Maria Bonafede: "Non capisco l'accanimento della chiesa cattolica"
"Non sono mica obbligatori i PACS, non vengono imposti a nessuno. Non tolgono nulla al matrimonio, che rimane certamente un istituto importantissimo della società civile". Questo a caldo il commento della neoeletta moderatore della Tavola valdese, la pastora Maria Bonafede, all'atteggiamento della Conferenza episcopale italiana (CEI) in merito alle unioni di fatto. "Ho accolto la proposta dei PACS come una proposta di civiltà e di attenzione alla vita reale dei cittadini e delle cittadine in Italia. Ci sono persone che da tanti anni convivono e si accompagnano nella vita condividendone pesi e gioie e sostenendosi reciprocamente. Non tutti hanno l’occasione nella loro vita e per i motivi più diversi, di poter formare una famiglia cosiddetta 'tradizionale', ma nella nostra società tanti hanno trovato modo di accompagnarsi nella difficile avventura della vita". Allora Maria Bonafede si chiede: "Perché chi condivide la vita con un’altra persona non può avere la gioia di sapere che la sua pensione sarà reversibile, che l’affitto che pagano insieme potrà essere mantenuto dalla persona che convive con loro il giorno che non ci fossero più?". Le riesce pertanto difficile capire "l’accanimento", e quella che a suo avviso rimane una "indebita ingerenza", della gerarchia romana ed in particolare del cardinal Ruini nella vita dello Stato italiano: "Mi sembra che dal punto di vista dell’amore cristiano ci sia tanto legalismo ed un pizzico di avarizia in questa chiusura" sostiene Bonafede, sottolineando il principio di laicità dello Stato: "E' nella sua libertà di tutelare in modo innovativo i diritti dei più deboli". E per concludere il suo pensiero Maria Bonafede tiene a fare una riflessione più propriamente pastorale: "L'amore di Cristo è abbondante e generoso verso tutti i suoi figli e le sue figlie e l’amore non è un’ideologia, fosse anche un’ideologia cristiana, da applicare sulla realtà anche se le va così stretta. L’amore guarda alla vita vera delle persone, alle sofferenze, ai sacrifici che la vita chiede, agli spazi di umanità e di condivisione che di fatto si creano, e lì, qualunque essi siano, chiede il massimo del rispetto reciproco, del dono di sé, di esercizio della carità cristiana".
(tratto dal NEV, del 28 settembre 2005)
sabato 8 ottobre 2005
Unioni di fatto: il parere della moderatore della Tavola Valdese
venerdì 7 ottobre 2005
Io, clandestino a Lampedusa
Ripescato in mare e rinchiuso nel centro di permanenza temporanea, l'inviato dell'Espresso Fabrizio Gatti ha vissuto una settimana con gli immigrati in condizioni disumane. E' stato poi liberato con il foglio di via
di Fabrizio GattiUn nome inventato e un tuffo in mare. Non serve altro per essere rinchiusi nel centro per immigrati di Lampedusa. Basta fingersi clandestino e in poco tempo ci si ritrova nella gabbia dove ogni anno migliaia di persone finiscono il loro viaggio e dove nessun osservatore o giornalista può entrare. La via più veloce per infiltrarsi nella Cayenna dell'Unione europea prevede un salto dagli scogli e qualche ora in acqua. Se non si vuole partire dalla Libia e rischiare di affondare con le barche sovraccariche, non esistono alternative. Così ho scelto un nome straniero e uno stratagemma preso in prestito da Papillon, il mitico film del 1973: per fuggire dalla Cayenna, quella vera, Steve McQueen si butta dalle rocce e si affida all'Oceano aggrappato a una zattera di fortuna. Solo che qui lo scopo non è scappare ma farsi prendere. Ed è ciò che mi è successo: ripescato da un automobilista, catturato dai carabinieri sul lettino del pronto soccorso e rilasciato la settimana dopo, la sera di venerdì 30 settembre. Libero, con la possibilità di andare a lavorare in qualunque città d'Europa come clandestino, nonostante i precedenti penali e una condanna nel 2004. Comincia e finisce così il diario di otto giorni da prigioniero nell'inferno di Lampedusa. Il prezzo da pagare per assistere in prima fila a umiliazioni, abusi, violenze e a tutto quanto l'Italia ha sempre nascosto alle ispezioni del Parlamento europeo e delle Nazioni Unite. Ma è anche l'opportunità per vivere l'immane solitudine di uomini, donne e bambini che, nella fatica di migliorare la propria vita, hanno avuto contro il deserto, i trafficanti, le tempeste e adesso che sono sbarcati hanno contro la legge che dovrebbero rispettare.
Venerdì 23 settembre
Il Mediterraneo stasera ha il respiro lento. Sotto il cielo senza luna, l'acqua non si vede. Si sente soltanto il suono, due o tre metri laggiù ai piedi della scogliera. Prima del salto, bisogna sincronizzarsi con il ritmo del mare. Entrare in acqua quando l'onda è più alta, sfruttare la risacca e allontanarsi subito dalle rocce. Uno. Due. Al tre il freddo già avvolge il corpo: da questo momento sono Bilal Ibrahim el Habib, nato il 9 settembre 1970 nel villaggio immaginario di Assalah, distretto di Aqrah, Kurdistan iracheno. Sugli scogli non sono rimaste tracce. Scarpe e calze sono state affondate con quattro sassi. E anche il rotweiler randagio che aveva deciso di seguirmi e passare la sera in compagnia, adesso se ne sta andando un po' perplesso. Bilal non ha molto con sé. Ha addosso pantaloni di tela neri, boxer, maglietta di cotone, una felpa blu, un pile pesante e un giubbotto di salvataggio con una scritta in arabo. Sul petto Bilal stringe una borsa sportiva. Dentro ci sono tre scatolette di sardine 'Product of Morocco', tre panini ormai poltiglia, una bottiglia d'acqua e un paio di vecchie ciabatte di plastica. Ma quella borsa, gonfia d'aria, aiuta soprattutto a galleggiare. È la serata ideale per buttarsi in mare senza essere visti. Nel cielo rimbalzano le luci e i suoni di 'O' Scià', il festival di Claudio Baglioni. Quasi tutti i turisti, gli abitanti e le pattuglie di polizia e carabinieri sono allo spettacolo. E Bilal può nuotare indisturbato fino a un promontorio su cui brillano le finestre di una villa. C'è un andirivieni di ragazzi, auto e scooter. E prima che qualcuno si accorga dell'uomo in mare, passano almeno quattro ore e mezzo.
La gente di Lampedusa e le infermiere del pronto soccorso hanno regalato tutta la loro generosità. Ma adesso Bilal è su una macchina dei carabinieri. I fari illuminano una strada senza uscita accanto all'aeroporto. Poi un cancello sulla destra, decorato dal filo spinato. Apre un carabiniere in tuta antisommossa, anfibi e pistola nella fondina. Saranno le due e mezzo di notte. Anche se per la legge resta un libero cittadino, da qui Bilal non può più andarsene. "Dal pronto soccorso ci hanno consegnato questo", dice al collega il militare sceso dall'auto. Bilal viene accompagnato a testa bassa fino a un piccolo cortile dove aspettano altri carabinieri e un ragazzo con la divisa della Misericordia, l'associazione che ha in appalto il centro di Lampedusa. Il ragazzo offre un bicchiere d'acqua e quattro confezioni di cornetti. Poi toglie da un sacchetto una maglietta di cotone e una tuta da ginnastica: "Mettiti queste che stai più caldo", dice. "Come ti chiami? Da dove vieni?", vuol sapere un carabiniere. "I don't understand", sussurra Bilal, non capisco. La domanda viene rifatta in inglese maccheronico. "Kurdistan? Ma se questo è più bianco di me, come fa a essere curdo?", chiede un carabiniere molto abbronzato. Bilal tiene gli occhi bassi sulle sue ciabatte logore e ascolta le voci. "Un curdo che parla inglese. Sarà. Non è che questo è un giornalista della Cnn infiltrato qui dentro?". "Sì, o magari è un giornalista italiano?". "Ma va', gli italiani non fanno queste cose", risponde la prima voce. Pericolo scampato. "Bilal, you must tell ze verity", urla un carabiniere, devi dire ze verity. "Ze verity, understand? Se no bam bam", e mima gli schiaffi. Verity? In inglese verità si dice truth. Sarà un errore o un tranello? "Bilal vieni", chiama il ragazzo della Misericordia. Trascina un materassino di gommapiuma preso da una pila di materassi. Lo sistema in corridoio, tra una fila di cessi puliti e la porta di un altro gabinetto molto sporco. Poi lo ricopre con un lenzuolo di carta. "Stanotte lo facciamo dormire qui", dice il ragazzo ai carabinieri. Un altro immigrato sta russando, avvolto come una mummia in una coperta. E da una porta semichiusa si intravvedono le sagome di decine di donne stese sul pavimento e un bambino. Quando Bilal torna dal gabinetto, dove è sempre stato seguito da un carabiniere, trova il suo posto occupato. Più di 200 mosche hanno pensato che quel lenzuolo bianco e fresco di cartiera fosse per loro. Ma sono mosche educate. Si alzano quando Bilal arriva e si riappoggiano su di lui soltanto dopo che si è sdraiato. Il tentativo di scacciarle è una battaglia persa. Dal pavimento sale un fortissimo odore di urina. Dal soffitto la luce non si spegne mai. I carabinieri ridono e parlano a voce alta tutta la notte. È difficile prendere sonno. E poi c'è il problema del colore della pelle. Occorre inventarsi una spiegazione credibile prima di domani mattina. Forse questa può andare: Bilal è così pallido perché il papà è curdo, ma la mamma è bosniaca.
Sabato 24 settembre
L'alba si annuncia con un fragore assordante. Nel dormiveglia sembra il rumore di un aspirapolvere. No, forse è una lucidatrice. Ma no, è troppo forte. La puzza risolve il mistero. Sì, queste sono esalazioni di jp, il carburante degli aerei. Ecco cos'è: l'aeroporto accanto. Quando gli Airbus fanno manovra, sparano il getto dei motori dritto dentro le finestre dove dormono gli immigrati. È ancora buio, ma ormai sono tutti svegli. Dalla stanza delle donne escono ragazze eritree o etiopi. Altre appaiono da una seconda porta. C'è anche una donna con il pancione della gravidanza. Il conto è subito fatto: tra teenager e adulte sono quasi una cinquantina. In più Bilal e l'altro uomo che dorme in corridoio. Per tutti c'è un solo water, quattro docce e qualche lavandino. I carabinieri non vogliono che si usino le loro turche, le uniche che profumano di candeggina. Per evitare domande e guai, Bilal finge di dormire. Ma osserva e ascolta. C'è un viavai di carabinieri e qualche poliziotto intorno a lui. Si chiedono se sia davvero curdo. Le ragazze africane passano il tempo ad annodarsi treccine. Una di loro, che non avrà più di vent'anni, ha tutte le unghie smaltate a metà. La parte sopra è abbellita da un leggero velo perlaceo, la parte sotto è cresciuta senza cura. Forse dove finisce lo smalto è cominciato il suo viaggio. Fuori, nel piccolo cortile, pendono scarpe, pantaloni e maglie delle ultime arrivate. Ieri sera sono sbarcati 161 immigrati, poi altri 37, e poi Bilal. C'è un libro del Corano messo ad asciugare al sole. "Bilal", urla forte una voce. "Tu", dice un poliziotto e con la mano fa capire che bisogna seguirlo.
L'ufficio identificazioni della polizia è una grande stanza con quattro scrivanie. Bilal lo fanno sedere in fondo a destra. Di fronte a lui due poliziotti in borghese, un computer e un ragazzo con il volto berbero. È l'interprete: "Parli arabo?", chiede in arabo. "Sì". "Da dove vieni?". "Kurdistan. Ma vorrei continuare in inglese, l'arabo non è la mia lingua, gli arabi hanno occupato la mia terra", risponde Bilal. Scegliere la lingua è il primo nell'elenco dei 'Diritti degli immigrati' scritto su carta della Prefettura di Agrigento e appeso in corridoio. All'interrogatorio si aggiunge una ragazza che chiamano dottoressa e indossa una maglietta mimetica stile esercito americano. Vuole sapere tutto. Bilal racconta di voler andare in Germania. E di essere stato chiuso in un container in Turchia, caricato su un mercantile e messo su una lancia a motore a qualche miglio dalla costa italiana. Poi la lancia si è spaccata, è affondata e Bilal si è salvato a nuoto. Vogliono sapere della scritta in arabo sul giubbotto salvagente. "C'è scritto: La felicità 3. Forse è il nome di una nave", spiega l'interprete di arabo. "Tu sai cosa c'è scritto?", chiede la dottoressa, sempre in inglese. "Sì, as Soror, la felicità: tutti noi siamo venuti in Europa a cercarla". Bilal deve ripetere tre volte la storia del suo viaggio. Cercano di metterlo in contraddizione. Fanno domande tranello: "Se sei curdo, parli urdu". "No, l'urdu è una lingua del Pakistan". Poi si arrabbiano: "Tu non vieni dalla Turchia, tu arrivi dalla Libia. E quella scritta in arabo lo dimostra. Noi adesso ti rimandiamo da Gheddafi", promette la dottoressa. "Ce lo lascia un attimo che lo portiamo nella sala delle torture?", le chiede un poliziotto robusto che si è appena aggiunto al gruppo. Ma forse è solo un modo per capire se Bilal parla italiano e per spaventarlo. L'interrogatorio ritorna subito a un volume più umano. La dottoressa prende il telefono e protesta con la stazione dei carabinieri perché chi ha prelevato Bilal al pronto soccorso non ha scritto il verbale e nessuno sa dove sia stato pescato e chi lo abbia portato nel centro. "Ecco, devi dire al maresciallo che è un coglione", conclude la dottoressa. Dopo l'interrogatorio, bisogna lasciare le impronte digitali. Le dita e il palmo delle mani vanno premuti sul vetro rosso di uno scanner e si è automaticamente schedati. Fuori, 21 teenager aspettano il loro turno. Avranno tra i 15 e i 20 anni, visti insieme sembrano una classe di liceali in gita. Sono tutti di Kerouane, in Tunisia, tutti vicini di casa, tutti partiti con la stessa barca. Bilal non ha il tempo di sedersi accanto a loro. Un poliziotto gli consegna un biglietto con il numero di matricola 001 e lo affida ai carabinieri. Lo portano davanti a un grande cancello verde incorniciato da rotoli di filo spinato. Un altro carabiniere apre il lucchetto, poi sblocca il catenaccio. Subito dopo il cancello si richiude.
