giovedì 4 gennaio 2007

I diversi e la carità cristiana

di Eugenio Scalfari
Le convivenze, anche quelle omosessuali, generano diritti. Dobbiamo ignorarli? I cristiani che negano quel riconoscimento rinnegano la carità in uno dei punti nevralgici in cui dovrebbe manifestarsi
Il mio articolo 'Chi non ama i diversi non è cristiano', pubblicato su 'Repubblica' il 10 scorso ha indotto molti lettori a scrivermi. Alcuni consentendo con le mie tesi, ma i più dissentendo, specie con la titolazione di quel mio scritto che a loro è sembrata troppo assertiva e quindi forzata rispetto al testo. A me non pare che fosse forzata, l'intero testo non è che lo svolgimento di quel titolo dal quale dunque non può essere separato. Naturalmente si può dissentire da esso. Si può cioè sostenere che un cristiano e la sua fede, anche quando è intensamente sentita e praticata, non comporta necessariamente l'amore per i diversi. Non odiarli, certo; fare di tutto per recuperarli e redimerli dalla loro peccaminosa diversità. Ma amarli è un'altra cosa ed è un sentimento ineffabile che non nasce per un atto di volontà né interno alla persona né, tanto meno, esterno e fosse pure proveniente da un comandamento di Dio.

Alcune di quelle lettere si concentrano sull'amore del prossimo. Il prossimo - così mi scrivono questi lettori - non si compone di diversi ma, appunto, di 'prossimi', cioè di nostri simili. Possono essere più deboli, ammalati, infinitamente poveri e derelitti, ma comunque simili. Quella somiglianza è radice comune e suscita, deve suscitare, la nostra com-passione, superare e vincere il nostro egoismo. Ma la questione è diversa per i diversi. I quali sono tali non per errori o ingiustizie della società alle quali va posto riparo, ma per loro libera scelta. Hanno scelto di essere diversi. E l'hanno scelto in un aspetto delicatissimo, quello dell'amore sessuale. Amore contro natura. Amore contro la specie alla quale appartengono ma che mettono a rischio precludendosi volontariamente di alimentarla con la procreazione. Amarli non può dunque avere altro significato che convincerli a ritornare entro la norma non tanto della legge ma della natura.


Questo - mi scrivono - è ciò che si può e si deve chiedere al buon cristiano e a questo compito di 'redenzione' il buon cristiano non può sottrarsi. Ma sostenere che chi non ama i diversi in quanto tali si pone in contrasto con la propria religione e ne tradisce la sostanza, questo no, questo è inaccettabile specie se a chiederlo non sono i pastori di quella comunità ma persone che si dichiarano orgogliosamente al di fuori di quella religione e perciò non hanno titolo alcuno per intervenire su questione di tale complessità.

Ho dato spazio agli argomenti dei lettori dissenzienti perché mi sembrano di notevole interesse e spessore culturale e vanno al fondo della questione. Per di più ho notato con piacere che restringono il campo del dissenso: nessuno di essi ha trovato da dire sulle coppie di fatto eterosessuali, quale che sia la loro etnia e religione. Il problema - almeno per i nostri lettori - si pone soltanto per l'aspetto dell'omosessualità e la ragione evocata è nel fatto che ci si trovi in presenza di un comportamento 'contro natura', in gran parte volontario. Come tale dev'essere indotto a rientrare nei canoni naturali e non dev'essere istituzionalizzato da una legge.

Ecco allora le mie risposte cominciando dall'aspetto religioso della questione che interessa anche - ovviamente - le persone non credenti.

Le religioni, soprattutto quelle monoteistiche, affratellate dalla discendenza da Abramo, vedono nella famiglia la cellula principale della società. Ed è così, è un dato di fatto dal quale non si può prescindere. "Onora il padre e la madre" prescrive il decalogo mosaico. Secondo il Pentateuco la discendenza adamitica deriva da Caino, anche questo è un dato di fatto. Non costitutivo però del peccato originale che deriva esclusivamente dalla disobbedienza ai voleri di Dio.

