sabato 22 gennaio 2005

Le scoperte scientifiche del secolo d'Italia sull'omosessualità

Se un giovane vede una rappresentazione dell'omosessualità felice allora diventa gay
di Valerio Fioravanti

Un mese fa il MOIGE, Movimento Italiano Genitori contestava la presenza in tv “di trasmissioni in cui i gay sono mostrati felici e perfettamente integrati. Queste trasmissioni sono estremamente dannose per i bambini e gli adolescenti”. Eravamo rimasti indietro. Nell’ultimo secolo ci siamo divisi tra chi riteneva che l’omosessualità derivasse da una sorta di “disequilibrio ormonale”, e chi invece, più a sinistra, citava le madri oppressive e castranti di Freud, o i padri ipermaschilisti, o la società consumista e aggressiva che induceva le persone sensibili a cercare “modi diversi di relazionarsi con l’altro”.

Due giorni fa il Secolo d’Italia titolava in prima: “Buzzanca è bravo, ma attenti al rischio-fiction”. Il riferimento era allo sceneggiato “Mio figlio”, in cui Lando Buzzanca interpretava un commissario di polizia che scopre l’omosessualità del figlio. Argomentava il Secolo: “È noto che è da tempo in atto un’articolata strategia volta a promuovere la “normalizzazione dell’anormalità”… questo rischia di incoraggiare a scegliere comportamenti devianti chi, in delicati momenti di formazione della personalità, come la pubertà, può essere combattuto fra diverse pulsioni e tentazioni”.

Insomma, se un ragazzo “normale” vede in tv degli omosessuali felici, secondo Moige e Secolo, può decidere di darsi all’omosessualità così, per spirito di emulazione. E, perché no, se un ragazzo che ha qualche tendenza omosessuale vede invece in TV dei gay tristi, magari ricomincia a uscire con le ragazze. Queste sì che sono scoperte scientifiche.

da L'Opinione on line

http://www.gaynews.it/view.php?ID=30704

Chi odia la bandiera?

«La sinistra, la storia lo insegna, è sempre contro qualcuno: contro i padri, contro la nazione, contro la bandiera». Sembra incredibile, ma sono parole di Silvio Berlusconi. Due anni fa il suo alleato Umberto Bossi ha suggerito pubblicamente di usare la bandiera italiana come carta igienica. La bandiera che i partigiani hanno sventolato sull'Italia liberata

Agi, 21 gennaio

venerdì 21 gennaio 2005

Gay: Toscana, il Consiglio dei Ministri impugna la legge regionale

Per il Governo "il concetto di orientamento sessuale nell'ordinamento giuridico vigente non assume specifica rilevanza"

(ANSA) - ROMA, 21 GEN - Il governo ha deciso di impugnare, su proposta del ministro degli Affari Regionali, Enrico La Loggia, la legge regionale n. 63 del 15 novembre 2004 della Regione Toscana in materia di ''Norme contro le discriminazioni determinate dall'orientamento sessuale o dall'identita' di genere''.

Due le motivazioni principali, secondo quanto si e' appreso, illustrate nel documento tecnico portato stamane dal ministro La Loggia all'esame del Consiglio dei ministri: la legge della Regione Toscana interviene su diritti e situazioni giuridiche la cui tutela deve realizzarsi da parte dello Stato; il concetto di ''orientamento sessuale'' non assume una specifica rilevanza nell'ordinamento giuridico corrente.

Nel documento si rileva che la legge n. 63 della Regione Toscana ''seppur in materia di legislazione concorrente, collega ad un certo tipo di diversita' sessuale diritti e situazioni giuridiche che costituiscono diritti fondamentali per la persona la cui tutela deve realizzarsi dallo Stato in maniera uniforme sul territorio nazionale ai sensi degli artt. 2, 3 e 5 della Costituzione''.

Un'altra motivazione alla base dell'impugnazione spiega che ''nonostante l'ordinamento statale e comunitario abbiano riconosciuto il diritto all'identita' sessuale, la legge regionale in questione introduce anche il concetto di orientamento sessuale che - sottolinea il documento - nell'ordinamento giuridico vigente non assume specifica rilevanza. Infatti, l'ordinamento statale non esprime alcun giudizio di valore nell'ovvio rispetto dei principi di liberta' e autonomia individuale''. (ANSA).

http://www.gaynews.it/view.php?ID=30698

Dove andremo a finire?

di Alessandro Golinelli


Dove si andrà a finire?

Un signore che scrive in prima pagina sul “Corriere della Sera”, tale Ernesto Galli della Loggia, sostiene, a proposito della recente bocciatura delle leggi antidiscriminatorie in Francia, che quella sia stata una decisione giusta. Il tutto in base a due semplici ragionamenti (sic).

Il primo: se si fa una legge contro la discriminazione di una minoranza allora bisogna farne per tutte. In altre parole, si comincia a fare una legge in cui si impedisce di offendere o discriminare le persone per i loro orientamenti sessuali, e chissà dove si va a finire. Magari che non si può nemmeno più dire “negro di merda”, oppure “ebreo da gasare”, o addirittura “giornalista del cazzo” o “vecchio trombone”…

Il secondo ragionamento è più sottile: si impedisce la libertà di espressione, che è uno dei principi cardine del liberismo. In poche parole, questo signore sostiene che apostrofare qualcuno con la parola “frocio”, “culattone”, “ricchione”, o magari licenziarlo perché infastidisce il suo aspetto effeminato, non sia maleducazione o razzismo, bensì puro liberismo.

Come non essere d’accordo. Ma ci pensate che la ministro per le pari opportunità Stefania Prestigiacomo ha assunto Dario Mattiello, precedentemente licenziato dal collega di governo Fisichella perché omosessuale? E tentando di rimediare alla gaffe, ha, come sostiene il ministro della giustizia (sic) Castelli, clamorosamente discriminato gli eterosessuali? Ha sempre ragione il signor Ernesto Galli della Loggia. Vedete cosa succede a spingersi troppo in là. Si è cominciato col concedere il diritto di voto alle donne, poi le si è fatte diventare deputate, ora addirittura ministri e guarda cosa ti combinano. Minano e discriminano lo strapotere dei maschi etero. Dove si andrà a finire? Magari che pretendano anche di diventare presidenti del consiglio.

Non preoccupatevi, in Italia, a differenza del Pakistan mussulmano o dell’India, o delle Filippine, è inimmaginabile un primo ministro donna. Ci teniamo a fare bella figura.

Eppure come non avvertire il campanello d’allarme? Tutta l’Europa si sta coalizzando contro la libertà, discriminando Rocco Buttiglione solo perché considera omosessuali e donne un gradino inferiori a lui, che invece è maschio, etero e credente. Goebbels si è rigirato nella tomba: avete visto dove si è arrivati non lasciando il potere esclusivamente agli ariani.

Bene hanno fatto gli americani che per difendere la libertà della più grande democrazia del pianeta, la migliore, l’assoluto paradiso da esportare, oltre a rieleggere quel simpaticone di Bush, uomo raffinato e intelligente, hanno deciso di opporsi, in molti stati, alle unioni fra gay. La libertà di unirsi per i gay minava infatti la loro libertà di sentirsi i migliori del mondo, i più puri, gli eletti da Dio.

C’è anche chi propone di cambiare la costituzione degli Stati Uniti: non ci sarà più il diritto di ogni uomo ad aspirare alla felicità, ma sarà ben specificato di ogni uomo etero (bianco, ricco, americano, credente, possibilmente petroliere o imparentato con petrolieri). Come dar loro torto, in fondo, uno leggendo quelle parole così mal scritte potrebbe anche sbagliarsi...

Ma tornando in patria ci sono addirittura intere aree dell’Italia che rischiano di portare il paese allo sfacelo. Come la Toscana, dove le unioni civili fra gay hanno avuto il beneplacito della Consulta. Ve lo immaginate cosa diventerà la Toscana in pochi anni? Magari una regione dove un gay potrà andare a visitare il proprio compagno in ospedale o in carcere senza il permesso dei familiari. Potrà comprare casa con lui senza sotterfugi, avere, in caso di separazione o di morte, dei diritti, e non sentirsi discriminato nella vita quotidiana.

Ma dove andremo a finire? Be’: ovviamente, almeno noi gay, in Toscana...
Buon Anno.