Centinaia di immigrati sono seduti sull'asfalto in file da dieci tra due baracche prefabbricate e quattro container. "Oggi siamo a quota 447", avevano detto nell'ufficio di polizia. I carabinieri gridano e ridono. Sulla tuta hanno il distintivo rosso del reparto: 1 Brigata Mobile. "Vai in fondo, muoversi, muoversi", urla uno dei militari. Bilal va a sistemarsi dietro a tutti, accanto a un cinquantenne magro e piccolo con la maglia di Bergkamp, e due ragazzi egiziani. Due rigagnoli di liquido violaceo escono da una porta a destra e scivolano sotto i piedi delle ultime file. Il liquame puzza di urina e fogna. "Seduti", urla uno dei carabinieri, "Sit down". "Ma qui in fondo è una schifezza", dice il collega, un ragazzone con accento napoletano. "Il maresciallo ha detto di farli sedere. Sit down", grida più forte il primo e sorprende un immigrato alle spalle, frustandolo sulle orecchie con i suoi guanti in pelle. Bilal e gli altri si erano accovacciati sulle caviglie per non sporcarsi con il liquame. Ma non basta ai carabinieri. Per evitare botte bisogna rassegnarsi e bagnarsi. Là davanti l'interprete berbero e un poliziotto in borghese chiamano i prossimi che lasceranno il campo. Un aereo è in partenza per il Cpt di Bari o forse per la Libia. Nessuno spiega nulla. Il carabiniere con i guanti di pelle tenta di chiudere a calci la porta da dove escono i rigagnoli. Poi si piazza in posizione strategica e sempre con i guanti frusta sulle orecchie chi viene chiamato dall'interprete. Qualcuno deve ripassargli davanti per andare a prendere in camerata il sacchetto con le poche cose. E si riprende un'altra sventola. Ride il carabiniere, occhiali e carnagione pallida. E ridono anche i suoi colleghi. Altra frustata. Per loro è solo un gioco. L'interprete e i poliziotti fanno finta di non vedere. Ma tra le file sedute a terra, ragazzi e uomini mormorano di rabbia. "Italiano, puttana, cornuto", sussurra lo smilzo con la maglietta di Bergkamp.
Non sembra per niente un centro di accoglienza. E qui dentro non c'è nemmeno l'atteggiamento di rispetto che i poliziotti dell'ufficio di identificazione avevano alla fine mantenuto. Bilal e tutti gli altri devono rimanere seduti e rannicchiati per più di un'ora perché dopo l'appello si resta in coda per il pranzo. Un piatto di plastica con pasta e tonno, un altro con bocconcini di pesce fritto (forse) e verdura in agrodolce, un panino, una mela e una bottiglia di due litri d'acqua da dividere in due senza bicchieri. Un'occasione per socializzare ma anche un rischio se qualcuno è entrato con malattie infettive. Nemmeno Bilal è stato visitato dal medico del centro. Si mangia per terra sotto il sole rovente, appoggiando pane e mela sull'asfalto o sui muretti. Il pomeriggio bisogna trovare un posto dove ripararsi dal caldo. I letti a castello sono tutti occupati. Dormono a decine perfino sui tavoli della mensa. Nessun assistente della Misericordia spiega a Bilal cosa deve fare. Dietro alla mensa-dormitorio c'è qualche materassino lasciato da chi è appena partito. Guardando meglio molti sono pieni di insetti minuscoli, forse pulci. E non ci sono nemmeno le lenzuola di carta per proteggersi, abbandonate fuori perché un poliziotto aveva fatto capire che la Misericordia le avrebbe distribuite una volta dentro la gabbia. Ma non era vero. Bilal crolla addormentato sotto il sole, proteggendosi la testa con l'asciugamano che gli hanno dato come coperta. Lo risveglia un egiziano: "Ehi, ashara-ashara". Ashara? In arabo significa dieci. "Ashara-ashara", urlano pattuglie di carabinieri entrate nel campo con i manganelli Tonfa infilati nel cinturone. Bisogna andare a risedersi sul viale dei liquami. In file da dieci, "ashara-ashara". È un altro trasferimento: questa volta l'aereo dell'Alitalia parte per Crotone. Chiamano anche lo scafista egiziano di Rosetta che ha guidato la barca di 161 persone arrivata ieri sera. Carnagione chiara, capelli neri voluminosi. Nel suo zainetto gli hanno trovato (e lasciato) cinquemila euro in contanti, la paga per il suo lavoro. "Questo qua è la terza volta quest'anno che passa da Lampedusa", lo indica un appuntato dei carabinieri. Qualcuno dovrebbe però spiegare perché questa volta lo scafista è rimasto a Lampedusa meno di 24 ore.
Prima di sera l'ufficio identificazioni scopre che le impronte di Bilal corrispondono a quelle di un altro immigrato: Roman Ladu, nato a Bucarest il 29 dicembre 1970. È il nome che ho usato nel 2000 per entrare nel Cpt di via Corelli a Milano, poi chiuso per le precarie condizioni di detenzione. Il computer però non dice ai poliziotti che Roman Ladu è in realtà un giornalista. E forse nemmeno che il giornalista, alias Roman Ladu, per quell'inchiesta è stato denunciato e condannato a venti giorni di carcere. Così Bilal, vero pregiudicato, può tenere duro. "Tu sei romeno e parli italiano", insiste un ispettore in borghese. Un suo collega si avvicina e chiede "Ce face?", come stai. E poi all'orecchio di Bilal sussura: "Pizda, pizda, pizda, pizda, pizda...", un modo poco elegante usato in Romania e altrove per chiamare i genitali femmili. Lo sguardo di Bilal resta fisso nel vuoto. Ci riprovano con un'interprete marocchina che alla fine conclude: "Non credo sia romeno. Parla l'arabo, però continua a chiedere che l'interrogatorio sia in inglese".
Domenica 25 settembre
Bilal ha deciso di andare al gabinetto quando è notte. I gabinetti sono un'esperienza indimenticabile. Il prefabbricato che li ospita è diviso in due settori. In uno, otto docce con gli scarichi intasati, quaranta lavandini. E otto turche di cui tre stracolme fino all'orlo di un impasto cremoso: la sorgente dei due rigagnoli. L'altro settore ha cinque water, di cui due senza sciacquone, cinque docce e otto lavandini. Dai rubinetti esce acqua salata. Non ci sono porte, non c'è elettricità, non c'è privacy. Si fa tutto davanti a tutti. Qualcuno si ripara come può con l'asciugamano. E non c'è nemmeno carta igienica: bisogna usare le mani. Lì dentro è meglio andarci di notte perché di giorno il livello dei liquami sul pavimento è più alto dello spessore delle ciabatte e bisogna affondarci i piedi. Ma anche il pediluvio nel lavandino prima di uscire diventa un problema: perché non appena si sfila il piede, la ciabatta comincia a galleggiare e a navigare con la corrente. Eppure il 15 settembre il leghista Mario Borghezio, guidando una delegazione di europarlamentari, ha detto che il centro di Lampedusa è un hotel a cinque stelle e che lui ci abiterebbe: quel giorno il ministero dell'Interno gli aveva fatto trovare soltanto 11 reclusi e quella settimana i trafficanti avevano deviato la rotta dei barconi fino in Sicilia. Chissà, forse nell'appartamento di Borghezio è normale avere i pavimenti coperti di liquami. Ma la maggior parte degli immigrati rinchiusi qui dentro viene da case pulite in cui si entra addirittura a piedi nudi.
La colazione è un bicchiere di latte freddo, due cornetti e la bottiglia d'acqua da dividere in due. All'ashara-ashara del mattino i carabinieri si accorgono che mancano cinque persone. Ma parlando tra loro decidono di non segnalarlo. Impossibile sapere chi sia scappato perché non si fa nessun appello: i reclusi vengono solo contati. A metà della recinzione che separa dall'aeroporto, proprio dietro uno dei pali con le telecamere a circuito chiuso, il filo spinato è tagliato. E sul palo sono rimasti due lacci di stoffa bianca, forse legati lì per facilitare la presa di chi si è arrampicato fin sopra la rete. I carabinieri rifanno il conto un'altra volta e rimettono tutti a sedere sotto il sole. Si resta così ore perché c'è un'altra chiamata. Fanno partire tutti gli eritrei e gli etiopi sbarcati lunedì 19. Tra loro, un'intera famiglia di fratelli e cugini, gli Abraham. Sono scappati dall'Eritrea per non essere mandati al fronte, vogliono continuare a studiare in Europa. Uno di loro, Youssef, è una promessa dell'atletica: ha continuato ad allenarsi anche nel centro, ogni mattina alle sei. Ci sono molti minorenni, rinchiusi da una settimana insieme agli adulti. Un carabiniere là davanti mostra loro un grosso telefonino e qualcuno si copre gli occhi con le mani. Ma non si capisce perché. Ahmed Ibrahim ha da giorni un'infezione intestinale. Chiede di andare alla toilette e dopo qualche minuto i carabinieri gli danno il permesso di alzarsi. Al gabinetto ci resta un bel po'. "Ma è tornato quello che è andato in bagno?", domanda uno dei militari. "E no che non è tornato, adesso vado a fare un giro". Altri chiedono di andare in bagno, ma i carabinieri non danno più il permesso. Dopo quasi mezz'ora Ahmed Ibrahim riappare, sudato e sfinito. "Tu", gli urla il carabiniere che mostrava il telefonino, "tu sei un cornuto". Ahmed lo guarda spaventato. "Sei un cornuto. Vai a sederti e non ti alzare più". I colleghi ridono. Alla fine partono in 150, forse per il centro di Caltanissetta. Ci si rialza e ci si risiede subito dopo per l'ashara-ashara del pranzo. Bilal ora è in terza fila. Un'altra lunga attesa, seduti e rannicchiati. Si avvicina il carabiniere con il grosso telefonino. È il meno robusto tra i suoi colleghi. Ha capelli neri curati, un neo ben visibile sulla guancia destra, un bracciale argentato e uno di cuoio con medagliette dorate al polso destro, e un orologio con cinturino in pelle al polso sinistro. Dopo aver fatto sentire un po' di musica tecno, schiaccia un altro tasto e il telefonino comincia ad ansimare. Lui si china, mostra lo schermo ai minorenni seduti accanto a Bilal. Sono immagini di un film porno scaricate forse da Internet. Il carabiniere si rialza e sorride: "E dopo, shampoo", annuncia ai minorenni mimando il gesto della masturbazione. I ragazzini ridono. Poi si china di nuovo sulla prima fila, la percorre e pretende che tutti guardino. Un trentenne si copre gli occhi con le mani. È uno dei ragazzi che ieri sera ha guidato la preghiera sul marciapiede-moschea. È un musulmano praticante e non vuole guardare. Il carabiniere con il neo gli strappa le mani dagli occhi: "E guarda che così impari", dice piazzandogli lo schermo davanti al naso. Il trentenne si volta, guarda Bilal con gli occhi lucidi. Un carabiniere alle loro spalle scherza con il collega: "Ma lascia perdere che quello è frocio".
Arriva il comandante, un appuntato che nel tempo libero gira con bandana, camicione e pantaloni fino al polpaccio. E il tormento non è finito. L'appuntato vuole farsi fare una foto davanti ai reclusi. Lui grida "Italia" e tutti devono alzare il pollice destro e rispondere "Uno". "Forza", dice un altro carabiniere, "chi non risponde 'uno' non mangia". Bilal non risponde e non alza nemmeno il braccio. Il carabiniere lo vede. Bilal lo fissa negli occhi e quello lascia perdere.
