venerdì 5 ottobre 2007

L'Austria verso l'approvazione delle unioni omosessuali

A Vienna sono i democristiani che vogliono i Pacs Qualche critica arriva da sinistra, ma la legge si farà


Per il momento non se ne fa nulla, ma non è lontano il giorno in cui in Austria le coppie omosessuali avranno il riconoscimento ufficiale dello stato. In favore della nuova disciplina, infatti, non sono soltanto i socialdemocratici della Spö e i Verdi, ma anche i democratici cristiani della Övp, legati ai socialdemocratici in una grosse Koalition. È proprio la posizione assunta dai dc che rende praticamente certa l'adozione della cosiddetta «partnership certificata per gli omosessuali», la quale dovrebbe presto approdare in parlamento, dove può contare su una maggioranza schiacciante: contrari potrebbero essere solo una parte dei liberali della Fpö e, probabilmente, qualche isolato deputato popolare in vena di obiezione di coscienza.

In realtà, un intoppo c'è stato. Il Consiglio dei ministri che mercoledì avrebbe dovuto affidare alla ministra della Giustizia Maria Berger (Spö) il mandato di preparare il progetto di legge si è concluso senza che ciò avvenisse, nonostante che il testo proposto dalla ministra fosse tale e quale a quello adottato nel Perspektivenpapier, cioè il programma, della Övp e che la posizione di piena apertura dei dc fosse stata confermata appena lunedì scorso. Proprio questa conferma aveva fatto cadere gli ultimi timori che i dirigenti popolari, o almeno una loro parte, si rimangiassero una posizione che era stata presa dopo un duro braccio di ferro con gli ambienti del partito più moderati e più legati alle gerarchie cattoliche. La proposta infatti è stata fatta oggetto di pesanti contestazioni, arrivate non solo dall'episcopato dominato dagli orientamenti conservatori dell'arcivescovato di Vienna, ma anche - almeno così si dice - direttamente dal Vaticano, dove il Papa bavarese non manca di prestare una speciale attenzione a quanto matura nell'inquieta comunità cattolica austriaca. Ancora domenica scorsa, in molte chiese si è pregato perché «la legge che sconvolge le nostre tradizioni e mette in pericolo la famiglia» non venga mai approvata. La chiesa cattolica austriaca, d'altronde, in fatto di giudizio sulla omosessualità non è mai stata particolarmente aperta o caritatevole. Nel 1787 si ribellò persino all'imperatore Giuseppe II che eliminò dal codice la pena di morte per la sodomia e anche la precedente riforma, quella del codice theresiano, era stata criticata dalle gerarchie come troppo "permissiva" rispetto alla precedente Constitutio criminalis carolina che puniva in modo draconiano ogni comportamento sessuale «deviante».

È certo possibile che questi mal di pancia, espressi da una parte (comunque minoritaria) della comunità cattolica abbiano frenato la Övp inducendola a un provvisorio dietro-front. Il capogruppo parlamentare Wolfgang Schüssel ha dichiarato che non era stato espresso alcun impegno, da parte del suo partito, ad affidare il mandato alla ministra Berger già mercoledì scorso e che i dirigenti dc si riservano il diritto di leggere bene il testo prima di dare il loro assenso. L'impressione comunque è che si tratti più di una manovra d'immagine che di un reale contrasto. Tutti sanno che la proposta che sta per approdare alla Camera ricalca in tutto e per tutto la posizione espressa nel Perspektivenpapier: le coppie omosessuali potranno certificare la loro partnership davanti agli ufficiali dello Stato civile e verranno inserite in un apposito registro. Non avranno il diritto di adottare minori e la loro unione in alcun modo configurerà un matrimonio, neppure in versione "light". Critiche e perplessità, semmai, sono arrivate da sinistra, da ambienti della stessa Spö e soprattutto dai Verdi, che giudicano troppo timida e poco coraggiosa la normativa proposta.