(fonte: Priode gennaio 2005)

http://www.gaynews.it/view.php?ID=30690

Risiera di San Sabba: una lapide per i gay vittime del nazismo

Sarà scoperta in occasione della Giornata della Memoria

Risiera di San Sabba: una lapide per i gay vittime del nazismo Voto all'unanimità, sì del vicesindaco di Trieste (An)

MILANO - Quando gli omosessuali arrivavano nei lager, le guardie naziste cucivano sulla casacca un triangolo rosa, il marchio della "perversione". Quel triangolo, a lungo rimosso dalla storiografia ufficiale - come altri che contrassegnavano zingari, prigionieri politici e Testimoni di Geova - campeggia ora su una pietra rosa in rilievo, incastonata sopra una targa di marmo nero: la lapide sarà esposta in occasione della "Giornata della memoria" alla Risiera di San Sabba di Trieste, l'unico campo di sterminio nazista italiano. Sotto il triangolo, comparirà una scritta: "Contro tutte le discriminazioni, il circolo Arcobaleno Arcigay di Trieste ricorda le vittime omosessuali del nazifascismo". Un evento unico, realizzato con il parere favorevole (all'unanimità) della commissione che gestisce il museo della Risiera, presieduta dal vicesindaco di Trieste, l'esponente di An Paris Lippi. LA TARGA - "Quando nel 2003, per la prima volta, fu ricordato lo sterminio degli omosessuali - racconta Marco Reglia, presidente del Circolo Arcobaleno - il sindaco Roberto Di Piazza parlò anche dei gay e nel centrodestra scoppiò un putiferio di polemiche". Due anni sembrano pochi, eppure a distanza di così poco tempo, tutto sembra essere cambiato. Il sindaco è ancora Di Piazza (Forza Italia), ma non c'è più Roberto Menia, l'assessore di An, che dal palco disse: "Siamo arrivati al punto che per essere politicamente corretti bisogna essere culi per forza". Al posto di Menia c'è un nuovo assessore alla Cultura, il vicesindaco Lippi (anche lui di An). E così quando l'Arcigay ha chiesto alla commissione che gestisce la Risiera il permesso di scoprire una lapide, il sì è stato unanime. Per alcuni Lippi avrebbe subìto la vicenda. Lui la spiega così: "Di fronte a una richiesta del genere cosa avremmo dovuto fare? Non c'erano ragioni per dire di no. Del resto ce ne sono anche altre di targhe. E se ce lo chiedessero gli zingari o i Testimoni di Geova, diremmo ugualmente di sì". "Una bella svolta" - dice Reglia - anche perché la Risiera è visitata da molte scolaresche e in questo modo argomenti del genere forse riusciranno a entrare anche nell'educazione scolastica". La targa - 100 centimetri per 70, costata 1.300 euro - sarà scoperta il 26 gennaio al termine di una fiaccolata, mentre il 27, giorno della Memoria, una delegazione Arcigay deporrà un triangolo di fiori rosa e, insieme a un coro partigiano sloveno, intonerà "Auschwitz", la canzone scritta da Guccini nel 1968. Nel museo sarà inaugurata una mostra con pannelli fotografici e testi che raccontano la tragedia degli omosessuali. LO STERMINIO - Un libro pubblicato nel 2002 dal circolo Pink di Verona si intitolava "Le ragioni di un silenzio". E che di silenzio si sia trattato non c'è dubbio. In Germania il famigerato paragrafo 175, che puniva l'omosessualità, è rimasto in vigore fino al 1969, costringendo a tacere i pochi sopravvissuti. La Germania nazista mandava nei lager gli omosessuali, l'Italia li spediva al confino. All'epoca del codice Rocco (1930), Mussolini non volle introdurre un reato specifico, perché convinto che "per fortuna e orgoglio dell'Italia il vizio abominevole qui non esiste". Gli omosessuali italiani - come racconta il film "Una giornata particolare", con Mastroianni - finivano al confino, molti nelle isole Tremiti. Incerti i numeri. Si parla di 100 mila omosessuali coinvolti nello sterminio nazista. I gay nei lager subivano torture e violenze sessuali. In alcuni casi venivano evirati. Un fenomeno di cui si parla ancora poco: "Questa targa - spiega Sergio Lo Giudice, presidente di Arcigay - è importante anche perché finalmente nelle commemorazioni trovano legittimazione anche i triangoli rosa. E' il segno che in Italia qualcosa sta cambiando: negli ultimi mesi - prima con la levata di scudi contro Buttiglione, poi con l'elezione di Vendola - i segnali di un atteggiamento diverso verso i gay si sono moltiplicati".
Alessandro Trocino Interni.

(Corriere della Sera del 20/01/2005)

http://www.gaynews.it/view.php?ID=30678

giovedì 20 gennaio 2005

Trovato il nuovo nome per il centrosinistra: "Unione per la democrazia"

Il centrosinistra ragiona sul rapporto degli esperti di marketing
L'obiettivo è evocare "alto contenuto etico"
Ma il simbolo non c'è. E l'Ulivo vivrà nella Fed
di MASSIMO GIANNINI


ROMA - Di giorno litigano sugli aggettivi. Riformista, cattolico, socialdemocratico. Di notte ragionano sui nomi. Ulivone, Alleanza, Federazione. Ma ora, nonostante i conflitti quotidiani sulle primarie e sul programma, i leader del centrosinistra hanno trovato un accordo di massima su come si dovrà chiamare la coalizione che sfiderà Berlusconi nel 2006. "Unione per la democrazia.

Questo, salvo sorprese, dovrebbe essere alla fine il nome di quella "Cosa" che va dall'Udeur a Rifondazione e che finora, con un acronimo semanticamente insensato e politicamente impronunciabile, era stata ribattezzata "Gad". Non solo. L'Ulivo continuerà a vivere. Questo, salvo sorprese, dovrebbe diventare alla fine il nome di quell'altra "Cosa" che va dai Ds alla Margherita, dallo Sdi ai Repubblicani europei, e che finora, con un altro acronimo semanticamente sensato ma politicamente inafferrabile, era stata ribattezzata "Fed".

Romano Prodi, Piero Fassino, Francesco Rutelli, Massimo D'Alema, personalmente e attraverso i rispettivi "sherpa", stanno conducendo da venerdì scorso una trattativa riservata sul nome. E hanno praticamente concluso la fase "istruttoria", che non riflette i gusti e gli orientamenti personali dei leader, ma ha invece una pretesa quasi scientifica.

Sul tavolo dei dirigenti ulivisti, infatti, è appena arrivato il rapporto-sondaggio che lo staff prodiano aveva commissionato un mese fa alla Gpf&Associati, lo studio di esperti di marketing politico guidato da Giampaolo Fabris. Il documento si intitola appunto "La denominazione di un nuovo soggetto politico: il Centrosinistra". Sessantaquattro cartelle, ricche di analisi e di quadri sinottici, frutto di una rilevazione condotta attraverso "sei colloqui di gruppo a carattere esteso e proiettivo, con un campione corrispondente all'elettorato potenziale", nelle tre città principali di Milano, Roma e Napoli, e tra fasce di elettori di centrosinistra e indecisi.

L'indicazione finale sul nome della coalizione, "Unione per la democrazia", è stata tratta proprio dalle risposte fornite dal campione interrogato da Fabris. Il rapporto parte da una premessa politica generale, sul grado di consenso degli elettori, che i leader del centrosinistra hanno letto con un sussulto. "La cifra culturale dominante è di profonda disillusione: la certezza della vittoria rilevata in precedenza si sta tramutando in paura della sconfitta e produce disincanto, frustrazione ma anche aggressività".

Di buono, secondo il sondaggio, c'è che a questa "incrinatura emotiva" nei confronti dell'opposizione, non si rileva una ripresa di fiducia verso Berlusconi, anche se, rispetto all'estate, è in atto "una stasi nella perdita dei consensi". La discesa in campo di Prodi è percepita "molto positivamente". Ma solo a condizione che il centrosinistra sappia "emendarsi". "La litigiosità interna allo schieramento - si legge nel documento, che per altro non registra gli scontri ulteriori esplosi dopo la vittoria di Vendola in Puglia - ha infatti ormai assunto agli occhi dell'elettorato tratti iperbolici e genera un forte risentimento e rancore verso i presunti responsabili della conflittualità".

Nel corpo elettorale ulivista resta l'ideale di un'etica "alta e altra" rispetto a quella del centrodestra, e il riferimento a un "patrimonio valoriale di straordinaria pregnanza (giustizia, uguaglianza, tolleranza, pace, ambiente)". Ma tutto questo - secondo il sondaggio - finisce per svilirsi "nella confusione, autoreferenzialità, opacità, acrimonia spesso mostrata dalla coalizione". La logica e la strategia dello schieramento "appaiono oscure".

Il popolo del centrosinistra avverte il problema di un programma adeguato alle emergenze del Paese.
Ma anche e forse ancora di più il problema di un'identità condivisa dello schieramento. Quello che Fabris definisce "il requisito ontologico, il voler essere del centrosinistra". Anche per questo, probabilmente, l'elettore o il simpatizzante dell'opposizione sembra non comprendere il perché dell'abbandono della denominazione "Ulivo" considerata vincente: appare invece un errore e un'ulteriore manifestazione di scollamento delle aspettative dell'elettorato di centrosinistra e del comune buon senso".

Ecco perché, in questa fase di impasse, diventa importante per certi aspetti decisivo il nome della Cosa. È un "fattore-chiave per gli intervistati". Ma prima di dare indicazioni costruttive sul nome futuro, il rapporto compie una sana opera distruttiva sulle sigle esistenti. "I nomi attualmente in circolazione - si legge nel documento - soffrono di una complessiva debolezza rispetto alla forza evocativa e alla ricchezza semantica del nome 'Casa delle Libertà'". "Gad" suscita reazioni "fortemente negative" (qualche risposta-tipo del sondaggio: "non comunica niente", "è un nome duro, freddo").

"Alleanza" agita invece reazioni "ambivalenti" (ma al fondo evoca essenzialmente un accordo di tipo tattico, tra soggetti diversi e con scopi incerti). "Grande Alleanza Democratica" va meglio per i contenuti che riflette, ma risulta "poco coinvolgente" (è "generico e privo di impatto").