Le religioni non qualificano la famiglia se non in un punto: il padre e la madre naturali. Tutto il resto è aperto alla evoluzione della società: monogamia, poligamia, famiglia allargata, patriarcato, matriarcato e ogni altra forma storicamente assunta. I figli di Abramo sono di Sara e di Rebecca, tanto per dire. Gesù di Nazareth in quanto persona umana non ha Giuseppe come padre, ma i suoi fratelli sì. Così dice la dottrina anche se i Vangeli sono assai reticenti su questo punto.

Quanto a Gesù, la sua predicazione mette la famiglia in posizione subordinata rispetto all'apostolato. Invita i suoi discepoli ad abbandonarla per seguire lui e la sua missione salvifica. Nei primi secoli il concetto di famiglia si sposta da quella naturale a quella della comunità, dell''ecclesia', della fratellanza in Cristo. La famiglia fondata sul sangue cede di fronte a quella scelta come 'vocazione' e 'chiamata'. Si allarga fino a comprendere l'intero prossimo.

L'amore e anzi l'identificazione con il prossimo derivano anch'essi dal comandamento mosaico e sono i cardini della predicazione neo-testamentaria. Nel decalogo è scritto 'Onora il padre e la madre', ma è anche scritto 'Ama il prossimo tuo come te stesso'. L'identificazione dunque non è con i genitori ma con il prossimo. La novità cristiana sta esattamente in questo punto: l'amore verso il prossimo si materializza nell'agape, nella 'caritas'. La predicazione arriva addirittura ad affermare che la pratica dell'amore del prossimo viene prima della fede in Dio. Mi domando quanti siano i fedeli che sentono e praticano questa indicazione. Secondo me sono assai pochi tenendo presente che il concetto cristiano di carità ha poco a che fare con la compassione verso i deboli e i poveri e con la pratica delle elemosine. Qui si parla di identificazione. Capisco che un sentimento così alto e difficile qualifica la santità e non è da tutti. Ma il modello è quello. Ne indico storicamente due anche se sono molti di più: Francesco d'Assisi, Blaise Pascal.

I diversi fanno parte del prossimo con cui identificarsi? La domanda come alcuni lettori me l'hanno posta è sottile e importante. Secondo me la risposta è connessa all'evoluzione storica della società. I cristiani dei primi secoli prendevano atto del fatto che gli schiavi erano diversi. Secondo la legge e la consuetudine gli schiavi erano 'non persone' e anche se ben voluti e ben trattati restavano 'non persone'. La novità del messaggio cristiano fu quella di riscattarli al rango di persone anche se il loro stato giuridico rimase per lungo tempo quello di schiavi. La nuova religione non predicò affatto che fossero liberati, non predicò l'abolizione della schiavitù. La sua rivoluzione fu quella di proclamare che al cospetto di Dio erano persone.

La schiavitù permase fino alla Rivoluzione francese. Ci furono schiavi perfino nelle corti papali del Rinascimento. Dei servi della gleba non parliamo neppure. Erano diversi? Sì, erano diversi e considerati diversi. Per i veri cristiani rientravano nel concetto di prossimo? Sì, rientravano in quel concetto di affratellamento e spesso i loro figli venivano 'liberati'. I figli.

Viviamo in tempi diversi. Ditemi voi se dobbiamo ancora considerare e trattare giuridicamente in modo diverso gli omosessuali e le convivenze da essi liberamente costituite. Quelle convivenze generano diritti. Dobbiamo ignorarli? Dobbiamo negare ad essi riconoscimento giuridico almeno tutte le volte in cui quei diritti intrecciano i diritti dei terzi ed hanno pertanto bisogno d'una normativa 'erga omnes'? Lascio ai lettori la risposta, ma secondo me il cristiano che nega quel riconoscimento non è un cristiano perché rinnega la carità in uno dei punti nevralgici in cui dovrebbe manifestarsi.

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martedì 2 gennaio 2007

So che Cristo mi dice di lottare per i gay

Per me essere gay cristiano significa costantemente ricordare che la croce è stata strumentalizzata per offendere, discriminare, uccidere milioni di persone, tra cui tante e tanti gay, lesbiche, trans
di Aurelio Mancuso*


Ascolto la messa da casa, prego in solitudine nelle chiese vuote, in un volontario ed orgoglioso militante eremitaggio.