Poco dopo la polizia rivuole Bilal in ufficio. Ma non è per un interrogatorio. Due ispettori, sempre gentili e rispettosi, gli fanno indossare il giubbotto di salvataggio che hanno sequestrato la notte dello sbarco. Vogliono semplicemente fare una foto ricordo con lui. Uno si mette a destra, l'altro a sinistra: "Bilal smile, sorridi". Da quello scatto nessuno si occuperà più dell'identità dello strano immigrato curdo. Passa un'altra giornata. Su uno spiazzo di sassi appuntiti si gioca a calcio. Non ci sono scarpe per tutti. Così metà giocatori calza la destra, l'altra metà la sinistra e i due portieri restano a piedi nudi. Poco prima di cena cala il silenzio, all'improvviso. Un pullmino e un'ambulanza scaricano 21 immigrati neri. Sono sfiniti, affamati, seccati dal sale e bruciati dal sole. Passano davanti al cancello e agli sguardi fissi sulla loro sofferenza. Vengono fotografati, registrati, spogliati e perquisiti. Ricevono un tè caldo, un cornetto, un asciugamano e chi ha i vestiti logori, anche una tuta. Non si reggono in piedi. Ma dopo mezz'ora il cancello si apre e a gruppi di sei vengono spinti nella gabbia. Non sanno dove andare, barcollano. Due sono senza scarpe e quando vedono le condizioni del gabinetto tornano indietro a chiederne un paio. Cherriere, un arabo- francese sospettato di essere uno dei più famosi scafisti del Mediterraneo, impone ai carabinieri che gli ultimi arrivati siano serviti prima di tutti. Cherriere è il vero mediatore culturale: carabinieri e polizia lo chiamano spesso per farsi aiutare con l'arabo o per smussare le tensioni. Il medico ha mandato nella gabbia anche un uomo malato di scabbia. Non riesce nemmeno a sedersi per le piaghe, ma i militari insistono perché si metta come gli altri. L'ultimo entrato deve avere un colpo di sole perché continua a ciondolare. I carabinieri lo fanno andare avanti e indietro tre volte. "Quanto ha bevuto questo?", ride un militare. Bilal e Cherriere ottengono che anche lui sia messo in prima fila con i compagni di viaggio. Poi un carabiniere parla di Bilal convinto di non essere capito: "A questo qua dobbiamo insegnargli a farsi i cazzi suoi". Ma per le scarpe non c'è niente da fare. "Le scarpe le abbiamo date a tutti, dite a quei due che non scassino la minchia", gracchia il caposervizio della Misericordia, un uomo con i capelli bianchi, molto diverso da Angelo, Andrea o il cuoco, i ragazzi sempre disponibili anche se lavorano sodo tutto il giorno. E i due restano a piedi nudi. Dopo cena gli ultimi arrivati guardano la rotta tra la Libia e Lampedusa dipinta sul prefabbricato all'ingresso: "Abbiamo perso l'orientamento e siamo rimasti in mare sette giorni. Mia moglie diceva: we gonna die, moriremo. Ma io le dicevo: no, Dio ci porterà in Europa". Sono quasi tutti cristiani. Prima di andare a dormire intonano un gospel di ringraziamento al buio di una camerata. Impossibile trattenere le lacrime.
Lunedì 26 settembre
Bilal finalmente ha trovato una branda su cui dormire. Stesso materasso di gommapiuma e stessa coperta usata da chissà quante persone, in una stanza con gli scafisti egiziani e alcuni loro passeggeri. Ma la notte finisce presto. La sveglia è un lamento. Si alzano in molti e vanno a cercare chi sta male. Forse viene dalla prima camerata. Ma avvicinandosi il lamento prende la forma di una canzone stonata: "Ma quanto tempo e ancora, ti fai sentire dentro, quanto tempo e ancora.". Viene da oltre il cancello: i carabinieri giocano al karaoke con il computer portatile della polizia. Sono le quattro e mezzo del mattino, è lo stesso turno che ieri mattina ha mostrato le scene porno sul telefonino. C'è anche il loro appuntato. Sono di spalle e non si accorgono. Si torna a letto. Ma non si riesce più a dormire perché un'Airbus della Windjet continua a girare a bassa quota sopra Lampedusa. La torre di controllo ha le luci spente e i piloti aspettano che qualcuno si svegli per farli atterrare.
Subito dopo la colazione Bilal deve risolvere un problema serio: far sapere ai familiari e alla redazione che è rinchiuso nel centro. Al quarto giorno di silenzio, qualcuno potrebbe preoccuparsi. La possibilità di contattare la famiglia è al secondo posto tra i diritti degli immigrati secondo l'avviso che la Prefettura di Agrigento ha fatto appendere nelle camerate e nei bagni. Ma ogni volta che Bilal e gli altri hanno chiesto di ricevere o di comprare una scheda telefonica, il caposervizio della Misericordia ha risposto: "Non io, direttore". Oppure: "Bukara, domani". Oppure: "Non scassare la minchia". Sarà per questo che alcuni scafisti, chiusi da settimane nella gabbia, fanno affari d'oro vendendo a 20 euro schede da 3. Ma visto che nessuno può uscire, chi le passa dentro il cancello? Bilal deve assolutamente telefonare e ogni sistema di aprire la linea con un fil di ferro non funziona. Idea: il 118 risponde gratis. "Ho bisogno di aiuto, sono chiuso in un centro per immigrati e non ci fanno telefonare", dice Bilal in francese, "Devo avvertire la famiglia, per favore, vi do un numero di telefono italiano, chiamate e dite che Bilal è vivo. Vi costa meno di un euro". Non è uno scherzo: centinaia di papà e figli qui dentro hanno la stessa grave necessità. Ma nessuno è disposto a fare questo favore. Bilal riprova facendo a caso un po' di numeri verdi. All'800-400-400 risponde lo sportello di Madre segreta della Provincia di Milano. È una giunta di centro-sinistra: magari sono più sensibili ai diritti di un immigrato. Invece dopo mezz'ora di insistenze in inglese, la ragazza al telefono si inventa perfino una legge: "Non posso, la legge sul terrorismo mi vieta di fare questa telefonata". A nessuno interessano le angosce di questi immigrati chiusi in gabbia.
La sera, dopo cena, si prepara un'altra notte d'inferno. A Lampedusa sta arrivando una barca alla deriva con quasi 350 stranieri. I poliziotti dell'ufficio identificazione e i dipendenti della Misericordia tornano al lavoro. Anche i carabinieri della Brigata Mobile sono pronti per le perquisizioni. Ma stasera è di turno una squadra di persone per bene. La comanda un brigadiere che dà gli ordini con accento napoletano. È un uomo con i capelli grigi e un po' di calvizie. In tutta la settimana nessuno dei suoi ragazzi è mai stato sentito gridare o insultare un immigrato. E quando arrivano stremati i primi passeggeri della barca, loro si fanno capire a gesti, senza urlare.
Martedì 27 settembre
È una giornata umida. Molti hanno la pelle della fronte e delle mani piena di punture. Le più grandi sono zanzare, le più piccole forse pulci. Bilal ogni volta che cerca di attraversare indenne la toilette pensa alla casa di Borghezio. È una giornata di attesa. I trasferimenti annunciati ieri sono rinviati perché la polizia deve prima identificare gli ultimi arrivati. È l'unico giorno in cui vengono pulite le camere. Uno dei dipendenti della Misericordia usa la stessa scopa con cui ha inutilmente rimosso i liquami dai bagni. Hanno mandato anche un autospurghi. Ma le schifezze invece di essere aspirate sono state sparate tutt'intorno alle turche. Anche nel mangiare c'è qualcosa che non quadra. Sabato sera e poi ancora altre volte la piccola cotoletta non era fatta di carne ma di pan grattato, farina e forse uovo. Tanto che era possibile tagliarla con un cucchiaino di plastica. Se è così vuol dire che a Lampedusa qualcuno spaccia pan grattato per carne. Bilal e gli altri vengono privati non solo della libertà ma anche delle proteine.
Mercoledì 28 settembre
L'ashara-ashara di mezzogiorno è una parata fascista. Sono quelli dello stesso turno che sabato ha fatto sedere Bilal nei liquami. Nella gabbia ci sono ormai 600 immigrati. Sono tutti seduti ad aspettare il pranzo. Un carabiniere si affaccia a una porta e imita il Duce. Un brigadiere, che a Mussolini un po' ci assomiglia, mette le mani ai fianchi e molleggia sulle ginocchia. Poi saluta i colleghi con il braccio destro teso. "No", lo corregge un carabiniere, "quello è il saluto nazista. Quello fascista è così. Italiani!... La prossima volta a questi ci insegniamo Faccetta nera?". Il brigadiere è uno dei più rispettosi con gli immigrati della gabbia. Ieri pomeriggio Bilal l'ha visto portare un malato in braccio, dall'infermeria alla sua branda. Ma di notte questi ragazzi dimostrano di che pasta sono fatti. I reclusi sono a dormire. Bilal è nascosto dietro una rete. Ascolta e osserva. Un'altra notte durissima. I poliziotti hanno lavorato fino a tardi per gli ultimi interrogatori sullo sbarco di lunedì. E adesso ci sono 180 nuovi arrivi da registrare, perquisire e sistemare. Seduti su un muretto, due gemelline di due anni, la mamma e il papà. I carabinieri con mascherina e guanti in lattice cominciano subito a controllare tasche e borse. Li aiuta un collega in borghese, forse fuori servizio, basette curate, capelli neri con il gel e una maglietta con alcune scritte sul petto. "Spogliati nudo", dice a un ragazzo in canottiera che sta tremando per il freddo e la paura. Lui non capisce. Resta immobile un minuto intero. "What is the problem?", urla il carabiniere e gli tira uno schiaffo sulla testa. L'immigrato, pallido e magro come uno scheletro, trema. Altro schiaffo. Tutte le persone in quel momento nude davanti ai carabinieri vengono prese a schiaffi. Da mezz'ora quei ragazzi parlavano di fare il corridoio e nel gergo militare non è un ambiente che unisce due locali. Cosa sia lo dimostrano subito dopo: una fila di sei stranieri da portare nella gabbia passa in mezzo a loro e ciascuno si prende la sua razione di schiaffi. Quattro carabinieri fanno quattro schiaffi a testa. Appare finalmente il brigadiere che a mezzogiorno imitava Mussolini. Ma non rimprovera nessuno. "Questo ti dà problemi?", chiede al collega in borghese. E spara un pugno sullo sterno all'immigrato magro, che non capisce proprio che cosa ha sbagliato ed è ancora in piedi immobile, in canottiera. Passa un'altra fila di immigrati, altro corridoio. Questa volta li accompagna un dipendente in divisa della Misericordia. Uno con il pizzetto e una piccola cicatrice vicino al naso, che una sera quando un ragazzo ha chiamato i musulmani alla preghiera, si è messo ad abbaiare ogni volta che sentiva dire Allahu akbar. Forse li farà smettere. Invece no, guarda e ride. Davanti alla fila si sistema il brigadiere. Fa il passo dell'oca e finge di portare una lancia: "Avanti marsh". Soltanto un carabiniere napoletano non partecipa al gioco. Gli schiaffi risuonano nell'aria per mezz'ora. E finalmente una funzionaria di polizia se ne accorge. È una ragazza bionda, non tanto alta, che di giorno raccoglie i capelli dentro un bandana. "Maresciallo", dice nervosa, "vada di là a vedere cosa stanno facendo i suoi ragazzi perché sento troppe mani che si muovono". Il maresciallo volta l'angolo e raggiunge gli altri carabinieri: "Uhe ragazzi, mi raccomando", dice loro e si mettono a ridere tutti insieme. Gli ultimi sei immigrati vengono portati dentro la gabbia a notte fonda, vanno a dormire sull'asfalto perché non ci sono più brande. E i carabinieri festeggiano con una grigliata nel cortile.
Giovedì 29 settembre
Bilal passa tutta la giornata a convincere un gruppo di ferventi musulmani che non può assolutamente seguirli a pregare. Alle sei di sera, prima dell'ashara-ashara della cena, una voce femminile gli cambia l'umore. "El Habib Ibrahim Bilal. Domani mattina alle otto presentati al cancello perché verrai trasferito", dice l'interprete marocchina in arabo. "Quale destinazione?". "Agrigento". "Bilal va via", dice Cherriere. E davanti a Bilal si forma una coda di prigionieri della gabbia che vogliono salutarlo. Rachid, 31 anni, marocchino, sbarcato ieri sera, gli spiega come funziona: "Ti danno un foglio di via. Tu per cinque giorni lo tieni e ti sposti fin dove devi arrivare. Poi lo butti. Io farò così, a Padova da mio cugino ho già un lavoro che mi aspetta. Modi diversi di entrare in Italia non ce ne sono". La sera sbarcano altri 350 immigrati. Ma è il turno del brigadiere per bene e nessuno viene picchiato. Appena entra nella gabbia John, 27 anni, partito dal Togo e altri suoi compagni di viaggio chiedono dove si può mangiare. Ma la Misericordia fa sapere che il primo pasto sarà distribuito solo l'indomani mattina. "We are starving, non mangiamo da sette giorni", trema John, "Quando siamo sbarcati ho visto un negozio e volevo comprare qualcosa ma la polizia ci ha detto che non potevamo e che qui dentro avremmo mangiato. Abbiamo i nostri soldi. Se siamo liberi, perché non possiamo comprare da mangiare?". Bilal vede passare il medico, lo chiama e gli spiega la situazione. "Porto qualche brioche", dice il medico. Invece va via e non porta nulla. John e gli altri vanno a dormire su un marciapiede perché sono finiti anche i materassini. Un funzionario in borghese rovescia una lattina di Coca Cola addosso agli immigrati attraverso le sbarre. "Perché questo?", grida Teemer, 26 anni, palestinese, "Siamo clandestini, ma non siamo animali". Il funzionario si scusa. Le camerate sono strapiene di gente fin sotto i letti. La radio a tutto volume in cucina canta ciò che centinaia di bimbi forse pensano ogni giorno dei loro papà rinchiusi qui dentro: 'How I wish, how I wish you were here', come vorrei tu fossi qui. Si va a dormire in una scena da fine del mondo.