La conclusione propositiva degli esperti, a questo punto, è chiara. Gli elettori chiedono un nome "capace di esprimere l'identità del centrosinistra". Questo nome deve incardinarsi intorno a due concetti essenziali. Il primo è "Democrazia". È fortemente alternativo al concetto di "Libertà" evocato nel nome del centrodestra. E soprattutto declina a tutto tondo i valori del centrosinistra, "sia sul piano istituzionale (le regole e le procedure) che su quello fattuale (il benessere individuale e quello comune)".

Un insieme di valori, insomma, che "segnano il superamento della dicotomia individuo-collettività", e che evocano "un alto contenuto etico e morale di richiamo a valori universali". Il secondo è "Unione". Come "convergenza di principi e di intenti". Oltre tutto, estesa su un duplice livello: "alla coalizione, ma anche all'elettorato: il senso della collettività, il 'noi', l'idea comunitaria e di appartenenza".

Il messaggio prioritario che l'opposizione dovrebbe veicolare, attraverso il suo "marchio", è insomma il "bene comune". Perché - come conclude il rapporto di Fabris - "se il termine 'democrazià denota per gli intervistati l'identità istituzionale del centrosinistra, e quello di 'unionè ne rimarca la cifra espressiva, il concetto di bene comune rappresenta la chiave di accesso valoriale alla coalizione".

Con tutti questi elementi di riflessione e di valutazione sul tavolo, i leader si sono consultati, per ora ancora a livello riservato e informale. Hanno scartato diverse ipotesi intermedie. Lo stesso Fabris suggerisce nel suo studio, tra le altre, la formula "i democratici": facilmente associabile a slogan brevi ed efficaci (L'Italia dei democratici, I democratici per il futuro)". Ma la pre-esistenza già considerata talvolta culturalmente "egemonica" dei Ds (i Democratici di
Sinistra) rende questa ipotesi difficile da percorrere.

Allo stesso modo, il rilancio della "vecchia ditta", l'Ulivo, è preclusa dai veti di Mastella e Bertinotti. Per questo, in attesa di mettere l'accordo nero su bianco in un incontro che potrebbe svolgersi entro questa settimana, Prodi, Fassino, Rutelli, D'Alema e gli altri dirigenti della coalizione si sono orientati verso una sintesi semantica e simbolica: "Unione per la democrazia", appunto. O magari, con una piccola variante, "Unità per la democrazia".

Se questo sarà il nome, la discussione sul simbolo non è invece neanche iniziata. Una sola cosa è sicura. Da qualche parte l'Ulivo rimane. "Quel marchio è nostro - si sono detti Prodi e i vertici della Quercia - e nessuno ce lo può togliere. Se non lo possiamo utilizzare per tutta la coalizione, quello diventerà il nome della Federazione unitaria". Visto lo scontro in atto con la Margherita, più che riformismo questo sembra piuttosto esorcismo.

(20 gennaio 2005)

http://www.repubblica.it/2005/a/sezioni/politica/proditornatre/proditornatre/proditornatre.html

Grande clamore...

«Grande clamore per la vittoria alle primarie di Nichi Vendola, comunista e omosessuale. Nessuna delle due prerogative è contraria alla Costituzione italiana, almeno quella vigente. E aggiungerei subito che analogo sconcerto non ha accolto fior di candidature del centrodestra, che pure ha presentato agli elettori secessionisti dichiarati».

Michele Serra, la Repubblica, 19 gennaio

mercoledì 19 gennaio 2005

I gay regalano a Fassino una rosa ma con le spine

Una rosa, simbolo del socialismo europeo, con tanti petali quanti sono i colori dell’arcobaleno, è il nuovo simbolo degli omosex ds che da ieri si chiamano Gayleft, consulta glbt

di Delia Vaccarello

ROMA - Una rosa con petali e spine offerta a Piero Fassino nel corso di un assemblea cui hanno preso molti dirigenti della Quercia, segnalando la crescente attenzione alle istanze gay. Fassino è stato risoluto: «Sostenere il patto civile di solidarietà (Pacs) è una scelta di civiltà, svilupperemo pienamente la campagna di sostegno alla proposta di legge. Sosteniamo il diritto di tutela e di riconoscimento delle relazioni interpersonali etero e omosessuali, dandoci un obiettivo: far adottare il pacs entro questa legislatura. Se ciò non avverrà, sarà un punto qualificante del programma di governo della coalizione di centro-sinistra per le elezioni del 2006». Andrea Benedino, portavoce Gayleft, aveva chiesto ai Ds una energica battaglia, preannunciando in caso contrario le «spine»: «Se il Pacs non sarà nel programma della coalizione per il 2006 gli omosessuali Ds non saranno a fianco del loro partito». Altra novità: Gayleft è una consulta, «strumento di osmosi» per Fassino tra gli omosex dentro e fuori la quercia, che serve a radicarsi nella società. «Una fetta del paese già si riconosce nella nostra battaglia di libertà», ha confermato Grillini. Ma che succede dentro la Quercia? La forte relazione con il coordinamento donne è già in atto da due anni, terreno comune «il principio della laicità e la capacità di ascolto», ha detto Barbara Pollastrini. Secondo Gianni Cuperlo la scommessa per Gayleft è quella di «contribuire al rinnovamento della sinistra riformista, provando a scuoterne cultura e vocabolario». Scossa di cui c’è bisogno: «Occorre un lavoro pedagogico rivolto alla classe dirigente dei Ds», ha detto Paola Concia, mentre Aurelio Mancuso ha proposto la redazione di un vocabolario di termini corretti per parlare di omosessualità. E con gli alleati? «Come farà Fassino a inserire il Pacs nel programma dell’intera coalizione?», si è chiesto Lo Giudice, annunciando altrimenti anche l’allontanamento di Arcigay. Insomma, la lotta degli omosessuali deve essere interpretata come battaglia per i diritti di libertà autentiche di cui la società sente il bisogno. Questo, secondo Gayleft, il messaggio cristallino che deve passare dentro i Ds e con gli alleati.

http://www.gaynews.it/view.php?ID=30655

Spagna, la svolta della Chiesa: "Contro l'AIDS si al preservativo"

Decisione della Conferenza episcopale: si sostiene ancora l'astinenza, ma l'uso del condom è accettato Spagna

di Alessandro Oppes

La Chiesa spagnola si è dichiarata, per la prima volta, favorevole all'uso del preservativo come metodo per evitare il contagio dell'Aids. In una dichiarazione fatta subito dopo un incontro con il ministro socialista della Sanità Elena Salgado, il portavoce della Conferenza episcopale Juan Antonio Martinez Camino ha sostenuto che questa nuova posizione della gerarchia coincide con le proposte pubblicate di recente sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet, che difende una combinazione tra "astensione, fedeltà e uso del preservativo". La gerarchia cattolica, che in passato aveva fatto riferimento sempre solo ai primi due metodi, accetta ora a sorpresa l'impiego del condom, sostenendo che può svolgere una funzione importante "all'interno di una strategia integrale e globale" contro questa malattia. Questo metodo di lotta alla diffusione dell'Aids, conosciuto come "strategia Abc" e difeso negli Stati Uniti dall'amministrazione Bush, ha provocato negli ultimi mesi accese polemiche all'interno della comunità scientifica e nel mondo politico americano. L'intervento della Conferenza episcopale spagnola - conosciuta per le sue posizioni tradizionalmente conservatrici - giunge totalmente inatteso dopo mesi di duro scontro fra la Chiesa e il governo socialista guidato da Zapatero sui temi dell'aborto, dell'eutanasia, delle nozze gay e dell'insegnamento della religione. Il clima, invece, ieri è stato "molto disteso e amabile" come ha spiegato monsignor MartÍnez Camino al termine del faccia a faccia con il ministro Salgado. Si è parlato solo di Aids, e la Chiesa si dice disposta a "collaborare con il governo" per fronteggiare questo "grave problema". Appena pochi mesi fa, il progetto del governo catalano di installare macchine distributrici di condom nelle scuole era stato duramente criticato dalla Chiesa. In passato il Vaticano si era più volte opposto in maniera netta all'impiego del preservativo come metodo di prevenzione. Ma la progressiva diffusione della malattia su scala planetaria ha reso necessaria una riapertura del dibattito fra teologi e membri della gerarchia: e se dalla Curia romana non è ancora venuta una parola definitiva, sono ancora molte, nella Santa Sede, le voci contrarie all'utilizzazione del condom. Una delle poche dichiarazioni in parziale sintonia con la presa di posizione della gerarchia spagnola è stata quella pronunciata la scorsa settimana dall'autorevole cardinale arcivescovo di Bruxelles, Godfried Danneels, considerato uno dei possibili candidati alla successione di papa Giovanni Paolo II. Seppure "con riluttanza", Danneels sostiene che sarebbe disposto ad accettare l'impiego del condom come mezzo di prevenzione dell'Aids. Ma appena due mesi fa, il Vaticano aveva affermato che la diffusione della malattia è dovuta a una "immunodeficienza di valori morali", ripetendo la necessità di puntare sui metodi di prevenzione tradizionalmente cari alla Chiesa: educazione e astinenza.