A volte vedo l'abbazia. Ha mura possenti e nude e sovrasta la pianura ai suoi piedi. Se non fosse per la presenza inopportuna di un attiguo ristorante, tutto potrebbe far pensare di ritrovarsi nell'era di mezzo. Ogni volta che ho bisogno di perdonare - e lo faccio con sempre più fatica - l'orrore delle parole pronunciate dalla gerarchia cattolica, penso a questa abbazia, traggo la forza di guardare lucidamente la corte papalina, i troni ingioiellati, i camauri rispolverati per riaffermare domini e interdizioni, che tanti speravano sprofondati nella vergogna dei secoli macchiati del sangue dell'Uomo.

Nella pianura dove sorge l'abbazia, la luce non trova ostacoli, la presenza di Dio non deve fare i conti con le oscure stanze vaticane. Qui Dio è lontano dagli anatemi di Congregazioni incrostate di gemme, rivestite di abbaglianti lamine dorate, pronte a negare il senso profondo della comunione. Sempre più spesso i loro volti mi appaioni quelli di «mummie» incapaci di amare le gioie del corpo, la bontà della sessualità, la fecondità di ogni amore.

Anche i richiami delle tante sorelle e fratelli nella fede, che mi tirano per la giacchetta e mi ricordano che la chiesa è altro, che è possibile trovare spazi di agibilità, mi sembrano insufficienti. Il vanaglorioso ritorno alle tradizioni e ai richiami dottrinali mi coglie indifferente, perché è più forte il dovere di seguire la mia coscienza, di testimoniare là dove è possibile la condivisione, non rinunciando mai alla chiarezza e alla distinzione senza cui si diventa complici. Questa chiesa non è la mia ecclesia, mentre mi sento appieno appartenente al popolo di Dio errante, che ricerca nel mondo.

Da «katholicos» provo pietà nei confronti della difesa ossessiva di privilegi e prerogative temporali scandalosamente blasfemi. Il piccolissimo spiraglio rappresentato dal Concilio Vaticano II è stato ermeticamente otturato dai sogni cesaropapisti di Ratzinger, dalla chiusura del dialogo possibile. Siamo in tante e in tanti a godere della libertà del pensiero, dell'ascolto dell'umanità, della difesa gelosa di una fede che non può essere proclamata come un manifesto politico.

La fede è silenzio, vento caldo e lieve del pneumos, annunciata con umiltà e sobrietà. Per me essere gay cristiano significa costantemente ricordare che la croce è stata strumentalizzata per offendere, discriminare, uccidere milioni di persone, tra cui tante e tanti gay, lesbiche, trans.

Oggi essere di loro, combattere con loro, mi dona il privilegio di rispondere appieno alla chiamata del Cristo che risorge, per gli uomini e le donne di buona volontà.

Quando manifesto in piazza con i miei fratelli e le mie sorelle è come se mi trovassi nella grande pianura dove la luce di Dio non trova ostacoli. E le nostri voci che si levano in alto ci proteggono come le spesse mura dell'abbazia.


*segretario nazionale Arcigay
http://www.gaynews.it/view.php?ID=71731

lunedì 1 gennaio 2007

Etologia: gay promossi dall'evoluzione

Paul Vasey: l'omosessualita' e' fondamentale tra molte specie per i rapporti sociali.
«Diverse specie animali presentano comportamenti omosessuali. Percio', se per ''naturale'' intendiamo ''quello che gli animali fanno nel loro ambiente'', allora l'asserzione che l'omosessualita' sia un comportamento contro natura e' sbagliata».



Arashiyama e' la San Francisco dei macachi. Si trova in Giappone, vicino a Kyoto, e nelle montagne di questa regione il 92,5% delle femmine ha comportamenti omosessuali. A studiare il fenomeno, per nulla raro, e' un ricercatore canadese, Paul Vasey, dell'Universita' di Lethbridge, che da anni studia la sessualita' di questa specie e dell'uomo. Vasey, ha senso parlare di omosessualita' come di un comportamento «contro natura»?

«Diverse specie animali presentano comportamenti omosessuali.

Percio', se per ''naturale'' intendiamo ''quello che gli animali fanno nel loro ambiente'', allora

l'asserzione che l'omosessualita' sia un comportamento contro natura e' sbagliata».