Poiché lo stesso Schüssel, che è la massima autorità nel suo partito, ha fatto sapere che la posizione della Övp non è cambiata e poiché lo stesso cancelliere Alfred Gusenbauer (Spö) ha preso con i cinque ministri socialdemocratici l'impegno di non tornare indietro, appare molto probabile che il mandato a Maria Berger sarà affidato in tempi relativamente brevi. La richiesta che i popolari potrebbero rivolgere a Gusenbauer sarebbe di affiancare nella stesura del testo alla ministra della Giustizia i due ministri cattolici che possono rivendicare una qualche competenza sulla materia: la titolare del dicastero della Sanità, dei Giovani e della Famiglia Andrea Kdolsky e quello dell'Interno Günter Platter.

Ci sono pochi dubbi, comunque, sul fatto che fra qualche settimana l'Austria raggiungerà il novero dei paesi europei in cui alle coppie gay si garantiscono per legge diritti e pari dignità.


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Senza legge sui PACS costretti all'ipocrisia del matrimonio

Lettera a "Il Secolo XIX"


Sono rimasta molto amareggiata dalla vicenda del matrimonio "in articulo mortis" dell'agente del Sismi, che è stato ferito gravemente in Afghanistan ed è deceduto ieri. I telegiornali hanno detto che è stato un estremo atto d'amore sposare la compagna che gli ha dato tre figli e così, con lui in coma, si è celebrato il matrimonio. Mi ha turbato è il fatto che la sua povera compagna, se non fosse stato celebrato il matrimonio, non avrebbe avuto nessun diritto riconosciuto dalla legge, una legge sulle coppie di fatto che non è stata voluta da molti ipocriti in nome del rischio che avrebbe potuto generare sui matrimoni gay e sulla possibilità di adozione alle coppie gay. Come se non si potesse prendere la patente per il rischio di diventare pirati della strada. Se Lorenzo D'Auria fosse morto in Afghanistan? La sua compagna non avrebbe avuto niente per il suo sacrificio? Se a cadere in coma fosse stato un muratore precipitato da un'impalcatura, il ministro Parisi avrebbe fatto la stessa cosa così in fretta per sveltire l'iter dei permessi e delle autorizzazioni alla celebrazione del matrimonio? E la Chiesa avrebbe dato la sua ipocrita benedizione perché"in articulo mortis"?

Germana Chistoni
VALBREVENNA (GE)

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giovedì 4 ottobre 2007

Camera: approvato OdG contro l'omofobia a scuola

E' stato presentato ieri e votato favorevolmente dai deputati, un ordine del giorno che impegna il governo ad attuare misure concrete contro il bullismo e le discriminazioni verso gli studenti LGBT

Ieri la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno presentato, tra gli altri da Titti De Simone e Vladimir Luxuria in cui si chiede che il governo “si impegni a sviluppare un protocollo d'intesa per la prevenzione della violenza ai danni degli e delle adolescenti omosessuali tra Ministero della pubblica istruzione, Dipartimento per i diritti e le pari opportunità, Associazione nazionale di genitori, parenti e amici di omosessuali (AGEDO), associazioni di genitori e associazioni omosessuali e transessuali, per prevenire episodi di omofobia, transfobia e razzismo”.

Il testo, presentato in riferimento al Decreto Legge emanato per assicurare l'ordinato avvio dell'anno scolastico appena iniziato chiede anche all'esecutivo di sensibilizzare tutti gli enti e istituti che si occupano di istruzione e formazione per spingerli a realizzare seminari di studio e corsi di formazione e di aggiornamento per docenti e dirigenti scolastici, con riferimenti speciali all'educazione al rispetto delle diversità. Inoltre l'ordine del giorno chiede che si organizzino e diffondano nel mondo della scuola nei diversi gradi di istruzione, dei progetti da realizzare in collaborazione tra le associazioni di genitori di studenti omosessuali e transessuali e le altre associazioni di genitori.

Non ultimo si chiede di promuovere eventi e iniziative culturali che contribuiscano alla prevenzione del bullismo e della violenza, specialmente quella che colpisce le gli studenti omosessuali.
L'approvazione del testo è stata accolta con soddisfazione dai firmatari dell'ordine del giorno. “Mi sembra un buon risultato”, ha dichiarato Titti De Simone.

