chi era l'autore di una simile meraviglia? Renzo Piano, Richard Rogers, Norman Foster? Macchè, un certo William C.Brown, nipote di un più famoso William H.Brown che ha progettato un paio di ponti in Africa ai tempi delle colonie. Un carneade mai nominato da nessuna rivista di architettura del Pianeta. Due architetti italiani, Ugo Rosa e Domenico Calandro, hanno lanciato una "caccia a mister Brown" e hanno scritto l'esilarante diario su Internet. Pare che sia scomparso qualche mese fa.
Nessun architetto serio avrebbe mai messo la firma su quel progetto. Ma per Marcello Dell'Utri e Pietro Lunardi non era un problema.
dal Venerdì di Repubblica del 3 Novembre 2006