Il comportamento omosessuale sembrerebbe contraddire l'imperativo biologico della riproduzione. Al contrario lei ha intitolato il suo ultimo libro «Homosexual behaviour in animals: an evolutionary perspective» («Il comportamento omosessuale negli animali: una prospettiva evolutiva»). Quale spiegazione evolutiva da'? «Una spiegazione e' quella funzionale, che cerca di stabilire il valore adattativo di una determinata caratteristica, stabilendo come questa possa essere d'aiuto nella sopravvivenza e nella riproduzione. In quest'ottica una spiegazione evolutiva dell'omosessualita', valida nei bonobi, e' che il comportamento di monta omosessuale faciliti le relazioni sociali in un gruppo. Serve per le riconciliazioni, le alleanze, le dimostrazioni di dominanza e per attenuare le tensioni e condividere il cibo. In questo senso i comportamenti omosessuali sono adattativi». Lei propone anche un'altra chiave di lettura, ossia che gli animali lo facciano per «perseguire un piacere». In che senso? «Le femmine del macaco giapponese intraprendono comportamenti omosessuali non per fini sociali, ma perche' ottengono una gratificazione sessuale immediata. Ma non parlo mai di ''solo'' divertimento. Quello che sostengo e' che lo stesso comportamento abbia diverse spiegazioni: ci sono spiegazioni piu' immediate e piu' remote. Il ''piacere'' e' una spiegazione prossima, che non elimina altre ipotesi. Il comportamento omosessuale, come gli altri tratti degli animali, non e' mai spiegato solo dalla gratificazione sessuale, o solo dalla genetica, o dai livelli ormonali, o dalla fisiologia interna, o dall'ambiente sociale, o dall'evoluzione. Tutti questi aspetti forniscono spiegazioni che ci aiutano a spiegare perche' un comportamento esiste». Sembrano sempre piu' probabili le teorie secondo cui l'omosessualita' abbia una base in parte genetica. Ma com'e' possibile che un gene che ostacola la propria trasmissione non si sia estinto? «L'obiezione e' valida se assumessimo che l'individuo si comporti in maniera omosessuale per tutta la vita.

Ma nella maggioranza dei casi in natura assistiamo a comportamenti bisessuali. Gli unici casi di omosessualita' ''totale'' e di lunga durata sono stati osservati nell'uomo e della pecora. Fatta eccezione di queste due specie, il comportamento omosessuale non interferisce con l'aspetto riproduttivo e i geni che controllano questo comportamento sono tramandati come gli altri». E per le specie che presentano comportamenti «strettamente» omosessuali come spiega la diffusione di questi geni? «Sulla pecora non ci sono studi. Per l'uomo si'. Una delle piu' interessanti l'ha avanzata un italiano, Andrea Camperio Ciani, dell'Universita' di Padova, che ha scoperto che le donne imparentate per linea materna a individui gay hanno, in media, un terzo di figli in piu' rispetto alle altre. E' stato percio' suggerito che gli stessi geni inducono i due aspetti: se sono i maschi a portare questi geni, da adulti presenteranno comportamenti omosessuali e altrimenti, se ad averli sono le donne, queste esibiranno un successo riproduttivo maggiore. Per questo, anche se la maggior parte degli omosessuali non si riproduce, il gene dell'omosessualita' nell'uomo potrebbe sopravvivere in quanto sono gli stessi geni che promuovono l'incremento del successo riproduttivo nei parenti donne». I fautori della «naturalita'» dell'omosessualita' sostengono che, se questo comportamento esiste negli animali, allora e' ''moralmente accettabile''. Ma in natura sono presenti anche l'infanticidio o lo stupro. Perche' l'omosessualita' dovrebbe essere accettata? «Quando le persone affermano che qualcosa e' ''giusto'' perche' e' presente in natura compiono un ''errore argomentativo naturalistico''. In natura esistono molti comportamenti ''cattivi'' e percio' e' sbagliato cercare lezioni di morale. Detto questo, voglio vivere in una societa' che rispetti gli omosessuali e che valorizzi ogni inclinazione sessuale: un mondo che integri questi individui sara' un luogo infinitamente piu' ricco e gratificante».


31/12/2006 - La Stampa - Monica Mazzotto
http://www.arcigaymilano.org/dosart.asp?ID=27895

Uno straccio di laicità

Sex crimes and the Vatican

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