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Sbarca a Firenze l'arte gay dello scandalo

In una palazzina della stazione «Vade retro», la mostra oscurata a Milano


PENSATA a Milano, approda a Firenze. La mostra sull’omosessualità “Vade retro”, voluta dall’assessore alla Cultura, Vittorio Sgarbi, e oscurata dal sindaco, Letizia Moratti, sarà aperta nella Palazzina Reale della stazione di Santa Maria Novella (dal 23 ottobre al 6 gennaio), spazio neutrale concesso in affitto dalle Ferrovie. L’organizzazione della rassegna è di Artematica, mentre il patrocinio del Comune è ancora al vaglio dell’assessore Giovanni Gozzini. Tutto è legato all’esposizione dell’opera di Paolo Schmidlin, “Miss Kitty”, con ritratto un soggetto che assomiglia al Papa. «L’esposizione sarà integrale — ha spiegato Sgarbi — ma stiamo vagliando se includere l’opera che ha suscitato lo scandalo». Intanto, si parla della possibilità di isolare “Miss Kitty” in una stanza protetta da una tenda, ad uso esclusivo di chi vuole visitarla. Le decisioni definitive saranno prese nelle prossime ore.

LA MOSTRA arriva a Firenze dopo una serie di sì e di no. In un primo tempo, sembrava che dovesse andare a Napoli, ma la richiesta di 300 mila euro di affitto ha gelato gli entusiasmi, poi è stata la volta di Taormina. «Io ero propenso a partire da lì» - ha confermato l’assessore Sgarbi, ma Andrea Brunello, l’amministratore delegato di Artematica, stava trattando con Campione d’Italia. Il presidente del casinò era d’accordo a ospitarla, sembrava tutto fatto, ma anche quella giunta comunale ha arricciato il naso, per cui si è bloccato tutto.

PADOVA ha mostrato le stesse perplessità, mentre la città di Savona si è dichiarata disponibile. Gli organizzatori però hanno rifiutato l’offerta, perché la rassegna sarebbe stata troppo ristretta. Perfino dalla provincia di Sondrio, da Tirano, è arrivato un sì, ma il proprietario del palazzo, in cui sarebbe stata allestita la rassegna, ha avuto il pollice verso dall’amministrazione comunale. Si sono fatte avanti Campobasso e Isernia, come l’Istituto culturale italiano a Londra, dove probabilmente andrà. Una richiesta è giunta da San Paolo del Brasile. Nella lista figurano pure comuni vicini a Milano come Sesto San Giovanni e Arconate, rifiutati perché si cercava un respiro più ampio.

VITTORIO SGARBI non ha abbandonato l’idea di Taormina: «Avrà la mostra in seconda battuta. Firenze mi sembra comunque una soluzione onorevole, anche se mi sarebbe piaciuto partire da Milano». Su come andrà la rassegna non ha dubbi: «Sarà un successo» e invita a valutarla dopo averla visitata: «Non prima, come ha fatto anche l’assessore Gozzini, che non era contrario ai principi della mostra, ma non l’aveva mai vista. Poi però si è convinto». Tra proposte e rifiuti, il bilancio, per l’assessore milanese, non è negativo: «Le soddisfazioni sono arrivate da amministrazioni disponibili» mentre «alcuni entusiasmi sono stati spenti dalle giunte locali». Alla fine, la vede come una vicenda di costume, che non andrebbe enfatizzata. L’ultima parola spetta infatti al pubblico.

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Gay salernitano a Prodi: «Quando approvate la legge sulle unioni di fatto?»

Pasquale Quaranta, premiato tra i 50 migliori studenti italiani, gela platea e Palazzo Chigi
di Angela Cappetta