Venerdì 30 settembre
Quando torna dalla sua doccia notturna, Bilal trova il letto occupato da altre due persone. Sono le ultime ore nella gabbia, può anche rimanere alzato. Il cielo è illuminato da lampi e fulmini. Il temporale dura poco ma gli scrosci d'acqua risvegliano le centinaia di persone che si erano addormentate all'aperto. Davanti al cancello stanno registrando un nuovo sbarco. E i carabinieri stanno di nuovo picchiando i ragazzi che perquisiscono. I primi sono due uomini che non si erano seduti al loro ordine. Uno lo chiamano Maradona. Volano sberle e per Maradona anche un calcio. Si fermano solo quando passa il tenente in borghese, un ragazzo con il pizzetto. Poi prendono a schiaffi un ventenne che non capisce che cosa deve fare. E altri due ragazzi che al 'sit-down' non si sono seduti perché parlano arabo e francese. Bisogna fermare questo schifo. Bilal grida in inglese: "State picchiando la gente, perché?". Un carabiniere tira un calcio alla rete da dove sta osservando, cercando di colpirlo. Bilal viene chiamato fuori dal cancello. È un faccia a faccia tesissimo, gli occhi di Bilal dentro gli occhi di un carabiniere con i capelli un po' brizzolati e la mascherina per nascondersi. Ma almeno smettono di picchiare. Quando il sole è alto dentro la gabbia sono state ammassate 1250 persone. "Questo è 'o Professore", dice di Bilal un carabiniere a due colleghi, "Avete visto cosa ha fatto prima? Questo qua un giorno lo chiamiamo fuori e gli diamo una ripassata". Ma cinque minuti dopo è la polizia a chiamarlo fuori. Bilal viene portato vicino all'uscita, dove lo aspetta il gruppo che sta per essere trasferito. Nove adulti e 35 minori. La Misericordia distribuisce una maglietta bianca a tutti e le scarpe ai tre rimasti senza. Ma non restituisce i soldi che i ragazzini avevano depositato in segreteria. I carabinieri li hanno accompagnati all'uscita senza dire loro che sarebbero stati trasferiti da Lampedusa. "Oggi non è giornata, non c'è nessuno in ufficio che possa dare quei soldi", spiega un giovane della Misericordia. Bilal insiste in inglese: "Sono centinaia di euro, è importante che partano con i soldi". Un carabiniere dice di no con il dito e allarga le mani.
Si parte senza soldi. All'imbarco del traghetto gli ultimi turisti della stagione guardano la fila di immigrati sotto scorta dai carabinieri. Ciascuno ha un sacchetto con due panini e una bottiglia d'acqua. Si viaggia fino a sera nella sala soggiorno della nave, piantonata da un brigadiere e due carabinieri molto cortesi. Youssef, 16 anni, è sicuro sia una deportazione in Libia e si mette a pregare verso prua, convinto che la rotta sia verso Sud-Est. Ma quando sull'orizzonte appaiono le montagne della Sicilia, tutti gli altri si incollano al finestrino e ridono: "Jebel Scisciglia". A Porto Empedocle i 45 sono caricati su un'autobus della ditta Cuffaro scortato dalla polizia. La carovana sale fino alla questura di Agrigento. Bilal e gli altri 8 adulti vengono separati dai minorenni. I teenager sono destinati a un istituto in attesa di essere affidati ai parenti già in Italia. Gli altri ricevono tre fogli, un sacchetto con due panini e una bottiglia d'acqua. Poi vengono caricati su un furgone che parte a tutta velocità. "Bilal, ho paura. Secondo me ci portano in Libia", dice Abdrazak, 18 anni marocchino, che vuole raggiungere lo zio a Catania. Invece si finisce alla stazione. Ma il treno per Palermo è già partito: "Minchia, non parte mai in orario", s'arrabbia un ispettore. Nuova corsa in auto, furgone e sirena fino ad Aragona, la stazione successiva. E questa volta il treno non è ancora arrivato. "Ragazzi ascoltatemi", spiega un funzionario in inglese, "Avete cinque giorni di tempo per lasciare l'Italia. Siete liberi". Anche Bilal è libero, nonostante il suo alter ego romeno e i precedenti penali. Gli altri quando capiscono, esultano. Uno si attacca al collo dell'ispettore che sorride, ma preferisce non essere baciato. Tutti, tranne uno, hanno un lavoro o un parente che li aspetta: a Milano, a Torino, a Napoli e Catania. L'ultimo ostacolo è un bigliettaio, la mattina dopo alla stazione di Palermo. È convinto che abbia davanti immigrati che non parlano italiano e li insulta. Maltratta anche un pendolare che si è offerto di aiutarli: "Lei che c'entra, crede che non li capisca?". Bilal esplode: "Ma se nun capisti mancu l'italiano, lo fate o no 'sta minchia di biglietto?". Il bigliettaio sorpreso si mette subito al lavoro. "Che lingua era Bilal?", chiede Abdrazak in francese, "era curdo?". n
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Istruzioni per la fuga
"Se vai a Crotone te la puoi cavare con 150 euro. A Bari puoi scappare dal centro di detenzione la notte, saltando la rete e seguendo i sentieri. A Caltanissetta e Trapani no, se ti chiudono lì dentro esci solo quando lo decide la polizia". Ahmed, così dice di chiamarsi, 26 anni, egiziano del Delta del Nilo, è chiuso da qualche settimana nel centro di Lampedusa e di mestiere fa lo scafista. Il suo desiderio è essere trasferito al centro per immigrati di Crotone: "Perché lì è più facile uscire. È per questo che alcuni di noi viaggiano con il telefono satellitare: quando sono vicini a Lampedusa, chiamano qualcuno a Crotone e rivelano quale nome useranno quando si presenteranno alla polizia". Vuol dire che è possibile condizionare la propria destinazione? "No, se qui a Lampedusa sanno che vuoi andare a Crotone, ti mandano da un'altra parte. Però succede che alcuni di noi riescano più facilmente ad andare a Crotone di altri. Il punto di riferimento è un gruppo di sudanesi. Una volta liberi, andiamo a Roma, facciamo un duplicato del passaporto e rientriamo in Egitto. Dopo un po' di riposo, torniamo in Libia legalmente e siamo pronti per un nuovo incarico. Fanno 5 mila euro a viaggio o 6 mila dollari. Alcuni poliziotti libici chiedono invece tra i 5 mila e i 20 mila euro per lasciar partire le navi. Dipende dal numero dei passeggeri". Gli arrivi in massa degli ultimi giorni segnano la fine dell'accordo tra Silvio Berlusconi e il colonnello Gheddafi. La barca approdata a Lampedusa con quasi 350 immigrati il 26 settembre è addirittura partita dalla Tunisia: "Ci hanno raccolti in Libia e portati oltre il confine", raccontano i passeggeri. F. G.
I diritti umani secondo il Viminale
In sette giorni di reclusione nel centro per immigrati di Lampedusa, la detenzione di Bilal Ibrahim el Habib non è stata convalidata da nessun giudice: nonostante nessun cittadino possa essere privato della libertà senza il giudizio di un magistrato entro un tempo massimo di 48 ore. Gli immigrati rilasciati la sera di venerdì 30 settembre hanno ricevuto l'ordine di lasciare l'Italia entro cinque giorni firmato dal questore di Agrigento e il decreto di respingimento con accompagnamento alla frontiera. In realtà solo una formalità, perché nessuno è stato fisicamente accompagnato al confine. Ma soprattutto in nessun documento consegnato dalla Questura risulta la detenzione degli immigrati per una settimana o più. La Prefettura ha invece pagato ai nove stranieri il biglietto ferroviario da Agrigento a Palermo. Il ministero dell'Interno ha recentemente confermato alla Commissione europea e alla Corte europea per i diritti umani il rispetto della dignità umana nelle procedure di identificazione degli stranieri: in particolare grazie alla sostituzione dell'inchiostro per le impronte digitali con i Visa Scanner che non sporcano le mani. Il Viminale ha anche assicurato alla Ue che per ogni straniero detenuto a Lampedusa avviene un'udienza di convalida davanti a un giudice di pace. Nei casi di Bilal Ibrahim el Habib e degli stranieri detenuti tra il 24 e il 30 settembre nella gabbia del centro per immigrati sull'isola questa affermazione è falsa. F. G.
È l'ora della mangeria
A Lampedusa si usa uno slang che fonde idiomi diversi.
Maifrend: dall'inglese my friend, mio amico. È il modo con cui carabinieri, poliziotti e assistenti si rivolgono agli immigrati rinchiusi nella gabbia di Lampedusa quando si tratta di un singolo. Il plurale diventa cornuti ed è usato soltanto dai carabinieri.
Ashara-ashara: dall'arabo ashara, dieci. È il richiamo per l'adunata poiché ci si siede sull'asfalto in file da dieci. È anche l'indicazione data la sera alla distribuzione delle sigarette: dieci a testa, un pacchetto ogni due reclusi.
Fisa-fisa: dall'arabo, è l'ordine dato quando gli immigrati devono muoversi o fare qualcosa velocemente. Si usa anche visa-visa.
Mangeria: è l'ora dei pasti (colazione, pranzo o cena). Gli egiziani la chiamano anche mangheria o mangaria.
Asciugamano: nella gabbia di Lampedusa ha molti significati e funzioni in più rispetto all'esterno. Sta al posto di coperta, cuscino, parasole, pantaloni, separé nel wc, turbante, fazzoletto, stuoia e serve a proteggersi gli occhi dalla luce dei fari per dormire la notte.Kulu kulu: derivato dall'arabo, è tutto ciò che riguarda il mangiare. F. G.
http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?type=cs
giovedì 6 ottobre 2005
Scuole e cliniche cattoliche, il Senato cancella l'Ici
Approvata la norma sull'esenzione. In rivolta Comuni e centrosinistra
ROMA - Scuole private, strutture alberghiere per pellegrini e cliniche di proprietà della Chiesa non pagheranno più l'Ici. L'articolo 6 del decreto Infrastrutture, che porta la firma del ministro Pietro Lunardi, approvato ieri in Senato, estende infatti le agevolazioni previste per le chiese cattoliche a tutti gli immobili dove si svolgono attività "connesse a finalità di culto" anche in "forma commerciale". In pratica, se finora l'Ici non doveva essere pagata per i luoghi di culto e le loro pertinenze (oratori e sale giochi, conventi e monasteri), la nuova legge allarga l'esenzione a scuole private, case di cura, ristoranti e foresterie appartenenti alle istituzioni cattoliche (e non alle altre confessioni religiose).
Il danno calcolato dall'Anci per le casse dei Comuni è di almeno 300 milioni di euro, 25 dei quali solo a Roma e di una perdita del 30 per cento del gettito in località come Assisi (dove il sindaco di centrodestra si è lamentato). La stima potrebbe però peccare per difetto: solo le strutture destinate all'ospitalità (alberghi per pellegrini, case per ferie, colonie, pensionati e simili) sono circa 3.000 in tutta Italia.
La vicenda, oltre ad essere contestata per la disparità che crea a favore delle attività gestite dalla chiesa cattolica, apre preoccupanti risvolti di finanza pubblica. La norma infatti è di carattere interpretativo e dunque dà la chiave di lettura della legge che istituì l'Ici nel 1993: si apre la porta di conseguenza ad un contenzioso gigantesco di fronte ai giudici tributari, ai quali potranno ricorrere i proprietari degli immobili che fino ad oggi hanno regolarmente pagato la tassa comunale.
"Se il governo voleva fare un intervento di questo genere libero di farlo, ma avrebbe dovuto dare una adeguata copertura senza mettere le finanze dei Comuni in grave rischio", ha detto il ds Morando. Del resto il provvedimento era stato bloccato in commissione Bilancio del Senato alcuni giorni fa proprio per mancanza di copertura finanziaria.
Preoccupato il giudizio di Angius (Ds): "E' un altro dei regali che la Cdl ha fatto in questi anni alla Cei".