(La Repubblica del 19/01/2005)

http://www.gaynews.it/view.php?ID=30652

martedì 18 gennaio 2005

E' 'nata' la sinistra gay

di Stefano Bolognini
Martedì 18 Gennaio 2005

Cambia il rapporto tra omosex e politica. All'assemblea nazionale del Coordinamento Omosessuali DS oggi a Roma Fassino assicura: primo impegno, il PaCS. Ma conferma: no al matrimonio.


ROMA - «La tutela giuridica delle coppie di fatto sarà nel programma di governo del centrosinistra. Siamo impegnati a realizzare l'obiettivo del pieno riconoscimento di questa tematica». Lo ha annunciato il segretario dei Ds, Piero Fassino, intervenendo all'assemblea del Coordinamento omosessuali dei Democratici di Sinistra, che si è svolta in preparazione del terzo congresso DS.

Fassino ha così risposto, di fronte ad un nutrito pubblico di parlamentari e leader del movimento gay, alle sollecitazioni del Coordinamento che ha chiesto alla sinistra di uscire con coraggio dall'ambiguità nel trattare la questione omosessuale.

Vanni Piccolo, figura storica dell'attivismo gay e moderatore dell'assemblea, è stato perentorio: «Di omosessualità si parla più in televisione che in politica. Il partito deve dare risposte più alte. E', ad esempio, in corso una campagna a sostegno del Pacs ma l'impegno non si vede da tutte le parti… Da molti anni i compagni e le compagne desiderano sentire nella relazione del congresso di qualche dirigente la parola 'gay'. Voglio morire con il mio partito che mi riconosca come gay».

All'appello si è unito Andrea Benedino, portavoce del CODS: «E' necessario rilanciare la campagna del Pacs, va trovata unità nella coalizione sulla questione omosessuale, è necessario non ideologizzare il dibattito per ottenere risultati concreti. Non si fugga alle richieste dei gay trincerandosi dietro la libertà di coscienza».

Ma come si tradurrà l'impegno dei DS?

Fassino è stato molto chiaro: «L'obiettivo - ha precisato il segretario della Quercia - è arrivare entro la fine di questa legislatura all'esame e all'adozione da parte del Parlamento di una legislazione sul tema. E' un compito non semplice di fronte al pregiudizio della destra. Non vorrei - ha aggiunto - che le dichiarazioni di La Russa sul riconoscimento delle coppie di fatto fossero solo un escamotage elettorale. Non vorrei che facessero la fine del voto agli immigrati annunciato tempo fa da Fini e mai approdato in legge. Chiedo onestà e coerenza di comportamento».

Benedino ha sostenuto il rilancio della campagna a sostegno del Pacs: «In città come Roma e Milano - ha sottolineato - i manifesti non sono stati affissi e in alcune altre città sono stati affissi solo i manifesti con coppie di eterosessuali. I gay se ne sono accorti».

Di più, nel corso dell'assemblea, è stato annunciato il nuovo nome, cambiamento che può apparire solo formale, di denominazione del "Coordimanento Omosessuali DS" che d'ora in avanti sarà "GayLeft Consulta LGBT DS".

Lo statuto di "consulta" aggiunge molto valore al gruppo che d'ora in poi si affiancherà alla Quercia come promotore, elaboratore e consigliere di proposte di cambiamento. Con questo cambiamento è totale il riconoscimento politico alla militanza gay nei DS.

La nascita di questa rinnovata sinistra gay è una risposta politica che nasce lontano.

Tutti gli interventi hanno rilevato la svolta avvenuta nel nostro paese. Dalla bocciatura di Buttiglione in poi, abbiamo registrato un'escalation di vittorie politiche per i gay.

Da Rosario Crocetta, sindaco dichiaratamente gay di Gela quinta città siciliana per numero di abitanti, passando per la recente elezione di Fabio Omero, consigliere comunale da due legislature a Trieste e leader storico del movimento omosessuale, a segretario provinciale dei Ds di Trieste fino alla vittoria alle primarie di Nichi Vendola i gay, in Italia, sono una realtà politica che non può non essere tenuta in considerazione.

Secondo Franco Grillini, deputato DS e presidente onorario Arcigay, intervenuto al convegno, «in Italia siamo a uno svolta nel rapporto tra politica e omosessualità» e «le battaglie dei gay hanno un ampio consenso popolare. L'Italia non è più retrograda, beghina e clericale. Le parole di Fassino sono una garanzia per il futuro delle battaglie gay».

L'onorevole ha accennato, poi, alla ripresa odierna della discussione della discussione in Commissione giustizia della legge sul riconoscimento delle unioni civili.

Un unico dubbio ci ha lasciato l'assemblea di oggi.

Sia Fassino, nel suo intervento che Livia Turco, in un'intervista a Sky, hanno rimarcato di non voler «mettere in discussione il matrimonio». Anche su questo il leader Ds è stato chiaro: «Non siamo favorevoli ad introdurre altre forme di matrimonio, ma dobbiamo sviluppare pienamente la battaglia sui Pacs che abbiamo lanciato».

La sinistra spagnola sembra, almeno per ora, lontana.

Ma ha ragione Benedino quando accenna che «ben sappiamo che l'approccio alle nostre proposte deve essere riformista e graduale». La loro forza sarà la nostra vittoria.

http://it.gay.com/view.php?ID=19659

All'ultimo stadio

di ALESSANDRO ROBECCHI


Forse la statistica non è una scienza esatta, ma qualcosa conta. Per esempio, è statisticamente difficile che uno si faccia truffare due volte allo stesso modo. Potranno fregarlo forse in altri mille modi diversi (e lo fanno!), ma non proprio alla stessa maniera in cui l'hanno già derubato una volta. Eppure, ecco qui: battendosi come leoni contro la statistica (e la logica) pare che gli italiani non siano particolarmente indignati di fronte all'annuncio della nuova priorità nazionale: costruire nuovi stadi. Abbiamo bisogno di nuovi stadi come il pane, in effetti. Vorremmo ospitare gli Europei di calcio del 2012 e quindi è assolutamente prioritario costruire nuovi bestioni in cemento armato. Quelli vecchi non vanno bene, dopotutto li abbiamo rifatti soltanto quindici anni fa. Siamo un paese dalle mille risorse, e ci rifacciamo gli stadi più frequentemente di quanto la signora Pina si rifà il tinello.

Dicono le cronache che il monarca in carica fosse titubante. Dopotutto, a una popolazione che si schianta in treno perché si risparmia sulla sicurezza potrebbe non far piacere di dedicare tanta energia per ricostruire cose che già esistono. Ma pare che Franco Carraro - un grande collezionista di presidenze - abbia sventolato sotto il naso del re un bigliettino con scritto che il Portogallo con gli Europei di pallone ha aumentato di un punto il suo prodotto interno lordo.

Il re, con gli occhi a dollaro, ha dato la sua benedizione. E rieccoci qui a costruire stadi. Il dolce sapore della nostalgia ci pervade se ripensiamo all'ultima volta che ci siamo rifatti gli stadi. Notti magiche. Il pupazzo Ciao... deliziose madeleine di quando eravamo tanto fessi da pensare di essere ricchi.

Qualche imbecille ci disse che per ospitare i Mondiali dovevamo avere stadi coperti. Ed eccoci lì a dannarci l'anima per coprire gli stadi. Nessun mondiale dopo di quello ebbe stadi coperti: fu uno scherzo, insomma. Spendemmo 1.248 miliardi di lire, appena l'84 per cento in più del preventivo iniziale. Alcuni lavori sforarono di oltre il 200 per cento (Torino). Si diede lavoro a molta gente e soprattutto alle procure della Repubblica che per anni hanno indagato su quella nostra inesausta voglia di rifare gli stadi. Alcuni lavoratori edili cascarono dalle impalcature, mi pare il minimo per un paese civile. Alcune mirabolanti realizzazioni come stazioni e infrastrutture si possono ancora osservare mentre marciscono allegramente, inutilizzate e coperte di erbacce.

Fu l'ultimo ballo del craxismo imperante e, a pensarci adesso, proprio molto simile a una serata di gala sul Titanic. Sembra un film in costume, ma sono passati appena quindici anni. Capirete che gli stadi non vanno più bene.

Si dirà che quella classe dirigente fu spazzata via, che dopo tanti guasti siamo ora in grado di ricostruire il Paese e soprattutto, gli stadi. Eppure, scorrendo l'indice dei nomi, ecco molti casi di omonimia. Naturalmente il Franco Carraro che oggi è presidente della Federazione Gioco Calcio (oltre che consigliere di amministrazione di Capitalia) non ha nulla a che vedere con il Franco Carraro di allora, che era sindaco di Roma, presidente dell'organizzazione dei Mondiali. E del resto nemmeno l'attuale monarca è lo stesso Silvio Berlusconi che quindici anni fa era presidente del Milan, palazzinaro (e costruttore di stadi). Si tratta dunque di una classe dirigente completamente nuova e diversa, che chiede giustamente di superare le malefatte del passato e di costruire finalmente dei nuovi stadi, di cui abbiamo tanto bisogno. Come direbbe Biscardi «tutta l'Italia lo vuole!».