Non avviene tutti i giorni di essere premiato dal presidente del Consiglio dei Ministri, Romano Prodi. Soprattutto se il premio è riservato ai migliori 50 studenti italiani. Ma, anche la più prestigiosa delle onorificenze soccombe di fronte alla «negazione» dei diritti civili. Tanto da indurre un blasonato neolaureato a rifiutare di stringere la mano al premier e tanto da far sudare freddo lo stesso capo del Governo. Il neolaureato in questione è Pasquale Quaranta, portavoce ed organizzatore del GayPride di Salerno, ex consigliere dell'Arcigay nazionale ed ex redattore del canale satellitare rivolto agli omosessuali. Tutta colpa di una domanda imbarazzante: «Signor presidente, quando approvate la legge per le coppie di fatto?», chiede il giovane salernitano al termine della cerimonia di consegna degli attestati a Palazzo Chigi. Ma Prodi, che forse non si aspettava tanta spontaneità, altro non fa che abbassare la testa e sudare freddo. La risposta? Interminabili secondi di silenzio: il premier rimane a bocca chiusa. Per fortuna che in suo soccorso arriva il ministro alla Difesa, Arturo Parisi, che, guarda Pasquale, circondato dagli altri suoi colleghi, e gli risponde: «È il Parlamento che approva le leggi». L'ironia di Parisi autorizza il sarcasmo di Pasquale. «Grazie», risponde il neolaureato, da ieri anche blasonato e che per l'occasione indossava una cravatta dai colori dell'arcobaleno, simbolo del movimento gay. Poi, quando l'imbarazzo del premier - non certo di Pasquale che oltre ad intascare la sua onorificenza ottiene anche la solidarietà ed il plauso dei colleghi - si nasconde dietro l'ufficialità della cerimonia, comincia la fila per la classica stretta di mano. Primo affronto: Pasquale si sottrae al gesto. Secondo affronto: il giovane salernitano rifiuta di partecipare alla foto di gruppo. «Ecco cosa succede quando una voce omosessuale chiede la garanzia dei diritti civili - commenta rammaricato Pasquale al rientro a Battipaglia dove vive - siamo invisibili. Non ci degnano neanche di una risposta. Proprio Prodi poi che ha fatto dei Pacs uno dei punti del suo programma elettorale».

E pensare che, qualche giorno prima, in occasione di un convegno a Bologna organizzato dalla stessa scuola post lauream che ieri ha fatto premiare i neolaureati (Alma Graduate School), Pasquale ha chiesto all'arcivescovo del Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali, monsignore Claudio Celli, perché la Chiesa «ci considera peccatori». L'arcivescovo, a differenza del premier, non si fa cogliere impreparato e non si limita a rispondere: «Auspichiamo un dialogo con la comunità gay», ma chiede un incontro con Pasquale. La Chiesa risponde. Lo Stato no. Ed il presidente dell'Arcigay nazionale, Aurelio Mancuso, incalza: «La politica si comporta sempre come se ogni domanda posta da un qualsiasi cittadino fosse un'imboscata. Non si rende proprio conto che questo Paese non ce la fa più. Ciò che è accaduto a Pasquale è proprio disdicevole».

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mercoledì 3 ottobre 2007

Dove finisce l'otto per mille segreto da un miliardo di euro

di Curzio Maltese

Le campagne dell'«otto per mille» della Chie­sa cattolica, che ogni primavera invadono l'etere, Rai, Mediaset e radio nazionali, so­no considerate nel mondo pubbli­citario un modello di comunica­zione. Ben girate, splendida foto­grafia, musiche di Morricone, sto­rie efficaci, a volte indimenticabili. Chi non ricorda quella del 2005, imperniata sulla tragedia dello tsunami? Lo spot apre su un fragile vil­laggio di capanne, dalla spiaggia i pescatori scalzi scrutano l'oriz­zonte cupo. Voce fuori campo: «Quel giorno dal mare è arrivata la fine, l'onda ha trasformato tutto in nulla». Stacco sul logo dell'otto per mille: «Poi dal niente, siete arrivati voi. Le vostre firme si sono trasfor­mate in barche e reti». Zoom su barche e reti. «Barche e reti capaci di crescere figli e pescare sorrisi». Slogan: «Con l'otto per mille alla Chiesa cattolica, avete fatto tanto per molti». Un capolavoro.