Il colpo di mano sull'Ici "ecclesiastica" non fa che gettare benzina sul fuoco dello scontro tra enti locali e governo per i tagli di 3,1 miliardi previsti dalla Finanziaria. Ieri il presidente dell'Anci Domenici è tornato a parlare di manovra "autoritaria e non concertata", Legautonomie propone di sospendere tutti i servizi comunali di un'ora per protesta e il sindaco di Bologna Cofferati ha invitato a "difendersi dall'aggressione".
Palazzo Chigi nel frattempo reagisce alle accuse di sprechi, rivolte dai sindaci allo Stato centrale, e in particolare all'accusa di aver speso 6 milioni per sondaggi. "Notizia falsa", ha detto la presidenza del Consiglio. "La notizia sta in un dossier della Confesercenti che è stato utilizzato anche da Tremonti e dunque è stato giudicato affidabile", hanno replicato dall'Anci. (r. p.)
(6 ottobre 2005)
http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/economia/icicatt/icicatt/icicatt.html
mercoledì 5 ottobre 2005
Confessioni gay
In dieci confessionali di San Pietro per raccontare la propria omosessualità. E i sacerdoti rispondono: iscriviti ai boy scout
di Roberto Mauri
Morto un papa se ne fa un altro, ma mica sempre si finisce meglio.
È tempo di tastare direttamente il terreno e nessun indicatore può essere meglio della questione omosessuale. Che cosa pensano dei gay i preti dell'era Ratzinger? Che cosa dicono i padri confessori ad un penitente trentenne che si sente escluso da una Chiesa che considera l'omosessualità un peccato e il gay un peccatore?
Mi presento a San Pietro un pomeriggio di fine estate, mi avvicino a un confessionale, entro e mi inginocchio.
Il prete che mi aspetta, con un gesto della mano, traccia una croce nell'aria e mi invita a confidargli le mie colpe. Gli spiego che non sento di averne ma che più semplicemente mi sento escluso da una Chiesa che non ama gli omosessuali.
«E perché ti senti escluso?», mi chiede lui. «Padre, io sono gay», mi tocca precisare.
II vecchio sacerdote apre gli occhi che fino ad ora erano rimasti chiusi e fa un sospiro profondo, poi lapidario aggiunge: «Perché?».
Perché... che cosa? Perché sono gay o perché lo sono venuto a confessare? «A tutto c'è un perché - mi illumina il prete -, ci deve essere qualcosa di leggibile anche nella tua omosessualità». Gli segnalo che a me non interessa: io sono gay ma sono anche sereno.
Sto bene nella pelle che mi è capitata e vivo i miei sentimenti e le mie relazioni in modo consapevole. Ma sento il mio rapporto con Dio minato da una Chiesa che stabilisce per iscritto che il legame omosessuale è «nocivo perla società».
«Lo è perché è sterile - mi spiega -, lo è perché il vostro amore non sa riprodurre la vita che il Signore vi ha dato. Per questo non è sano, per questo l'atto sessuale che voi compiete è un peccato. La vostra vita, data la sterilità cui vi costringete. è sbagliata».
Provo a segnalargli che diverse centinania di migliaia di adulti, nella sola Italia, soffrono di patologie che purtroppo precludono loro il dono della riproduzione, e giacché ci sono gli ricordo che ogni prete che si rispetti dovrebbe non avere nessuna vita sessuale, quindi precludersi ogni possibilità riproduttiva. Una vita malsana anche quella del clero?
Cambio confessionale. Poco lontano mi aspetta il mio secondo confessore. Anche a questo giovane sacerdote racconto di sentirmi a disagio in una Chiesa che mi esclude e gli spiego senza troppi fronzoli qual è il problema.
«La Chiesa - mi risponde - ti vuole bene per quello che sei. Se ti si chiede di smettere di peccare, non è per farti star male ma per avvicinarti alla perfezione, alla santità. Ora, tu hai certamente voglia di andare a ballare in discoteca, incontrare della gente e fare con loro quello che ti va in quel momento senza pensare che tutto questo ti allontana da Dio. La Chiesa ti dice che la vita eterna si conquista col sacrificio, con spirito di abnegazione, a volte anche con dolore. Si tratta di scegliere».
In un attimo mi si sono parati davanti agli occhi tutti i frequentatori di discoteche d'Italia e del mondo. Una manica di indemoniati, una montagna di gente da redimere. Avrei voluto dirgli che personalmente non ho mai messo piede in discoteca in vita mia ma che non credo proprio che lì si annidi un covo di belzebù. Allora gli spiego che amare è un fatto assoluto, che coinvolge tutte le emozioni e che noi, esseri umani, non sappiamo scegliere chi amare.
«Hai l'aria di un bravo ragazzo - risponde - ma sei molto confuso. Forse dovresti frequentare qualche gruppo religioso, qualche associazione parrocchiale. i boy scout. Esistono grup pi di laici che si incontrano per parlare di Dio e del suo amore per noi. Magari potresti scoprire che la salvezza è proprio lì, nella tua parrocchia, a portata di mano».
Mi pare geniale: saranno i boy scout a redimermi dal peccato.
Esco da questo confessionale sorridendo: mi pare che la teoria di questo sacerdote sia un tantino fantasiosa. Invece poche ore più tardi dovrò arrendermi all'idea che questa convinzione riscuote una certa popolarità presso il clero dato che quattro dei sei confessori incontrati il primo giorno mi hanno consigliato di frequentare dei gruppi parrocchiali, gli scout, il volontariato in casa di riposo o quello internazionale.
A nessuno di loro ho fatto sapere che per diciotto anni ho frequentato una parrocchia nella provincia di Lecco, che sono stato felicemente animatore parrocchiale, che ho fatto volontariato in casa di riposo e che ho passato otto anni della mia vita a lavorare nei paesi in via di sviluppo. E che questo non mi ha allontanato dalla mia sessualità, casomai è successo il contrario. Però mi tocca ammettere di non essere mai stato un boy scout. Vuoi vedere che è per questo che sono ancora gay?
L'indomani su Roma splende il sole ma io quasi non lo vedo. Con passo spedito ritorno a San Pietro dove mi sono dato la chance di incontrare altri quattro confessori e di ragionare con loro di quanto e se una persona omosessuale possa stare serenamente dentro la Chiesa di Benedetto XVI.
Nel confessionale mi aspetta un bel prete, segno che si può essere sacerdoti senza dimenticare di essere uomini: i capelli scuri vagamente brizzolati sono la cornice di due grandi occhi neri e indossa una camicia grigio chiaro sopra ad un paio di jeans. Intorno al collo ha appoggiata la stola che la liturgia vuole che si indossi nel sacramento della penitenza. Faccio il segno della croce e gli descrivo il peso che sopporta chi si sente escluso e la violenza inenarrabile che leggo nelle parole scritte da Ratzinger sul tema dell'omosessualità.
«Ma tu come stai con Dio?», mi chiede. «Bene, non lo frequento», gli rispondo. Gli spiego che la Chiesa mi ha allontanato da sé e anche dal Signore. «La tua vita - mi spiega - è dono di Dio. Ed è a Dio che devi rendere conto. Noi siamo strumenti nelle sue mani, ma non siamo infallibili. Non sei chiamato a credere alla Chiesa: sei invitato a credere in Dio. Anche la Chiesa deve convertirsi al Signore e a volte se ne dimentica».
Mi pare di aver trovato un prete per una volta davvero illuminato, probabilmente non avrà nessuna possibilità di fare carriera ma almeno aiuta qualcuno. Allora provo ad andare più lontano e gli dico che mi piacerebbe moltissimo poter partecipare alla vita della Chiesa, mano nella mano del mio compagno.
Ci piacerebbe riconvertirci a Dio e trovare riparo sotto il tetto della sua Chiesa. «Forse verrà un giorno in cui potrete - risponde il prete con un sorriso - ma non è tempo per ora. Questa Chiesa, che è fatta di uomini, non è ancora riuscita a parlare con serenità del celibato del clero. Ed è un tema sentito per quanto taciuto. Figurati se sa parlare senza orrore della questione omosessuale. Accettare la presenza attiva di coppie omosessuali dentro la Chiesa significa superare addirittura il concetto di tolleranza. Non è tempo». La pillola è amara e lui non ha cercato di addolcirla. Ma almeno è stato chiaro e franco: questa Chiesa non solo non è pronta ad accettare l'omosessualità dei suoi fedeli, ma nemmeno i bisogni del suo clero. Per migliorare le cose servirebbe un intervento divino.
Alla fine della giornata entro nuovamente in un confessionale dove le cose vanno un po' diversamente. Ad aspettarmi è un giovane prete, potrebbe avere trent'anni. Un po' stempiato, occhi scuri dietro ad un paio di occhiali da vista con una montatura sottilissima. Ha la carnagione chiara, mani affusolate e unghie curate con attenzione. Indossa l'abito talare, nero, porta la stola e sulle ginocchia ha appoggiato un messale o la Bibbia. Traccia con la mano il disegno del-a croce e mi invita a parlargli. Noto nei suoi gesti un qualcosa di francamente effeminato. Mi sento protetto, sento di avere davanti qualcuno che probabilmente saprà che cosa dirmi per il semplice fatto che, almeno apparentemente, sul tema ci deve essere già andato per motivi personali. Gli dico che mi sento a disagio in una Chiesa che fa fatica ad accettare i gay.
Lui diventa improvvisamente cupo e si trincera dietro a uno sguardo severissimo. Non parla. Allora aggiungo che da quando conosco il nuovo catechismo e i documenti a firma di Ratzinger su questo tema, mi sento decisamente lontano da Santa Romana Chiesa. Insiste nel suo guardarmi in silenzio. Taccio anche io.
«Non posso darti l'assoluzione per questo peccato», chiosa lui.
Non mi pare grave, gli chiedo però un consiglio, una lettura sua dell'intera questione. Al mio parere - conclude - non conta. Il Santo Padre è stato chiarissimo sulla materia. Voi omosessuali vivete dentro al peccato e faticate a riconoscerlo. Tu per esempio da quando sei entrato in questo confessionale non hai ancora chiesto perdono una volta. Io non posso assolvere chi non si sente peccatore. E non posso, a maggior ragione, se so che peccherà ancora, se noto che non c'è pentimento. E tu non sei pentito».
Insisto nel dire che non di perdono sono alla ricerca, ma di un punto di vista, la cosiddetta parola di conforto. «Non si conforta un peccatore - dice -, meno che mai se intende peccare ancora».
Gli ricordo che da qualche parte nel Vangelo ho letto, anni fa, la storia di un figliol prodigo e le vicende di una donna che si chiamava Maddalena. Lui se ne ricorda? Con tutto quel suo atteggiarsi a santo inquisitore non è riuscito nemmeno per un momento a mascherare la sua gestualità marcata-mente effeminata.
Provo a ricordargli l'evangelico "Chi è senza peccato scagli la prima pie-tra". «Quanto è grande la sua pietra?», gli chiedo. Lui si alza, si sfila la stola, la appoggia sul suo sedile, esce dal confessionale e ancheggiando scompare dietro a una colonna della grande basilica di San Pietro.
Per fortuna, quando esco, lungo il colonnato del Bernini due ragazze australiane si danno un lungo. lento, semplice bacio che provoca sguardi curiosi e qualche smorfia di disgusto fra gli astanti. Le due ragazze invece sorridono, guardano i volti cupi di chi le osserva e ostentano le loro magliette su cui si legge: "This is lo-ve". Certe del loro amore, si prendo-no per mano e si allontanano dal cuore della cristianità cattolica. Me ne vado anche io. Qui rimangono i turisti, i fedeli, Benedetto XVI e i suoi preti inquadrati.
http://www.gaynews.it/view.php?ID=34428
Prete arrestato per atti sessuali licenzia tre dipendenti dell'asilo
Due educatrici e la cuoca che avevano segnalato presunti abusi su una decina di bambine hanno impugnato i licenziamenti
Per il sacerdote, agli arresti domiciliari, chiesto il rinvio a giudizio
FERRARA - Tre dipendenti di un asilo parrocchiale sono state licenziate dopo aver accusato un sacerdote di atti sessuali su una decina di bambine. E' accaduto in un istituto della provincia di Ferrara: due educatrici e la cuoca che segnalarono per prime quei fatti sospetti sono state licenziate con una lettera firmata dallo stesso religioso.
Le due educatrici e la cuoca hanno ricevuto la lettera il 3 settembre, due giorni prima dell'apertura dell'asilo. Tutte e tre hanno però impugnato i licenziamenti e tramite il loro legale attendono la fissazione dell'udienza di conciliazione con la controparte, la curia che di fatto gestiva la struttura.
La vicenda è esplosa nel marzo scorso con l'arresto del sacerdote, di fatto gestore dell'asilo nonché rappresentante legale, che venne accusato di comportamenti, atteggiamenti e gesti ambigui che penalmente, dopo un'indagine durata mesi, si sono trasformati in un'accusa di violenza sessuale: per il prete, infatti, il pubblico ministero Filippo Di Benedetto ha chiesto il rinvio a giudizio e l'udienza preliminare è fissata per i primi di dicembre.