Ora basta con i bei ricordi, corriamo tutti a costruire nuovi stadi, presto! Carraro ha lanciato l'idea e Berlusconi l'ha subito accettata e benedetta. Un punto di prodotto interno lordo! Ma ve lo immaginate? Programmazione? Pianificazione e urbanistica? Sono cose da comunisti che certo non hanno nulla a che fare con il gioco del pallone. Quindici anni fa volevamo stadi grandi. Ora vogliamo stadi piccoli con il ristorante, la piscina e la sala da the. E' la normale evoluzione di un paese, il procedere del suo sviluppo culturale. Si fa notare, con gentilezza, che allora furono sperperati denari pubblici, mentre oggi si punta sui privati, garanzia di serietà. Tipo Cirio, tipo Parmalat, per intenderci, quelli che si facevano i conti in banca coi trasferelli. Poche storie, comunque, è un fatto che abbiamo impellente e insopprimibile bisogno di nuovi stadi. E che anche questa volta ci sarà un Franco Carraro a vigilare, attentissimo e severo, che vada tutto bene. Tranquilli.

tratto da il manifesto del 16/01/2005

Quando le urne decidono

di MIRIAM MAFAI

Da circa dieci anni si discute, nel centrosinistra, dell'opportunità o meno di adottare, per la scelta dei candidati, il metodo delle primarie, già in vigore, sia pure in forme diverse, in America come in Inghilterra e in Germania. Se ne è discusso ripetutamente in sede politica e accademica, in convegni con leader di partito e politologi, mettendo in luce di volta in volta i possibili vantaggi del sistema e i suoi altrettanto possibili inconvenienti.
Ricordo un'organica proposta di legge che venne avanzata nel corso della XIII Legislatura dai parlamentari diessini Claudia Mancina e Antonio Soda.

Proposta presentata, ma presto dimenticata, per la più o meno manifesta ostilità del gruppo dirigente. La selezione dei candidati, insomma, è sempre rimasta saldamente nelle mani delle segreterie dei partiti, in un processo di crescente centralizzazione con il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario.

Questo finché qualche settimana fa il centrosinistra, inciampato nel contrasto insuperabile tra due diverse candidature per la elezione del presidente della Regione Puglia, non ha deciso di ricorrere, finalmente, alla via d'uscita delle primarie. O Nichi Vendola o Francesco Boccia. Era scontato che vincesse Francesco Boccia, il giovane e brillante economista della Margherita sostenuto da tutto il centrosinistra. E invece, contro ogni previsione, da una competizione alla quale hanno partecipato, oltre 80.000 elettori, è uscito vincente Nichi Vendola, il candidato di Rifondazione.

Su un centrosinistra da molti mesi impegnato in astratte vertenze nominalistiche (che differenza ci sarà tra "riformisti" e "riformatori"?) e in concretissime per quanto opache vertenze di potere, queste primarie pugliesi, il loro svolgimento e il loro risultato, piombano come un imprevisto elettroshock. Imprevisto e tuttavia benefico, se i gruppi dirigenti della coalizione sapranno coglierne il significato.

Qui non siamo di fronte al grido di un intellettuale indignato, come quello che lanciò ormai due anni fa Nanni Moretti alla manifestazione di Piazza Navona, né al malessere della sinistra inquieta che si è raccolta sabato scorso a Roma attorno alla iniziativa del Manifesto. Nel voto espresso domenica dagli elettori pugliesi, che dopo aver firmato una dichiarazione di adesione al progetto politico della Gad hanno atteso pazientemente per ore il loro turno per esprimere la propria scelta, in quel voto è possibile leggere in primo luogo una gran voglia di partecipazione, una richiesta affannata di democrazia e insieme una protesta contro gruppi dirigenti che si arrogano il diritto di assumere le proprie decisioni facendole calare dall'alto quasi fossero cosa privata.

Da tempo, del resto, chi avesse avuto orecchio per ascoltare avrebbe dovuto rendersi conto di questo diffuso disagio nei confronti di una politica sempre meno leggibile, sempre meno limpida e sempre più lontana dalla sensibilità e dalle richieste di quella che una volta si chiamava "la base".

Una base che non può non sentirsi a disagio di fronte alle continue e spesso incomprensibili polemiche tra i vari leader della coalizione. Polemiche alle quali seguono puntualmente smentite e rettifiche, altrettanto incomprensibili. Non occorre un orecchio particolarmente fine per percepire l'irritazione, la delusione, l'insofferenza che va crescendo tra gli elettori del centrosinistra, una delusione e un'insofferenza che possono anche tradursi in un rifiuto secco della politica e alla fine in astensionismo.
Le primarie di domenica in Puglia, l'alta partecipazione al voto, dicono tuttavia che quel processo, contrassegnato dalla sequenza "delusione-insofferenza-rifiuto della politica" non è scontato. La voglia di partecipare e di decidere è ancora molto forte tra gli elettori. Ma va pure spiegata la sconfitta di Francesco Boccia, che, considerato il più forte nella competizione contro il governatore Fitto, era stato indicato e sostenuto da tutti i partiti del centrosinistra. La sua sconfitta deve essere correttamente letta non come un giudizio sulla sua persona e le sue capacità, ma piuttosto come la manifestazione di un'insofferenza nei confronti di quei vertici romani, di quelle oligarchie che lo avevano indicato e pretendevano di imporlo come il candidato migliore. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, il voto pugliese accentua il problema degli equilibri politici della coalizione. La vittoria del candidato di Rifondazione rischia di spostare l'asse dell'alleanza verso la sinistra radicale, mettendo in sofferenza il fronte riformista. E la visibilità che inevitabilmente Bertinotti avrà nel duello con Prodi alle primarie nazionali aumenterà ancora di più questo pericolo.
Le primarie sono uno strumento delicato.

Da maneggiare con cura o per ottenere una ratifica, più o meno larga, delle scelte assunte dal gruppo dirigente, o per promuovere un processo di selezione democratica delle candidature. In ambedue i casi è lo strumento principale di cui il centrosinistra dispone per rinnovare e rafforzare il rapporto con la sua base e i suoi elettori. Dopo tanti anni di dibattiti, il centrosinistra potrebbe assumerle, coraggiosamente, come l'elemento distintivo, la vera novità di cui si fa portatrice la coalizione. Ben vengano dunque le primarie per la scelta del premier, che del resto Romano Prodi ha da tempo proposto nonostante alcune riserve degli alleati.

Ma il vero segnale di cambiamento potrà venire dalla convocazione delle primarie per la scelta dei candidati del maggioritario per le elezioni politiche del 2006, che consentiranno nei singoli collegi una verifica dell'operato dei parlamentari in carica e la individuazione dei migliori candidati per la prossima legislatura.
(18 gennaio 2005)

http://www.repubblica.it/2004/l/sezioni/politica/proditornadue/urnede/urnede.html

Il Masaniello Nichi tra Bibbia e poesie

di FRANCESCO MERLO

Hanno vinto la dolcezza, la generosità e la fantasia che sono il contrario della parola comunismo. "Io sono un delirio di emozioni", dice di sé Vendola che, alla nascita, nel 1958, fu registrato Nicola, ma fu subito ribattezzato Nikita da papà Francesco, in onore di Kruscev e della destalinizzazione. Ancora oggi Nikita, detto Nichi, è la contraddizione vivente dell'estremismo perché è vero che milita in Rifondazione, anch'egli tentato dai vecchi slogan ammuffiti del comunismo che la storia ha ridotto a deserti dell'intelligenza. Ma è anche vero che la sua gentilezza disarmata fa più male all'estremismo di un'intera squadra di manganellatori: "Anche nella radicalità del contrasto io non appartengo alla sinistra del treppiedi".

E infatti Vendola è fiero di non avere "mai né dato né minacciato, in tutta la vita, un solo schiaffo", neppure a quel deputato di Forza Italia, Ilario Floresta, che alla Camera, durante una rissa, gli mostrò i denti e gli gridò che gli avrebbe staccato con un morso l'orecchio e che lo avrebbe pure ingoiato "ma solo dopo aver sputato nel cesso l'orecchino".

Vendola è estremista non per scelta, ma perché gli altri lo hanno stabilito. Una personalità gentile è infatti un estremista solo nel senso che la gentilezza lo pone all'estremo del mondo drammatico degli interessi e degli apparati, lo colloca nell'inattualità, nel limbo delle qualità senza spazio e senza tempo, dove anche il comunismo può diventare il suo contrario e cioè modestia e amabile rispetto, una riconoscenza leggera fugace e reciproca, una complicità ingenua, prepolitica e antipolitica, con la complessità sociale. La politica come gentilezza, la politica come politesse è dunque l'ultima trovata del più geniale laboratorio italiano, del pasticcio meridionale, che ancora una volta esprime la propria infamiliarità con il potere e con i suoi uomini. Al punto che con Vendola persino la parola comunista diventa l'aggettivo simbolo ? pensate al paradosso ? della più disarmata e disarmante non violenza. Una volta che a Terlizzi si trovò di fronte a un esagitato che davvero voleva picchiarlo, uno del quale non vuol fare il nome "perché adesso siamo amici", ebbene davanti al braccio alzato chiuse gli occhi e aspettò la botta: "Eppure io sono un fifone nato".