La campagna 2005, affidata co­me le precedenti alla multinazio­nale Saatchi & Saatchi, secondo Il Sole24 Ore è costata alla Chiesa no -ve milioni di euro. Il triplo di quan­to la Chiesa ha poi donato alle vitti­me dello tsunami, tre milioni (fonte Cei), lo 0,3 per cento della rac­colta. Nello stesso anno, l'Ucei, l'u­nione delle comunità ebraiche ita­liane, versò per lo Sri Lanka e l'Indonesia 200 mila euro, il 6 per cento dell'«otto per mille». Un'of­ferta in proporzione venti volte superiore, in un'area dove non esi­stono comunità ebraiche.

Gli spot della Chiesa cattolica sono per la maggioranza degli ita­liani l'unica fonte d'informazione sull'otto per mille. Consegue una serie di pregiudizi assai diffusi. Credenti e non credenti sono con­vinti che la Chiesa cattolica usi i fondi dell'otto per mille soprattut­to per la carità in Italia e nel terzo mondo. Le due voci occupano la totalità dei messaggi, ma costitui­scono nella realtà il 20 per cento della spesa reale, come conferma Avvenire, che pubblica per la pri­ma volta il resoconto sul numero del29settembre.L'80percentodel miliardo di euro rimane alla Chie­sa cattolica.

Tanto meno gli spot cattolici si occupano d'informare che le quo­te non espresse nella dichiarazio­ne dei redditi, il 60 per cento, ven­gono comunque assegnate sulla base del 40 per cento di quanto è stato espresso e finiscono dunque al 90 per cento nelle casse della Cei. Questo compito in effetti spette­rebbe allo Stato italiano. Lo Stato avrebbe dovuto illustrare e giusti­ficare ai cittadini un meccanismo tanto singolare di «voto fiscale», unico fra i paesi concordatari. In Spagna per esempio le quote non espresse nel «cinque per mille» re­stano allo Stato. In Germania lo Stato si limita a organizzare la rac­colta dei cittadini che possono scegliere di versare l'8 o 9 per cento del reddito alla Chiesa cattolicao lute­rana o ad altri culti.

Il principio dell'assoluta volon­tarietà è la regola nel resto d'Euro­pa. Lo Stato italiano lo adotta infat­ti per il «cinque per mille». Anzi, fa di peggio. Il «cinque per mille» è nato nel 2006 per destinare appunto lo 0,5 dell'Irpef (660 milioni di eu­ro, stima ufficiale delle Entrate) a ricerca e volontariato. Nel primo (e unico) anno hanno aderito il 61 per cento dei contribuenti, contro il 40 dell' «otto per mille»: un successo enorme. Le sole quote volontarie ammontano a oltre 400 milioni. Ma con la Finanziaria del 2007 il governo ha deciso di porre un tetto di 250 milioni al fondo, che si chia­ma sempre «cinque per mille» ma è ridotto nei fatti a meno del due.Le quote eccedenti verranno preleva­te dall'erario. Con una mano lo Sta­to dunque regala 600 milioni di quote non espresse alla Cei e con l'altra sottrae 150 milioni di quote espresse a favore di onlus e ricerca. Nella stessa pagina del modulo730 il «voto fiscale» espresso da un cit­tadino in alto a favore delle chiese vale in termini economici quattro volte il voto nel «cinque per mille». Perché due pesi e due misure?

Lo Stato in diciassette anni non ha speso una parola pubblica, uno spot, una pubblicità Progresso, per spiegare il senso, il meccanismo e la destinazione reale dell'otto per mille. Ed è l'unico «concorrente» che ne avrebbe i mezzi, oltre al dovere morale. Gli altri (Valdesi, Ebrei, Luterani, Avventisti, Assem­blee di Dio) dispongono di fondi minimi per la pubblicità, peraltro regolarmente denunciati nei resoconti. Mentre la Chiesa cattolica è l'unica a non dichiarare le spese pubblicitarie, riprova di scarsa tra­sparenza.

L'unica voce a rompere il silen­zio dello Stato fu nel 1996 quella di una cattolica, come spesso accade, la diessina LiviaTurco, allora mini­stro per la Solidarietà. Turco pro­pose di destinare la quota statale di otto per mille a progetti per l'infanzia povera. Il «cassiere» pontificio, monsignor Attilio Nicora, rispose che «lo Stato non doveva fare con­correnza scorretta alla Chiesa». Fi­ne del dibattito. Oggi Livia Turco ri­corda: «Nella mia ingenuità, pensavo che la mia proposta incon­trasse il favore di tutti, compresa la Chiesa. L'Italia è il paese continen­tale con la più alta percentuale di povertà infantile. Al contrario la reazione della Chiesa fu durissima, infastidita, e dalla politica fui subi­to isolata. Ho vissuto quella vicen­da con grande amarezza».