Il sacerdote dopo oltre sei mesi è ancora agli arresti domiciliari, ed è stato trasferito recentemente dalla canonica della parrocchia vicino all'asilo stesso in una struttura religiosa nel bolognese.
Nella lettera di licenziamento contro le tre dipendenti dell'asilo, il sacerdote scrive che "in qualità di legale rappresentante della scuola (...) a causa degli eventi imprevedibili che hanno determinato l'impossibilità di proseguire l'attività (...) e trovandosi lo stesso ancora agli arresti domiciliari, fatto da Lei ben conosciuto (...), comunica che Ella cesserà definitivamente il rapporto di lavoro".
Una "lettera beffa", secondo le tre licenziate e una decina di genitori dei bambini dell'asilo, che hanno solidarizzato con loro. Una lettera di licenziamento "frutto di una decisione presa dall'alto, mentre il sacerdote si è limitato a firmare le lettere come rappresentate legale della parrocchia", spiega il legale del religioso.
Di fatto, i licenziamenti sono stati giustificati con la cessazione da parte della parrocchia di ogni attività di gestione dell'asilo, la cui chiusura è stata scongiurata perché è stata delegata a un altro ente ferrarese, la Fondazione Braghini Rossetti.
(5 ottobre 2005)
http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/cronaca/ferraraprete/ferraraprete/ferraraprete.html
Siamo fieri dei nostri figli «disordinati»
di Delia Vaccarello «Io vengo da una famiglia di contadini, siamo 14 figli. Arrivato a 50 anni mio figlio e mia figlia hanno aperto la porta della cucina e hanno detto a me e mia moglie: "Siamo gay", avevano 16 anni lui e 14 lei. Abbiamo cominciato a chiederci dove avevamo sbagliato. È stato il latte artificiale? I giocattoli innovativi? Tutti noi cresciamo in gruppi regolati dal pensiero rigido. Presto ti chiedono: "quando ti sposi?, quando hai un figlio?” I nostri ragazzi con il loro modo di essere scuotevano l'ordine del gruppo - dice Ettore Ciano dell’Agedo, associazione di genitori e amici degli omosessuali - . Ma io sono un insegnante, e anche mia moglie. Una voce dentro di noi ci ha detto sempre che i figli sono disordinati per definizione, che i ragazzi hanno un modo di pensare unico. I genitori, però, si sentono sempre in colpa. Una colpa indotta dalla società. Ma l'amore e il rispetto per i nostri figli hanno prevalso. Mia moglie, che frequentava la Chiesa, un giorno ha detto: "Insomma, questi cristiani devono finirla di offendere". E’ stato allora che abbiamo smesso di fare la caccia al colpevole dentro noi. E abbiamo fondato a Sassari un centro Agedo. Oggi ringraziamo la realtà omosessuale perché ci ha permesso di vedere l'individuo fuori da qualsiasi logica "razzista". Non sarebbe questo il compito della Chiesa?». Molti genitori restano avviluppati da mille domande senza una possibile risposta, Ettore Ciano e sua moglie hanno superato questa fase, hanno riunito altri genitori per contrastare quella che definiscono «una cultura plasmata per il 90 per cento dall'omofobia». Non sono i soli. Li chiamiamo innovatori del «disordine»? «Quando l'acqua è ghiacciata è priva di conoscenza, quando scorre nei fiumi è colma di vita. Mio figlio mi ha detto di essere gay scrivendomi una lettera. Diceva "amo un ragazzo". Ho pensato a una "disortografia", ho provato disagio. Finendo la lettura ho capito che non aveva sbagliato a scrivere. Parlandomi, aveva "disordinato" le mie categorie. Oggi dico: per fortuna» racconta Rita De Santis, dell'Agedo di Brescia, anche lei prof. «Sono aperta, di sinistra, conosco tanti gay, ma quando mio figlio mi ha scritto ho capito che non conoscevo nulla del suo amore. Ho avuto paura, ho sentito che la cultura, che per me è cibo vivo, non mi aveva dato la chiave immediata per capire. Mi ci sono voluti sei mesi e mi rammarico di averci messo tanto». I genitori che ricorrono all'Agedo sono disorientati. «Vengono da noi, ci dicono di aver comperato diversi testi cattolici, compreso l'ultimo, "L'abc per capire l'omosessualità" - aggiunge Ettore Ciano -, ma leggono sempre la stessa cosa: "omosessuali disordinati e da curare". Una mia collega ha portato il figlio da Milingo, dai preti di Assisi, tormentandosi. Alcuni sacerdoti dicono di mandare i figli dalle prostitute. E i genitori entrano in crisi, perdono il senso della progettualità, si sentono stigmatizzati come i loro figli. Un papà, preside, voleva dimettersi, si sentiva sbagliato. Alcuni arrivano a suicidarsi.» Che fare? «Bisogna fermare la persecuzione in atto anche dentro di noi, combattere l’idea dell’omosessualità come peccato - continua Ciano -. Coloro che non sono capaci di farlo si trovano nella condizione di quel marito e di quella moglie che non riescono a lasciarsi e si imbrigliano in una rete di dolorosi conflitti. La realtà impone di aprire gli occhi, di capire e andare avanti; di sfuggire ai tentativi di mortificazione dei gay e dei loro genitori, e di scegliere la vita. Per fare questo ci vuole un grande accordo all'interno della coppia genitoriale. Abbiamo iniziato ad aprire la nostra casa agli amici gay dei nostri figli, abbiamo favorito l'incontro tra i loro genitori, e molti hanno capito che la loro realtà non era né straordinaria, né straordinariamente negativa. Ci siamo documentati a fondo, perché il tema dell'orientamento sessuale è poco noto, mentre i pregiudizi sono diffusissimi». Per lottare contro i tabù esterni e interiorizzati occorre l'intelligenza dei sentimenti: «Io ho paura per mio figlio - dice Rita De Santis, che ha scritto un libro sul suo rapporto con il compagno del figlio dal titolo "Il nuoro" - quando sento che in Iran due omosessuali sono stati lapidati ho paura che una parte di quelle pietre finisca addosso a mio figlio. Provo rabbia, angoscia per la sua incolumità. Di lui sono fiera. Quando mi sono presentata con lui alle altre famiglie, nessuno ci ha ferito. Il mio orgoglio per lui non ha crepe in cui la cattiveria, come suole fare, potrebbe insinuarsi». La ricetta è variegata, molti i modi di accogliere il cosiddetto «disordine», che altro non è se non l’orientamento omosessuale non previsto. Unico è il sentimento: «La ricetta è l'amore. Al suo interno ci sono il panico, la paura di perdere, la tensione all'ascolto, al confronto. L'amore non è una panacea, anzi. È vivo, come il "disordine". Noi siamo riconoscenti ai nostri figli. Grazie a loro oggi viviamo una vita più ricca». A volte i figli aprono gli occhi ai genitori su una realtà fuori dai loro schemi mentali. Hanno iniziato da soli ad affrontare la forza di un sentimento che la società, molto spesso, ancora offende. Si ritrovano poi a «spiegare» il loro percorso ai padri e alle madri. In quei momenti il tempo sembra aver invertito le direzioni, sono i più giovani a proteggere i genitori dall’impatto con un’affettività che fa paura non in sè, ma solo perché è demonizzata. Hanno già avvertito da soli, avendo come bagaglio i loro pochi anni, l’urto che può provocare un sentire disapprovato socialmente, ma che si presenta come una radice emotiva inestirpabile. In questi casi, i giovani sono «nani» che portano sulle spalle pesi grandi come giganti. Molti di loro ce la fanno. Certo, sono «devianti». Come lo sono quanti tra noi sono piccoli grandi eroi. [i]delia.vaccarello@tiscali.it
Genitori di tutto il mondo unitevi. Sapete tutti quanti sensi di colpa vi catturano quando si parla di figli. A chi di voi piacerebbe sentirsi dire che ha messo al mondo un «deviante»? Succede oggi ai papà e alle mamme dei gay. L'ideologia cattolica sostiene che gli omosessuali sono disordinati e che le loro unioni minacciano le famiglie. Ma la famiglia i gay già ce l'hanno. È quella in cui sono nati. È una famiglia «disordinata»? Com’è fatta una famiglia di «sfasciafamiglie»? I genitori degli omosex come vivono la «condanna» delle gerarchie per aver allevato siffatta prole? Si ribellano o si mortificano? Occorre prestare attenzione: poiché l'orientamento sessuale è un'acquisizione della maturità affettiva sia in versione omo che etero, potrebbe succedere a ciascuno di voi di sentirsi dire: «mamma, papà, sono gay».
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=LIBE&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=44887
Incominciamo con un pettegoilezzo: s'è fatto sesso gay alla Camera dei Deputati
"Grillo Parlamentare" un inviato particolare nei Palazzi del potere.
Incominciamo con un pettegolezzo: s'è fatto sesso gay alla Camera dei Deputati, ma la stampa ha mantenuto uno stretto riserbo sulla notizia.
Nulla a che vedere con l'apparizione sui computer degli uffici dei parlamentari di immagini hard gay, a opera di sedicenti hacker e nemmeno il sottoscritto è implicato nella vicenda.
Elio Turola, il direttore degli uffici della Questura della Camera dei Deputati, ha condotto una vita "dissoluta" accompagnandosi, in atteggiamenti "lascivi" con giovani militari e con il personale in servizio a Montecitorio. Correva l'anno 1929, e questa gustosa vicenda, raccontata da Lorenzo Benadusi ne Il nemico dell'uomo nuovo (ed. Feltrinelli), era diventata di dominio pubblico.
Un'inchiesta nel 1936 stroncava la carriera del "povero" Turola e, presumibilmente anche le sue "eccessive effusioni con il Portiere della Camera" e con i suoi "subalterni".
Oggi, so solo di flirt tra parlamentari (che ovviamente non oso nominare), tutti in attesa del PACS, tra gli argomenti che hanno tenuto banco negli ultimi mesi.
Prodi mi ha scritto personalmente una lettera: «Come ho detto più volte nei mesi scorsi, e come sai, condivido con gli altri leader dei partiti dell'Unione l'ipotesi di una proposta universalistica che affronti, regolamenti e risolva il tema dei diritti delle coppie di fatto basate su un vincolo diverso da quello del matrimonio».
Apriti cielo. Per giorni su quotidiani, radio e TV è stata polemica.
Il Riformista ha parlato di "tifone Grillini" mentre Mastella irritato ha chiosato: «Se alla fine anche uno come Grillini è più ascoltato di me nella coalizione, allora buona fortuna...».
Peccato però che TG1, TG2 e TG3 e le reti Mediaset, che hanno dato conto della notizia con dovizia di particolari, non abbiano intervistato alcun esponente gay, confermando la censura che caratterizza da tempo l'atteggiamento dei telegiornali.
È sull'informazione che lavoreremo nei prossimi mesi, ma intanto ho mandato una lettera di protesta a Petruccioli, Presidente Rai, assieme a un gruppo di parlamentari.
Sul PACS tutta la sinistra, tranne qualche spunto polemico dei cattolici, è ormai d'accordo e anche Fini e La Russa sono possibilisti. Anche il divieto ai gay di donare il sangue, subito da Paolo Pedote da parte dei medici del Policlinico di Milano, è stato un argomento polemico che ha fatto versare fiumi di inchiostro.
Questa era una battaglia già vinta con il Decreto Veronesi; una grande vittoria del movimento gay all'epoca del Governo dell'Ulivo che ha sancito, in via definitiva, che il nostro sangue è uguale a quello degli altri.
Ma l'omofobia si annida anche tra coloro che dovrebbero fare dell'aggiornamento professionale una delle ragioni di vita. Sul caso, per restare allenati, abbiamo presentato un'interrogazione parlamentare chiedendo a Francesco Storace, Ministro della Sanità: «quali iniziative intenda assumere per far cessare i comportamenti illegali in atto all'Ospedale Maggiore di Milano e in altri nosocomi italiani e ripristinare il sistema di garanzie previsto dalla normativa vigente consentendo a tutti i donatori di esercitare il loro diritto dovere senza alcuna discriminazione». Il Ministro ha addirittura aperto un'inchiesta ministeriale sul caso.
Mentre i gay si avviano a diventare l'ago della bilancia della politica italiana e mentre Prodi continua a parlare di PACS e di coppie che soffrono che meriterebbero diritti, i vescovi irridono le convivenze come "casi pietosi". Io non ci vedo nulla di cristiano nella loro presa di posizione...
Anche alla Mostra del Cinema di Venezia abbiamo tenuto banco. Oltre a vincere il Leone d'Oro, il film gayssimo Brokeback Mountain di Ang Lee ristabilisce la verità sull'omosessualità nel mondo dei cowboy, regno della maschilità per antonomasia. È un film di rottura splendido che aiuterà molto a capire il nostro universo. Il presidente del festival poi, Marco Müller, ha promesso che l'anno prossimo ci sarà una rassegna gay all'interno della programmazione del cinema.
Non oso immaginare cosa ci possano riservare, gayamente parlando, i prossimi mesi...
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Ringraziamo il mensile "Babilonia" che ci ha concesso di pubblicare in esclusiva alcuni articoli del numero in edicola da oggi.