Ancora una volta dunque viene dal sud, dalla Puglia del sindaco Emiliano, la bella novità italiana, perché Vendola ha vinto le primarie contro l'onnipotente D'Alema e contro i partiti del centrosinistra, ha battuto il candidato degli apparati e adesso se la vedrà con il governatore in carica, con Raffaele Fitto di Forza Italia, "il gigante pugliese dai piedi d'argilla". Solo il Sud poteva fare delle primarie, che rimangono una demagogia d'importazione, uno strumento vero di rifiuto della politica più usurata e mettere spontaneamente in piedi, o forse sarebbe meglio dire liberare, in una freddissima giornata d'inverno, una macchina di consenso e di attrazione, con 80mila voti di cui 41mila a Vendola, che è al tempo stesso all'americana e all'amatriciana, nel senso che è esotica ma anche ultraprovinciale come vuole il localismo, con l'esaltazione del quartiere, della piazza, di un paese, di un condominio come finestre aperte sullo spirito umano.

Non c'è galera e non c'è stanza d'ospedale, non c'è scontro di piazza, da Melfi a Scanzano, non c'è zona a rischio, da Lecce al Gargano, non c'è liceo, non c'è università e non c'è chiesa che Vendola non abbia visitato e non visiterà in questa campagna elettorale, arrivando sempre blindato, perché dal 1992, da quando ricevette le prime minacce sotto forma di autobombe, gli è imposta la scorta, ma subito liberandosi nel bagno di folla che per una volta non è rude, non è da capopolo con i baffi: "Se vinco non diventerò mai il vostro capo, resterò un vostro fratello".
Vendola è il primo masaniello delicato e persino un poco effeminato della storia d'Italia. Piccolo di statura, timido, i capelli a caschetto, dopo ogni comizio telefona alla mamma, si commuove per niente ed è facile alle lacrime come si addice al Sud d'Italia. Persino la sua omosessualità è rassicurante perché mai scandalosa né provocatoria, non è un luogo di vizio e di morbosità ma di dolcezze romantiche e di solidarietà leale. E Vendola non è bello come il suo avversario Fitto, sta a disagio dentro giacche troppo larghe ma non è goffo, si veste come nel sud tutti si vestono tranne i gagà, con una eleganza sbrigativa e vaga che farebbe inorridire gli esperti di look e i sociologi i quali, presi nella loro ricerca di rigore e di regole, la mettono dura con la società delle immagini e delle apparenze facendo finta d'essere i soli saggi del manicomio Italia. Ed è un successo che la dice lunga sulla ricchezza culturale di un mondo che è il luogo del pregiudizio, ma di un pregiudizio spesso ammiccante di simpatia.

Solo in una capitale del sud come Bari le donne popolari della città vecchia e quelle dei quartieri murattiani già nel 2001 potevano salutare il loro Nichi alla testa del gay pride lanciando petali dalle finestre "come si fa quando passa il santo". Mamma Antonetta, casalinga e donna all'antica di Terlizzi, ricorda ancora il giorno in cui una nipote le aprì gli occhi sul terzo dei suoi quattro figli: "Ci siamo pentiti di averne sofferto e oggi siamo orgogliosi, anche se di sesso parliamo per accenni e per sottintesi". Nichi portava in casa le fidanzatine: "Ne ricordo una, Aurelia. Era bellissima. Ed è vissuta in casa con noi e con Nichi per più di un mese". Ma gli apparati del Centrosinistra sono molto più indietro delle mamme pugliesi, e dunque non lo volevano candidare alla presidenza della Regione, pronti a imboccare la scorciatoia dell'intolleranza. Una volta, nel comitato centrale del Pci, l'autorevole compagna Marisa Rodano disse rivolgendosi indirettamente a lui: "Se uno di questi mettesse le mani su uno dei miei nipotini gli darei subito una sberla". Si dibatteva dei diritti degli omosessuali, dei carcerati, di tutte le minoranze e Vendola, che stava già nell'Arcigay, predicava la liberazione dei "soggetti smarriti" che è il titolo del suo primo libro, dedicato al mondo che chiama capovolto e che per lui è "comunismo".

È facile prendere in giro il poeta omosessuale, comunista e non violento, il rivoluzionario con la lacrima facile, il cattolico che dice: "Il libro più importante per un comunista come me è la Bibbia". Ma anche la chiesa pugliese gli dà una mano, persino finanziariamente, perché Vendola fa spesso la comunione, praticante anticonformista che vorrebbe andare a messa tutti i giorni tranne la domenica. È il figlioccio spirituale del vescovo don Tonino Bello, del quale ha curato un'antologia di scritti con il titolo "Teologia degli oppressi". "Comunista" anche lui. E ancora il suo comunismo è lo zio Vito, un maestro elementare al quale è stata dedicata una strada, e Gioacchino Giusmundo, che fu insegnante di filosofia di Ingrao al liceo di Rieti, e don Pietro Pappagallo. Entrambi morirono alle Fosse Ardeatine.

Del resto a Nichi pare "comunista" anche quella poesia che scrisse all'età di 7 anni e recitò in classe, in seconda elementare. Si intitolava "Mamma". Ha continuato a fare il poeta, si è laureato in Lettere, tesi su Pasolini con Leone De Castris, ma non si prende troppo sul serio quando si esercita nel settenario giambico: "Non credere che i giorni/ dei laghi e dei pantani/ si intrighino ai ritorni / e mutino in volani / in cavallucci storni / in astri assai lontani". In realtà Vendola considera la poesia come una sua perversione e si piace soprattutto come verseggiatore di circostanza, filastroccaro senza pretese: "C'era una volta una piccola bocca che ripeteva la filastrocca di una gattina color albicocca che miagolava in una bicocca dove viveva una fata un po' tocca che raccontava la storia bislacca di una bambina che sta sulla rocca e che ripete la mia filastrocca nata un po' allocca e cresciuta barocca...". Comunismo anche questo? La sua raccolta di versi, "L'ultimo Mare", è stata entusiasticamente recensita dal Secolo d'Italia che gli ha attribuito, con la firma di Nicola Vacca, "il leopardiano pensiero poetante": "La voce della sua poesia riconsegna ai mutamenti una grande speranza". La grande speranza che Vendola propone è "una nuova maniera di ragionare e di parlare", "una rivoluzione mite e gentile", "lo spiazzamento come stile di governo", "il ribaltamento dei codici della politica non più tattica militare", "la passione come strumento per amministrare le risorse", "la centralizzazione del flusso di emozioni popolari"...

Difficile capire cosa voglia dire questo comunismo ma forse vale la pena tentare. Certo, si corre qualche rischio ad applicare la modernità ai campanili del sud, ai luoghi d'Italia che sempre hanno subito la politica e molto più degli altri sono capaci d'insorgere e di sfruttare ogni occasione per far saltare il linguaggio della formale gabbia d'acciaio di Weber che qui non attecchisce. Si corre il rischio della demagogia e del populismo, il rischio della filastrocca. Ma forse con Vendola davvero ne vale la pena.
(18 gennaio 2005)


http://www.repubblica.it/2004/l/sezioni/politica/proditornadue/bibbiapoesie/bibbiapoesie.html

Scoppia lo scandalo: la tv parla di mafia

La destra si scatena per un'inchiesta di "Report"
E Cuffaro ottiene una trasmissione riparatrice
di CURZIO MALTESE


Una bella inchiesta di Report su Raitre ha interrotto per una sera gli anni di omertà televisiva sulla mafia, con l'eccezione di qualche buona ma innocua fiction.

Puntuale è scattata la censura della maggioranza. Tutti in prima fila, gli esponenti siciliani di Forza Italia, il presidente della Regione Cuffaro, il sindaco di Catania Scapagnini, non per combattere la mafia ma il giornalismo anti-mafia.

Per difendere la "loro" Sicilia "diffamata e offesa" con "vecchie storie", frutto di pregiudizio politico. Senza neppure rendersi conto di usare gli argomenti, il linguaggio, le frasi fatte di un Totò Riina o di tanti mafiosi da film.

In verità i legami fra Cosa Nostra e politica erano stati appena sfiorati dal programma di Raitre, forse nell'illusione di scampare alla mannaia. Ma ormai nella maggioranza dei "61 collegi su 61" basta la sola parola "mafia" per scatenare reazioni isteriche, violente e a volte ridicole. Come la richiesta di ottenere una "trasmissione riparatrice" su Raidue per "mostrare l'altro volto della Sicilia", avanzata da Cuffaro e prontamente accolta dallo spaventapasseri di destra piazzato alla direzione generale della tv pubblica, Flavio Cattaneo. Che ci faranno vedere, carretti e balli folcloristici? Sono anni che in tv, Rai o Mediaset, ci fanno vedere l'altro volto della Sicilia, quello falso, dove la mafia non esiste.

Il torto di Milena Gabanelli e degli inviati di Report è di aver ricordato che la mafia invece esiste ed è tornata a controllare il territorio. Non si sono visti scoop o rivelazioni clamorose nella puntata dell'altra sera.