La politica non ha mai più osato fare «concorrenza» alla Chiesa cat­tolica, anzi l'ha favorita con un pessimo uso del fondo. Nel 2004 i me­dia hanno dato grande risalto alla trovata del governo Berlusconi di utilizzare 80 dei 100 milioni ricevu­ti dall'otto per mille per finanziare le missioni militari, in particolare in Iraq. Degli altri venti milioni, quasi la metà (44,5 per cento) sono finiti nel restauro di edifici di culto, quindi ancora alla Chiesa. La per­centuale di «voti» allo Stato italiano è crollata dal 23 per cento del 1990 all'8,3 del 2006.

All'atteggiamento remissivo dello Stato italiano ha fatto da con­traltare una crescente aggressività da parte delle gerarchie ecclesiastiche e soprattutto dei politici al se­guito, cattolici e neo convertiti, nel rivendicare il denaro pubblico. In agosto, quando la commissione europea ha chiesto lumi al governo Prodi sui privilegi fiscali del Vatica­no, nell'ipotesi si tratti di «aiuti di Stato» mascherati, l'ex ministro Roberto Calderoli, già protagonista delle battaglie anticlericali della Lega anni Novanta,ha chiesto al Papa di «scomunicare l'Unione Euro­pea». Rocco Buttiglione ha avanza­to un argomento in disuso fra gli in­tellettuali dai primi del '900, ma oggi di gran moda. Secondo il quale i privilegi concessi dalla Stato al Va­ticano sarebbero «una compensa­zione per la confisca dei beni eccle­siastici dello Stato Pontificio».

Un revanscismo già sepolto dal­la Chiesa del Concilio. Nel 1970 Paolo VI aveva «festeggiato» con la visita in Campidoglio la breccia di Porta Pia: «atto della Provvidenza», una «liberazione» per la Chiesa da un potere temporale che ne osta­colava l'autentica missione. Joseph Ratzinger scrive ne «Il sale della terra»: «Purtroppo nella storia è sempre capitato che la Chiesa non sia stata capace di allontanarsi da sola dai beni materiali, ma che questi le siano stati tolti da altri; e ciò, al­la fine, è stata per lei la salvezza».

La legge 222 del 1985 istitutiva dell'otto per mille, perlopiù scono­sciuta ai polemisti, in ogni caso non accenna ad alcuna forma di «risarcimento» per le confische (argomento insensato nell'Italia di vent'anni fa). Lo scopo primario della legge di revisione del Concor­dato fascista del '29 era di garanti­re un sostituto della «congrua», ov­vero lo stipendio di Stato ai sacerdoti. Nei primi anni lo Stato s'im­pegnava infatti a integrare l'otto per mille, fino a 407 miliardi, nel ca­so di una raccolta insufficiente per pagare gli stipendi. In cambio il Va­ticano accettava che una commis­sione bilaterale valutasse ogni tre anni l'ipotesi di ridurre l'otto per mille nel caso contrario di un getti­to eccessivo.

Ora, dal 1990 al 2007, l'incasso per la Cei è quintuplicato e la spesa per gli stipendi dei preti, complice la crisi di vocazioni, è scesa alla metà, dal 70 al 35 per cento. Eppu­re la commissione italo-vaticana non ha mai deciso un adeguamen­to. Perché? Senza avventurarsi in filosofia del diritto, si può forse rac­contare il percorso di uno dei componenti laici della commissione, Carlo Cardia. Il professor Cardia, insigne giurista di formazione co­munista, consigliere di Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao, ha esordito da fiero «difensore del diritto nega­to in Italia all'ateismo» («Ateismo e libertà religiose», De Donato, 1973). Nel 2001 è Cardia a invocare una riduzione dell'otto per mille, in un saggio pubblicato dalla presidenza del consiglio: «Dall'otto per mille derivano ormai alla Chiesa cattolica, meglio: alla Cei, delle somme veramente ingenti, che hanno superato ogni previsione. Si parla ormai di 900-1000 miliardi l'annodi lire. Il livello è tanto più al­to in quanto il fabbisogno per il sostentamento del clero non supera i 400-500 miliardi. Ciò vuoi dire che la Cei ha la disponibilità annua di diverse centinaia per finalità chia­ramente "secondarie" rispetto a quella primaria del sostentamento del clero; e che lievitando così il li­vello del flusso finanziario si po­trebbe presto raggiungere il para­dosso per il quale è proprio il so­stentamento del clero ad assume­re il ruolo di finalità secondaria».