La Redazione
http://www.gaynews.it/view.php?ID=34415
La campagna d'ottobre di Silvio e la resistenza del Quirinale
Proporzionale, legge salva-Previti, devolution tre passaggi che mettono a rischio la Costituzione
Dalle parole di Ciampi anche un'inquietudine per lo sbocco della transizione italiana
di MASSIMO GIANNINI
LA CASA comune degli italiani è la merce che Berlusconi è pronto a barattare per tenere insieme la Casa delle Libertà. Come l'animale morente che sferra gli ultimi colpi di coda, così il centrodestra in declino assesta gli scossoni finali alla Costituzione. Di qui alla fine della legislatura, il lungo ciclo delle "leggi vergogna" si chiude con un terribile trittico: proporzionale, Salva-Previsit, devolution. Ognuna di queste sedicenti "riforme" è una picconata al nostro assetto costituzionale. Non può stupire che di fronte a questa definitiva campagna d'autunno del Polo sia di nuovo Ciampi a far sentire la sua voce.
Il custode delle regole, il garante dell'unità nazionale, dice forte e chiaro che la Costituzione è un "atto fondante" della Repubblica. In mezzo secolo, nel suo "impianto generale", ha mostrato una "straordinaria validità". Può essere modificata, certo. Ma non può e non deve essere stravolta. Non può e non deve essere svilita a banale partita di scambio, attraverso la quale una sola parte politica cerca di sopravvivere a se stessa, a scapito dell'interesse nazionale. Non può e non deve essere smontata pezzo per pezzo, per cercare di ricomporre le divisioni di una coalizione.
Senza un disegno organico. Senza un impianto coerente, da sottoporre nelle forme dovute al vaglio del Parlamento e dell'opinione pubblica. Le parole di Ciampi riflettono la sua preoccupazione istituzionale, ma amplificano anche un'inquietudine più generale per lo sbocco di questa eterna transizione italiana. Costretta dal Cavaliere a un triplice, pericolosissimo passaggio.
Il primo passaggio è quello del proporzionale. "La partita di fine legislatura", la chiama. Berlusconi ha bisogno di questa tagliola, per azzoppare Prodi e per attanagliare Casini nella morsa di un'alleanza nella quale tutti devono "sopravvivere o perire" insieme a lui. È una legge ordinaria. Il Parlamento è sovrano. In teoria Ciampi non dovrebbe intervenire, né in fase preventiva con la moral suasion, né in fase successiva con il diniego della promulgazione.
Eppure al presidente non può essere sfuggito quello che lo stesso Marco Follini, leader dell'Udc, ha ricordato ieri nella lettera inviata al Corriere della Sera. Oltre alla stupefacente sequela di incongruenze tecniche che hanno come unico scopo quello di ridurre lo scarto tra centrodestra e centrosinistra e di rendere il Paese ingovernabile se quest'ultimo vincesse le elezioni nel 2006, l'emendamento del Polo "determina un legame tra le liste e il candidato premier, trascurando che la Costituzione assegna al Capo dello Stato il dovere istituzionale di incaricare il primo ministro".
Sarebbe l'abc per qualunque assemblea legislativa. Non lo è per questa maggioranza. Provare per credere. Al quarto comma dell'articolo 1 del testo unificato ed emendato dal Polo, si legge che "i partiti o i gruppi politici organizzati depositano il programma elettorale e dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata per la carica di presidente del Consiglio dei Ministri. I partiti o i gruppi politici organizzati tra loro collegati depositano lo stesso programma e dichiarano lo stesso nome e cognome della persona da loro indicata per la carica di presidente del Consiglio dei Ministri".
È uno strappo grave. Finché la Costituzione non viene riscritta nelle forme di revisione "rinforzata" che la stessa Carta fondamentale prevede, il potere di scegliere e di nominare il primo ministro è nelle mani esclusive del Capo dello Stato. L'articolo 92 non lascia margini di ambiguità: "Il presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i ministri".
Insieme allo scioglimento delle Camere, questo è forse uno dei poteri più importanti del Quirinale. Ed è un potere formalmente ed esplicitamente disciplinato. Non è neanche una più semplice "consuetudine costituzionale", come quella delle consultazioni.
Siamo molto al di là di quella "presidenzializzazione" della democrazia parlamentare, che nella tumultuosa stagione del berlusconismo si è subdolamente insinuata nel sistema. Fino a snaturarlo, e a renderlo quasi ingestibile.
Al di là dell'inaccettabile approccio mono-partisan del Polo, Ciampi non può sottovalutare le insidie di una simile forzatura. Finirebbe per venirne vulnerata, in modo difficilmente riparabile, l'istituzione di garanzia che lui stesso rappresenta. Difficile dire, qui ed ora, se Ciampi possa o no rinviare la legge alle Camere, nel momento in cui fosse varata in questa versione. Ma la questione è aperta.
Il secondo passaggio è la legge Salva-Previti. Il senatore forzista, ex avvocato del Cavaliere, ha bisogno di questo grimaldello, per uscire a qualunque costo dal tunnel giudiziario dal quale cerca di fuggire ormai da dieci anni. Qui i dubbi del Colle sono profondi. Quel testo, così com'è, è una vera e propria "amnistia mascherata". Se ancora ce ne fosse bisogno, l'opinione autorevolissima di un presidente emerito della Consulta spazza via tutte le residue perplessità: "eritano dovuta attenzione - ha scritto Giovanni Conso sul Sole 24 Ore di ieri - le questioni pregiudiziali per motivi di costituzionalità" già sollevate sulla ex Cirielli durante il dibattito in Senato. "Segnalano difetti già da molte parti autorevolmente lamentati... che se non eliminati esporrebbero il provvedimento, in tutto o in parte, a sicuri rischi di incostituzionalità. E quel che è peggio, in caso di successivo accoglimento da parte della Corte costituzionale, porterebbero all'annullamento di tutte le decisioni giudiziarie che dovessero venire adottate sulla base di una o più delle nuove norme poi dichiarate illegittime". Anche in questo caso, il presidente della Repubblica ha fondate ragioni per schierarsi con forza a difesa delle regole.
La stessa cosa, in tempi e in modi diversi, si può dire per il terzo passaggio cruciale di questo avvelenato finale di legislatura. La devolution, legge di revisione costituzionale, andrà alla Camera il prossimo 20 ottobre. Sarà la terza lettura, delle quattro necessarie in base all'articolo 138, e prima del via libera al referendum popolare confermativo. I tempi sono contingentati. La Lega ha bisogno di questo feticcio, da agitare a qualunque costo in campagna elettorale. Ciampi non ha titolo per fermarla. Ma ha mille ragioni per temere, di nuovo, lo scempio della Costituzione. Che resterebbe nel tempo, e durerebbe ben oltre il breve spazio di vita di questo centrodestra destabilizzato e destabilizzante.
Oggi il presidente non può che ripetere quello che va dicendo dal febbraio di un anno fa: "Una riforma così ampia, che non riguarda solo il Titolo V ma anche gran parte della Costituzione e organi fondamentali dell'architettura costituzionale della nostra Repubblica, a cominciare dal Senato, non può essere affidata solamente a una parte, sostenendo che ha i voti e la fa passare a tutti i costi...".
Siamo forse allo snodo più delicato e gravido di conseguenze di questo dirompente quinquennio berlusconiano. Il Cavaliere coltiva la disperata suggestione di forgiare la sua "nuova" maggioranza nel fuoco di una devastante battaglia politico-parlamentare. Se l'operazione non riesce, il premier agita lo spettro delle elezioni subito, confermando il suo patogeno analfabetismo costituzionale: di nuovo, chi decide sul voto anticipato non è il premier, ma il Capo dello Stato. Se invece l'operazione riesce, al prezzo di una radicale militarizzazione della Cdl e di una definitiva giubilazione del nemico pubblico Follini, subito dopo tutto diventa possibile: dallo spaventoso assalto alla diligenza della Finanziaria al forzoso abbattimento della par condicio. Ancora una volta, per fortuna, gli strumenti utili a "disarmare" l'uomo di Arcore riposano nelle salde e sagge mani dell'uomo del Colle.
(5 ottobre 2005)
http://www.repubblica.it/2005/i/sezioni/politica/versoelezioni2/resiquir/resiquir.html
martedì 4 ottobre 2005
Per i Valdesi i Pacs non sono contro le famiglie
di redazione
I Pacs non sarebbero un «attentato alla famiglia» nè minerebbero il matrimonio, e l'art. 29 della Costituzione va intepretato in senso «estensivo» e non «restrittivo». Lo afferma Sergio Rostagno, già docente di Teologia dogmatica alla Facoltà valdese di teologia e coordinatore della Tavola valdese sui temi etici posti dalla scienza. Rostagno è stato intervistato dalla Nev, l'agenzia delle chiese evangeliche italiane, dopo la critica ai Pacs formulata dal cardinale Ruini.
«Proprio perchè le unioni di fatto (di ogni tipo) hanno caratteristiche loro proprie, - afferma Rostagno - occorre estendere loro riconoscimenti e diritti che proteggano e garantiscano il benessere dei partner. Questo scopo può essere raggiunto con apposite leggi. In nessun modo ci sarebbe un attentato alla famiglia. I valori positivi che in essa si possono trovare, li si troverà ovviamente ovunque e non dipendono certo dalla nostra etichetta (famiglia, unione, patto ecc.). La realtà conta, non il nome, e la realtà non la governa nessuno.
Noi governiamo semmai rapporti di tipo giuridico» Alla domanda se i Pacs non minino l'istituzione del matrimonio, Rostagno risponde: «Se il matrimonio regolamentato come lo conosciamo dall'evoluzione del diritto romano è un'istituzione, altrettanto lo possono essere altri tipi di unione. La coscienza religiosa può essere interessata unicamente dal modo con cui si vive il matrimonio o qualunque altro tipo di unione. Qualunque tipo può essere benedetto, agli occhi di Dio. Quanto ai problemi dei figli, ne hanno tutti. In ogni tipo di rapporto contano molti fattori che non sono regolamentabili. I problemi si affrontano se e quando sorgono, non preventivamente con esclusioni e condanne. bene anzi valorizzare il concetto di patto all'interno della famiglia e del matrimonio.
Del patto essi sono espressione, anche se il patto non esaurisce certo ogni aspettativa della convivenza familiare». «Salvi restando i rapporti di tipo giuridico, che devono ispirarsi a criteri di giustizia e previdenza, - prosegue il teologo valdese - la specificità da salvaguardare riguarda la coscienza di ognuno. Se la famiglia tradizionale è un modello positivo, tanto più può diffondere i suoi valori. Ma ogni modello positivo altro non è che un tentativo di tradurre in modo confacente l'affetto e la solidarietà, oltre che la responsabilità nei rapporti, cioè cose che non possono essere comandate o regolamentate, ma che si ottengono con l'educazione. Lo stato deve essere imparziale e aiutare tutti a condurre una vita degna e ricca di relazioni positive.
L'art. 29 della Costituzione ('La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiarè) non va interpretato in modo restrittivo, ma estensivo».
http://www.articolo21.info/notizia.php?id=2486
«Il centrosinistra vince, ma di meno». Così il voto se torna il proporzionale
Unione penalizzata dalla competizione interna tra i partiti Il centrodestra risale favorito dalla corsa delle singole liste
La minore differenza di seggi tra i poli potrebbe rendere più difficile il compito a un eventuale governo del ProfessoreLa riforma elettorale della CdL non riuscirà a rovesciare la supremazia dell'opposizione. Ma, certo, può avvantaggiare il centrodestra e portare difficoltà all'Unione. Non solo a causa del problema di candidare Prodi in uno degli attuali partiti, quanto, specialmente, per alcuni caratteri generali del provvedimento.
In primo luogo, il ritorno al proporzionale. Ripristinato, per la verità, contro il volere della maggioranza, come mostrano anche i sondaggi. Esso porta ad un rafforzamento del ruolo dei partiti e della loro leadership. La riforma proposta accentua questo effetto. Ad esempio, l'abolizione delle preferenze e l'introduzione della lista bloccata (si è eletti seguendo l'ordine di presentazione) attribuiscono ai vertici delle forze politiche — specie le maggiori, dato che chi non supera la soglia del 2% contribuisce con i suoi voti alla propria coalizione, ma non ha diritto a seggi — tutto il potere di decidere chi, più probabilmente, diventerà parlamentare. Ancora, sono i partiti, assai più dei singoli candidati (solo i pochi potenziali eleggibili hanno interesse a investire nella competizione), ad essere i protagonisti della campagna elettorale.
Che vedrà ciascuna forza politica gareggiare prevalentemente in opposizione alle altre della sua coalizione (dalle quali è più agevole sottrarre i voti) piuttosto che contro il polo opposto.
Nell'insieme, il maggior peso dei partiti potrebbe favorire le liste del centrodestra. Esse, tradizionalmente, presentandosi separatamente attraggono più voti di quanto faccia la coalizione nel suo insieme. Al tempo stesso, la più accentuata competizione tra partiti potrebbe drammatizzare le divisioni nel centrosinistra, erodendone l'immagine di credibile forza di governo e stimolando l'astensione.