Soltanto l'ostinato, intelligente racconto di che cos'è la nuova criminalità organizzata, attraverso episodi piccoli e grandi. I tre incendi al locale gestito dal capo dei commercianti anti racket del siracusano, scanditi ogni nove mesi esatti, nell'incredibile impotenza delle forze dell'ordine. Le strane fughe a un passo dall'arresto di Bernardo Provenzano, che dev'essere da trent'anni l'uomo più fortunato del pianeta oppure uno che ha buoni informatori nelle istituzioni. Un'inchiesta seria, documentata, equilibrata, che ha dato voce per una volta alla Sicilia del coraggio e dell'onestà, l'ha fatta sentire meno sola. Un ottimo esempio di quel servizio pubblico che tutti, a parole, invocano dalla Rai.

La censura a Report è l'ultimo episodio di una lunga storia di televisione di regime, cominciata nel 2001 con la vittoria di Berlusconi e il proclama di Sofia contro Biagi e Santoro, proseguita con l'epurazione della satira e dell'informazione indipendente, fino alla grottesca sospensione del Molière di Paolo Rossi domenica scorsa. Ma è anche l'episodio più grave e triste, nella sua cinica prevedibilità.

E' prevedibile ma deprimente che un personaggio come Totò Cuffaro, che deve rispondere alla giustizia dell'accusa di favoreggiamento alla mafia, scateni pubblicamente l'ennesima campagna contro l'antimafia. E' altrettanto scontato ma triste che Forza Italia, il cui fondatore Marcello Dell'Utri è stato condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, metta alla gogna chi indaga sulla mafia. Possibile che nessuno, nel centrodestra, provi imbarazzo per questo processo alla rovescia? Non ci aspettiamo grandi prove di senso dello Stato dalla maggioranza. Ma se è vero che "la Sicilia non è soltanto mafia" neppuro lo è tutta l'Udc o Forza Italia.

E dunque perché lasciar parlare su questi temi soltanto una compagnia di indagati o condannati?

Quanto al danno che queste inchieste e perfino alcuni sceneggiati produrrebbe all'immagine della Sicilia e dell'Italia, vecchia accusa di Berlusconi, bisogna mettersi d'accordo. Un episodio come questo è destinato a fare il giro del pianeta, portando l'immagine più desolante di un'Italia omertosa, governata da amici degli amici.

Qualche mese fa le Monde ha rappresentato una vignetta con Berlusconi che presentava la sua squadra. Da una parte un gruppo di ciechi col bastone e i cani: "I miei elettori". Dall'altra un pugno di ceffi con coppola e occhiali da sole: "I miei collaboratori". La battuta è stata ripresa da tutte le televisioni del mondo, tranne una. Davvero un bel colpo d'immagine, altro che "La Piovra".
(18 gennaio 2005)

http://www.repubblica.it/2004/j/sezioni/spettacoli_e_cultura/censuratv/report/report.html

lunedì 17 gennaio 2005

Vendola vince le primarie, sarà il candidato per la GAD della Rregione Puglia

La Puglia come Parigi e Berlino. La svolta con la grande manifestazione del gay pride di Bari di 2 anni fa
di Franco Grillini

Ho sempre affermato che Nichi Vendola sarebbe stato un ottimo candidato alla presidenza della Regione Puglia e sono felice che questo giudizio sia stato condiviso dalla maggioranza degli elettori della Gad nel corso delle primarie pugliesi. Vendola, ex dirigente Arcigay fin dalla fondazione dell’associazione nazionale, rappresenta quel rinnovamento della sinistra della libertà e dei diritti che, come a Parigi (dove è stato eletto il sindaco Delanoe, gay dichiarato) e a Berlino (dove il voto popolare ha confermato Wowereit alla carica di Sindaco), ha ormai un vasto consenso popolare.

La Puglia si conferma come la più moderna delle regioni del sud e non possiamo non ricordare la gigantesca manifestazione del gay pride che si svolse a bari 2 anni fa alla presenza corale di tutta la città. L’augurio è quello di una campagna elettorale forte che sappia interpretare questo desiderio di rinnovamento e di modernizzazione cogliendo la volontà di quella maggioranza che si è già espressa nel voto per il centrosinistra a Bari e alle suppletive.

Per Vendola ci auguriamo un sostegno che coinvolga il centrosinistra nel suo complesso con la volontà di vincere in Puglia una elezione significativa anche per la politica nazionale.

http://www.gaynews.it/view.php?ID=30616

Piano per scalare il Quirinale: il premier e il rischio Consolato

di MASSIMO GIANNINI

La "scalata al Quirinale" di Silvio Berlusconi è cominciata alla cena di fine d'anno, poco più di due settimane fa. Erano riuniti insieme al Plebiscito, il Cavaliere e i suoi alleati. Lui a metà pasto ha detto: "Allora, prima o poi dovete dirmi cosa volete fare da grandi. Io, per me, un'idea ce l'avrei...". Quasi tutti i presenti l'avevano preso come un scherzo. "Il Quirinale non mi dispiacerebbe affatto. Anche se sarebbe il posto ideale per Gianni Letta. Tu, Pier, cosa ne pensi?".

Casini aveva preferito non scherzare: "Io vorrei continuare a fare il presidente della Camera. Per quanto riguarda il Colle, caro Silvio, sta a te decidere. Quello che ti posso garantire è che, se tu sceglierai di candidarti alla presidenza della Repubblica, noi ti daremo il nostro appoggio, in modo leale..."Per capirci - aveva continuato Casini - non ti faremo scherzetti, tipo quello che Andreotti fece a Forlani nel '92, quando gli garantì l'appoggio della Dc e poi invece lo fece impallinare per due scrutini consecutivi e alla fine votò per Scalfaro".

Aveva ragione il presidente della Camera. Adesso quello che a Fini e Follini era sembrato un gioco di società è diventato un affare serio. La "scalata al Quirinale" di Berlusconi è tutt'altro che fantapolitica. E' un progetto vero. Sconta incognite di varia natura. Personali in primo luogo: gli scarti di umore del personaggio, i suoi continui stop and go, la tenuta della sua leadership. Politici in secondo luogo: l'esito delle prossime regionali, la durata di Ciampi, la composizione del Parlamento che uscirà dal voto del 2006.

Ma il disegno c'è. Il Cavaliere lo coltiva. E non ne fa mistero. Dopo quella cena l'ha anche confermato pubblicamente alla conferenza stampa di fine anno.
E' un disegno che ha una principale, ma anche una subordinata. La principale, che per Berlusconi sarebbe la soluzione migliore e indolore, ruota intorno a una disponibilità dell'attuale inquilino del Colle. Per una delle coincidenze che si verificano raramente nella storia repubblicana, la fine della prossima legislatura cadrà a maggio, nello stesso giorno della conclusione del settennato di Carlo Azeglio Ciampi. Se Ciampi rimanesse al Quirinale fino all'ultimo giorno, il suo successore sarebbe eletto dal nuovo Parlamento, che rifletterebbe i nuovi equilibri decisi dagli italiani con le elezioni generali intervenute nel frattempo.

Il Cavaliere preferirebbe evitare questo rischio. Allo stato attuale non ha alcuna certezza di battere il centrosinistra. Né alle regionali di quest'anno, né tanto meno alle politiche tra due anni. La sua unica possibilità per salire al Quirinale senza rischi, è che Ciampi decida di dimettersi prima della scadenza del suo mandato, che è il 13 maggio 2006. Secondo alcuni consiglieri azzurri, e secondo indiscrezioni riferite sui giornali "cognati" del premier, lui stesso avrebbe avviato una moral suasion sul presidente della Repubblica, per convincerlo a fargli questo favore.

Ma è un'ipotesi che non tiene. Lo stato dei rapporti tra le due istituzioni è già logorato, tanto più dopo il rinvio alle Camere della riforma dell'ordinamento giudiziario. Di più: Ciampi non ha affatto gradito l'autocandidatura del Cavaliere per il Colle, esplicitata proprio il giorno prima del messaggio di Capodanno del Capo dello Stato. L'ha considerata "l'ennesimo atto di scortesia istituzionale". E comunque ha già detto a sua volta ciò che pensa sul tema. Non farà il gesto che fece Francesco Cossiga nell'aprile '92, quando si dimise in pieno semestre bianco, con due mesi d'anticipo. "Ho già confermato tutti i viaggi che ho in programma - ripete Ciampi - fino all'ultimo. E resterò al mio posto, fino all'ultimo giorno del settennato".

Per questo la scalata al Quirinale di Berlusconi dovrà eventualmente passare per una subordinata. E sul piano del galateo istituzionale e della correttezza costituzionale, questa subordinata è anche più discutibile. Lo stesso Cavaliere l'ha illustrata così agli alleati: "Vinciamo le elezioni del 2006, e poi io, sulla scia del consenso popolare che ho ottenuto, decido se tornare a Palazzo Chigi o trasferirmi sul Colle". In quest'ultimo caso, quasi scontato, secondo i giornali "amici" il candidato già scelto per Palazzo Chigi sarebbe Gianni Letta.

Siamo al cuore del problema. Al nucleo involutivo del berlusconismo, che sovverte il ciclo evolutivo del parlamentarismo. Nessuno può contestare il diritto elettivo del Cavaliere ad ambire alla carica di presidente della Repubblica. Possono farlo tutti i cittadini. A maggior ragione può farlo lui. Ma non in questo modo. Non con l'ennesima e la più estrema torsione delle regole. Non con questa pretesa ulteriore di far coincidere la biografia collettiva della nazione con la sua biografia personale.