Previsione perfetta. «Tutto ciò —concludeva Cardia—portereb­be a vere e proprie distorsioni nel­l'uso del danaro da parte della Chiesa cattolica; e, più in generale, riaprirebbe il capitolo di un finan­ziamento pubblico irragionevole che potrebbe raggiungere la soglia dell'incostituzionalità se riferito al valore della laicità quale principio supremo dell'ordinamento».

Nel tempo il professor Cardia è diventato illustre collaboratore di Avvenire, il giornale dei vescovi. I suoi temi sono cambiati: l'apolo­gia del rapporto fra i giovani e Be­nedetto XVI, la lotta ai Dico, l'esal­tazione del Family Day. Ciascuno naturalmente ha il diritto di cam­biare idea. Ma è opportuno che, avendole cambiate sul giornale della Cei, continui a far parte di unas commissione governativa chia­mata a stabilire quanti soldi lo Sta­to deve versare alla Cei? Nell'ulti­mo editoriale su Avvenire il professor Cardia tuona contro l'inchiesta di Repubblica, «una delle più co­lossali operazioni di disinforma­zione degli ultimi tempi».

Senza contestare nel merito un singolo dato, nega con veemenza che la Chiesa costi troppo agli ita­liani e s'indigna per «l'indecente» accostamento con la «casta». E' lo stesso professor Cardia che il 20 febbraio scorso dichiara in un'intervista: «Io porterei la quota del­l'otto per mille al sette, vista l'im­ponente massa di danaro che smuove. Basti pensare che dall'84 a oggi nessuno, se non per controversie politiche,vi ha posto mano». Con le altre confessioni lo Stato è assai meno generoso. In risposta a un'interrogazione dei soliti radi­cali, nel luglio scorso il ministro Vannino Chiti ha citato come pro­va della bontà del meccanismo «il fatto che anche i valdesi hanno chiesto e ottenuto le quote non espresse». Chiesto sì, ottenuto mai. Incontro la «moderatrice» della Tavola Valdese, Maria Bonafede, il «Ruini» dei valdesi, nella modesta sede vicino alla Stazione Termini. «Per motivi etici avevamo rinunciato alle quote non espres­se, ma nel 2000, visto l'uso che ne faceva lo Stato, le abbiamo chiese. Abbiamo incontrato governi di de­stra e di sinistra, il vecchio Letta e il nuovo. Ogni volta ci rinviano. Se la ottenessimo oggi, la vedremmo solo nel 2010. Lo Stato anticipa i soldi alla Cei, ma agli altri li versa con tre anni di ritardo».

Ai valdesi sono andati nel 2006 circa 5 milioni 700 mila euro, ma avrebbero diritto a oltre 13 milioni. Il resto lo trattiene lo Stato. La Ta­vola Valdese usa i soldi dell'otto per mille al 94 per cento per la carità e il rimanente alla pubblicità. I pasto­ri valdesi vivono delle donazioni spontanee. Lo stipendio base, uguale dalla «moderatrice» all'ulti­mo pastore, è di 650 euro al mese. Maria Bonafede spiega: «I soldi dell'otto per mille arrivano dalla società e vi debbono tornare. Se una Chiesa non riesce a mantener­si con le libere offerte, è segno che Dio non vuole farla sopravvivere».

da La Repubblica del 3 ottobre 2007, pag. 34

Uno straccio di laicità

Sex crimes and the Vatican

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