C'è poi la prevista abolizione del limite alle candidature di un singolo individuo sul territorio nazionale. In teoria Berlusconi (o chiunque altro) potrebbe presentarsi dappertutto. E qualcuno scommette già che il Cavaliere lo farà, confidando nel valore aggiunto della sua capacità comunicativa.
Prima dello svolgimento della campagna è impossibile indicare con precisione le conseguenze elettorali dell'introduzione della riforma. Le tabelle riportano alcuni possibili scenari, basati sui sondaggi di queste settimane. Allo stato attuale, la nuova norma sembra attenuare gli effetti della sconfitta che la CdL subirebbe se si votasse con il sistema attuale, anche se permane lo svantaggio in termini di voti. Ciò incrementa le possibilità — e le speranze — competitive del centrodestra.
Ma è certo che in un futuro Parlamento una minore distanza tra i poli in termini di seggi, accompagnata ad un maggior rilievo dei singoli partiti (con l'accentuazione del «potere di coalizione» esercitabile anche dai più piccoli) non potranno che rendere più difficile la vita di un eventuale governo dell'Unione. Ha ragione Massimo Franco che notava ieri sul Corriere: «Il fine della riforma non è tanto far vincere la CdL, quanto azzoppare la vittoria dell'Unione».
Corriere della Sera 4-10-2005
lunedì 3 ottobre 2005
Perché Ruini non diventa senatore
"Dio è con noi" è la tentazione moderna del totalitarismo e al tempo stesso della teocrazia.
di EUGENIO SCALFARI
Tra i tanti problemi che affollano il nostro presente nel mondo e nel paese in cui viviamo, ce n´è uno che in Italia è particolarmente avvertito, anzi che è esclusivamente nostro: la questione cattolica.
Dominò la società italiana per quarant´anni, dal 1870 fino alla fine del "non expedit". Sembrò del tutto risolta, ma nei modi imperativi propri d´un regime dittatoriale, con il Concordato del 1929. Fu nuovamente assopita con l´inserimento dei patti concordatari nella Costituzione repubblicana, auspici Dossetti, De Gasperi e Togliatti, nel 1947 e ancor più con la parziale revisione del Concordato dell´85. Si andò ancor più avanti (o almeno così era parso) con il dissolvimento della Democrazia cristiana nel ´93 e la fine dell´unità politica dei cattolici.
Invece proprio dalle ceneri di quell´unità, che aveva affidato alla Dc il difficile ma non impossibile compito di mediare gli interessi della Chiesa con quelli dello Stato, la questione cattolica è uscita da una lunga latenza e si è riproposta con un´intensità nuova e ancor più pervasiva per il semplice fatto che non riguarda soltanto gli interessi della Santa Sede e del Vaticano ma anche i valori dei quali la religione è portatrice, l´etica che ne deriva e i suoi campi d´applicazione in materie prima trascurate o addirittura inesistenti, prima tra tutte la bioetica che i progressi della tecnologia hanno portato alla ribalta e che hanno fatto sorgere nuovi bisogni, nuovi desideri e nuovi diritti chiamando in causa la legislazione e quindi la politica e, insieme, la religione, la società civile, lo Stato.
Si fa un gran discutere in questa fase di laicità, di laici e di laicisti aggiungendo una manciata di biasimo a quest´ultima parola. Se ne discute facendo anche molta confusione tra credenti e non credenti e – tra i credenti – quelli che aderiscono alla pratica della liturgia e del catechismo e quelli che, pur avendo fede in un Dio trascendente e cristiano, non passano necessariamente attraverso il filtro sacramentale del magistero ecclesiastico ma cercano di raggiungerlo direttamente e plasmano il proprio sentimento religioso con l´autonomia d´una propria morale. Questa discussione, confusa ma fervida, si svolge al di fuori della politica. Prescinde dalla politica. Riguarda diverse visioni della vita e del senso che essa ha per ciascuno di noi. Dunque riguarda il nostro privato. Il modo con cui preghiamo o non preghiamo, crediamo o non crediamo, pecchiamo o non pecchiamo, ci sentiamo colpevoli o ci assolviamo.
Tutti questi sentimenti, emozioni, credenze e l´antropologia che ne deriva, non hanno alcuna attinenza con la politica, con le leggi, con le istituzioni. Le quali invece entrano in gioco solo nel momento in cui la Chiesa, o per esser più precisi la gerarchia ecclesiastica, usa lo spazio pubblico per introdurre i suoi orientamenti nelle istituzioni, per conformarle il più possibile alle sue prescrizioni, per ottenere diritti adeguati allasua visione del mondo e dei rapporti interpersonali e negare altri diritti che si distacchino da quella visione.
Qui nasce il conflitto e nel momento in cui esso diventa intenso e permanente qui nasce la questione cattolica e la sua compatibilità con la democrazia.
* * *
Esistono ancora dei laici fedeli all´ideale cavouriano di "libera Chiesa in libero Stato" che preferirebbero un regime di netta separazione tra l´istituzione religiosa e quella civile.
Personalmente mi iscrivo tra questi. Ma debbo chiarire che il regime separatista (del resto vigente in molti paesi dell´Occidente a cominciare dagli Stati Uniti) non significa affatto impedire alla Chiesa di utilizzare lo spazio pubblico per confrontare le proprie visioni e dottrine con altre comunque diverse. Al contrario: eventuali limiti posti all´uso dello spazio pubblico possono venire da pattuizioni concordatarie che prevedono sempre uno scambio tra le parti contraenti.
In un regime di separatismo la Chiesa non ha né privilegi né limitazioni, salvo quelle previste dai codici e dalle leggi. Si mantiene economicamente con le risorse ottenute dai suoi fedeli, apre e gestisce le sue scuole private senza alcun contributo dello Stato e di enti pubblici locali; in compenso è pienamente libera di predicare e prescrivere ciò che vuole e nessuno può impedirglielo.
In un siffatto regime i sacerdoti e i vescovi sono cittadini a tutti gli effetti, nei diritti e nei doveri.
Possono promuovere partiti politici o aderirvi, possono diventare membri del Parlamento e membri del governo. Chi potrebbe impedirlo per proprie e non sindacabili ragioni sarebbe tutt´al più la stessa Chiesa ma non certo uno Stato democratico che per definizione non può negare ad un cittadino diritti universalmente riconosciuti.
Ricordo che don Luigi Sturzo fondò e diresse il Partito popolare che ebbe molti seggi in Parlamento e importanti presenze nei governi, a finire con il primo governo Mussolini. Tutto ciò avvenne tra il 1919 e il 1925, cioè in un regime di assoluto separatismo tra lo Stato e la Chiesa.
Pongo ora una domanda a chi sostiene che i vescovi sono cittadini come tutti gli altri e votano infatti alle elezioni: il vescovo Ruini, il vescovo Fisichella e tanti altri come loro possono partecipare alle elezioni politiche e andare in Parlamento? Possono entrare a far parte del governo e reggere un dicastero?
Ho consultato la vigente legge sull´incompatibilità ma non c´è una sola parola che riguardi questo problema.
Dunque la riposta, in puro punto di diritto, è sì, Ruini e ciascuno dei suoi colleghi, se volessero, potrebbero concorrere alle elezioni, essere eletti, partecipare al governo.
Ma tutti sappiamo, a cominciare da loro stessi, che un fatto del genere ripugnerebbe alla coscienza nazionale e quindi non lo fanno. Non lo fanno ma potrebbero. C´è dunque un impedimento morale più forte del diritto di cittadinanza. Qual è questo impedimento?
* * *
La Chiesa è portatrice di valori assoluti e di assolute verità che le vengono dal suo corpo dottrinale dalla sua tradizione, dal suo pensiero teologico. La sua struttura è gerarchica e culmina in un vertice che ha poteri assoluti ancorati addirittura al dogma dell´infallibilità.
Ne segue che esiste una lampante incompatibilità sistemica tra un regime democratico e una religione ancorata a valori assoluti e dogmaticamente istituzionalizzati.
I vescovi, ancorché cittadini italiani, sono vincolati all´obbedienza alla loro gerarchia, nominati da un´apposita congregazione col beneplacito del papa, vincolati a dogmi emanati dalle encicliche e dai Sinodi. Perciò sono eterodiretti rispetto alle istituzioni italiane.
In più, operando in regime concordatario, fruiscono di benefici tutt´altro che marginali. In queste condizioni affermare che i vescovi e il clero in generale siano cittadini a pieno titolo è falso. Non lo sono. Possono votare ma non possono farsi eleggere e partecipare a governi se non riducendosi allo stato laicale. E tuttavia questa norma di tutta evidenza non figura nella vigente legge sulle incompatibilità.
Questo ragionamento tende a dimostrare non solo che l´esercizio passivo del diritto elettorale è precluso ai titolari delle diocesi ma, soprattutto, a chiarire che esiste altresì un limite alle loro esternazioni.
Un vescovo concordatario non può esternare come un qualsiasi altro cittadino poiché nel Concordato l´articolo 1 dichiara che lo Stato e la Chiesa sono indipendenti e sovrani nelle rispettive competenze civili e religiose. C´è anche una casistica di queste competenze per quanto riguarda la Chiesa: dottrina della fede, etica, catechesi, carità, solidarismo. Non figura la parola politica. E quindi la politica non rientra nelle competenze della Chiesa.
Ma si dice ed è vero, l´etica ha a che fare con la politica. La bioetica anche. Perciò la Chiesa può dire che il divorzio è un male, che la fecondazione assistita è un male, che l´aborto è un assassinio di massa, che i Pacs sono un male e spiegarne il perché dal proprio punto di vista. Altri, di diverso avviso, forniranno ragioni contrapposte. Questa è la democrazia. Ma qui si ferma il diritto della Chiesa ad esternare.
Se i suoi vescovi entrano nel cuore della politica (il che gli è precluso) prescrivendo l´astensione dal voto in un referendum, indicando i modi dell´articolato delle leggi, dichiarando l´incostituzionalità di altre, censurando atti di giurisdizione come le intercettazioni telefoniche disposte dalle Procure della Repubblica, facendo affiggere nelle chiese cartelloni e spot per quanto riguarda la partecipazione o l´astensione dai referendum e lasciandoli affissi anche nel giorno delle votazioni; in questi casi i titolari delle diocesi si mettono fuori dal Concordato. Tanto varrebbe allora vederli seduti sui banchi della Camera e del Senato a discutere direttamente e a votare con i loro colleghi della politica.
Dov´è in tutto questo la religione? Dov´è la carità?
Dov´è la pietà. Chi decide se un bisogno ampiamente avvertito sia soltanto un desiderio o abbia creato un diritto? Lo decide monsignor Fisichella?
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Purtroppo sì, lo decide anche monsignor Fisichella poiché molti politici ritengono, a torto o a ragione, che monsignor Fisichella orienti e controlli una notevole quantità di elettori e quindi lo corteggiano a gara, da destra e da sinistra. E monsignor Fisichella detta le sue condizioni che spesso ottiene.
Monsignor Fisichella non fa nulla di illecito (salvo violare i principi del Concordato) ma si comporta come un lobbista. Si comporta come Billè che cerca di far pesare i voti dei commercianti sulle decisioni del governo; o come Montezemolo, o come Pezzotta ed Epifani. Si comporta come il capo di un forte gruppo di pressione, con la differenza che la Chiesa è cento volte più forte di Billè, di Montezemolo e di Epifani perché svolge il suo lavoro di lobby in nome del sentimento religioso invadendo a briglie sciolte la sfera politica e arruolando in questa galoppata anche le truppe cammellate degli "atei devoti" che usano la religione per rafforzare una loro visione dello Stato forte, decisionista, autoritario. "Dio è con noi" è la tentazione moderna del totalitarismo e al tempo stesso della teocrazia.
Chi dovrebbe reagire in primissima linea a questa sciagurata tentazione dovrebbe essere il laicato cattolico che invece è incomprensibilmente silente. Per questa ragione sostengo che siamo in presenza di una questione cattolica: salvo rare e oscillanti eccezioni il laicato cattolico sta assistendo alla sistematica distruzione delle sue autonomie dentro e fuori dal perimetro religioso. Le Comunità cattoliche, l´Azione cattolica, le Acli, le associazioni universitarie e studentesche sembrano colpite da un sonno ipnotico. I grandi ordini religiosi regolari tacciono, eppure avrebbero di che discutere e obiettare.
Abbiamo purtroppo realizzato parecchi primati negativi nel mondo in questi ultimi anni. Aggiungeteci anche questo: siamo il solo paese dell´Occidente cristiano nel quale è nata e cresce di giorno in giorno la questione cattolica.
Francamente non c´è da esserne orgogliosi per il paese dove nacque cinque secoli fa la libera scienza e l´autonomia della coscienza individuale. "De servo arbitrio" fu il motto di Lutero, ma ha passato le Alpi.
Oggi ha dimora Oltretevere, manipolato dai porporati della Cei. Sua Santità è d´accordo con il suo Vicario?
da la Repubblica di sabato 01 ottobre 2005