Berlusconi non può, senza manomettere i principi della democrazia rappresentativa, affrontare una campagna elettorale chiedendo una delega in bianco agli italiani. Votate per me, poi vedrò io come e dove esercitare il mandato che mi avete affidato. Non può chiedere agli elettori di aderire al suo modello istituzionale, una forma di governo che prevede formalmente l'elezione diretta del presidente del Consiglio, con tanto di indicazione del nome sulla scheda, e poi declinarlo a suo piacimento, sostanzialmente come un'elezione diretta del presidente della Repubblica.

Questo cambia la natura della contesa politica. La cambia a tal punto che la mossa del Cavaliere sul Quirinale ha aperto un dibattito speculare, e altrettanto pericoloso, sul fronte opposto. Anche nell'Ulivo c'è chi ha cominciato a chiedersi se non sia il caso di lanciare subito un nuovo ticket tra Quirinale e Palazzo Chigi, da contrapporre a quello lanciato da Berlusconi.

Anche nell'Ulivo c'è chi ha cominciato a chiedersi se non sia il caso, vinte le elezioni, di traslocare Romano Prodi al Quirinale, e di designare un altro leader alla guida del governo. Stavolta non ha torto Massimo D'Alema quando dice che "se il principale leader di uno dei due schieramenti si candida al Quirinale, si rompe con un metodo che è quello della ricerca del massimo consenso, che noi seguimmo per l'elezione di Ciampi, e si dà alle elezioni politiche un contenuto del tutto nuovo, in senso presidenzialista".

Quando stava all'opposizione, il Cavaliere parlava tutt'altro linguaggio. "Noi non accettiamo che le regole del gioco vengano cambiate mentre si sta giocando", disse alla Camera il 16 marzo 1995, nel discorso con il quale annunciava il voto contrario alla fiducia al governo Dini. Oggi, con la scalata al Quirinale, Berlusconi stravolge le regole del gioco mentre la partita è in pieno corso. Altrove esiste un presidenzialismo costituzionale. Da noi si va verso un presidenzialismo fattuale. Il cambiamento avviene senza che si riscriva la Costituzione in senso formale. Basta forzarla in senso materiale.

La settimana scorsa, in un editoriale su Libération, Alain Duhamel poneva la questione della pericolosa metamorfosi della Quinta Repubblica in Francia. "Jacques Chirac - scriveva - ormai incarna una Repubblica Consolare. Ricorda il Consolato del generale Bonaparte", quello che tra il 1799 e il 1804 vide Napoleone assumere poteri "para-militari" incontrastati. Oggi come allora, secondo molti osservatori francesi, Chirac, "presidente simbolo della nazione e garante delle istituzioni, non si accontenta di dirigere la politica estera e i principali orientamenti di politica interna, come i suoi predecessori. Esercita invece una sorta di "presidenza assoluta". Ma in uno stato di diritto - era la conclusione dell'editoriale - nessun potere può sfuggire al controllo di altri poteri".

Questo è il dibattito attuale in Francia, dove esiste comunque un regime codificato e democraticamente collaudato di semi-presidenzialismo. Dove i principi scolpiti nella Costituzione del 1958 attestano chiaramente che questo, per esistere e funzionare, è e deve essere sempre e comunque un regime "ad autorità duale".

Viene da chiedersi quale dibattito si dovrebbe allora sviluppare in Italia, dove tra due anni potremmo ritrovarci, di fatto anche se non di diritto, con un leader assai più "assoluto" di quello francese. Un regime non duale, non diarchico, ma dove invece comanda una sola "testa". Un capo che si autocandida alla presidenza della Repubblica, guida il più grande partito di maggioranza, dirige in pratica la coalizione di governo, possiede il più grande impero mediatico del Paese e per di più, senza nessun contrappeso istituzionale, sceglie e nomina premier uno dei suoi alleati più fedeli.

Così anche l'Italia, senza saperlo e senza averlo deciso, rischia di trasformarsi. Prima di Berlusconi era una Repubblica parlamentare. Con Berlusconi può diventare molto più che una Repubblica Consolare.
(17 gennaio 2005)

http://www.repubblica.it/2005/a/sezioni/politica/dibacdldue/colle/colle.html

Il pericolo...

«Il pericolo è di veder demolito tutto ciò che si è costruito nel Risorgimento, come coesione nazionale, come senso dello Stato e anche come libertà di un intero popolo. In poco tempo, una classe dirigente faziosa e incapace sta minando il lavoro di un millennio, Dante, Petrarca, Machiavelli, Foscolo, Leopardi».

Mario Luzi, L’Espresso, 20 gennaio 2005

domenica 16 gennaio 2005

Un messaggio pericoloso

di Furio Colombo

Le parole "terrore e morte" non fanno parte degli argomenti di una campagna elettorale o di un confronto politico. Eppure, parlando a coloro che lo seguono e gli credono, ieri il presidente del Consiglio italiano ha detto che se lui perdesse le elezioni il suo avversario, il centrosinistra, seminerebbe in Italia "terrore e morte".

Impossibile ridurre la dichiarazione a uno dei suoi colpi di teatro o definirla - con quel tanto di sarcasmo che spesso si dedica alle parole sregolate di Berlusconi - una "follia". Silvio Berlusconi è il presidente del Consiglio in carica, firma i trattati, le leggi, i decreti, rappresenta il Paese, comanda e controlla l'Esecutivo.

Non è realistico immaginare che un uomo caricato di tanta responsabilità, per quanto incline al protagonismo televisivo e teatrale, non dia peso e seguito alle sue stesse parole. Berlusconi, dopo aver annunciato la sua convinzione che una certa parte politica - in caso di vittoria elettorale - porterà nel Paese terrore e morte, dovrà per forza agire - finché è in tempo - per proteggere il Paese. Ma se anche il presidente avesse parlato solo per fare colpo, resta il fatto che al suo ufficio e alle sue parole credono - per dovere e per efficienza - le polizie e i servizi segreti italiani.

La frase infatti non è generica. Evoca, e anzi annuncia, un pericolo serio che richiede a chi di dovere di mobilitarsi per tempo. Non sarebbe ragionevole, in nome della salvezza del Paese, schedare, pedinare, sorvegliare, intercettare chi si appresta a portare in Italia terrore e morte? È possibile, infatti, che quelle parole di denuncia e di allarme da parte di un primo ministro siano interpretate come un segnale per cominciare a occuparsi della materia da parte di chi ha senso del dovere, finché il Paese è al sicuro, nelle mani di Berlusconi.

Le domande sono gravi. Sembra inevitabile che tocchi alle più alte istituzioni del Paese chiedere al presidente del Consiglio di confermare o negare.

da l'Unità del 17/01/2005

In Difesa della Giustizia

di Gian Carlo Caselli

Fare un po' di "conti" mi sembra di decisiva importanza. Perché, se i "conti" dimostrano un costante, sostanziale impoverimento dell'amministrazione della giustizia, invece che un obiettivo possibile, la giustizia diventa una grande illusione, se non un inganno. Ma in questo modo si alimenta e si rafforza quella sfiducia verso la giustizia che già è ampiamente diffusa fra i cittadini italiani.
Di ragioni (reali o strumentalmente indotte) per non avere fiducia nella giustizia i cittadini ne hanno, purtroppo, davvero molte:
Soffrono sulla loro pelle i tempi vergognosamente lunghi ed i costi elevatissimi di un processo incomprensibile e farraginoso;
Rilevano che il servizio giudiziario, oltre ad essere inefficiente, è incapace di produrre - come dovrebbe - eguaglianza; e che la disuguaglianza è aggravata dalla filosofia dei condoni e delle leggi che, quando non sono "ad personam", sono "sui et sibi", cioè non dettate da interessi generali;
Avvertono (forse confusamente, ma lo avvertono) che il modello penale "mite" riguarda solo i rami alti della società: come plasticamente indicato dal nuovo art. 624 bis codice penale (introdotto con legge 128/2001), che ha reso il borseggio di pochi spiccioli - nella tavola dei valori tutelati - più grave della corruzione miliardaria; e come confermato dalla trasformazione del falso in bilancio in reperto d'archivio;
Chiedono sicurezza, ma spesso ottengono soltanto proclami elettorali o campagne mediatiche di vuota rassicurazione;
Sono disorientati dalle polemiche e dai dibattiti a senso unico che accompagnano ogni processo di rilievo (spesso veri e propri "teatrini" costruiti ad arte nei salotti televisivi);
A forza di sentirselo ripetere in modo martellante, anche da "pulpiti" istituzionali autorevolissimi, alla fine finiscono per credere che sia buono e giusto definire i magistrati "associazione a delinquere" o "cancro da estirpare";
Ma non si raccapezzano più, quando constatano che proprio a questi "inaffidabili" giudici vengono assegnati sempre nuovi compiti, essendo l'Italia (come sappiamo) il paese in cui persino i campionati di football aspettano - per il calcio d'inizio - il fischio di un Tribunale;
E ancor meno si raccapezzano se apprendono che nel 2001,2002,2003 e 2004 si sono prescritti - rispettivamente - 123mila, 151mila, 184mila e circa 210mila procedimenti e che a fronte di questi dati impressionanti (in costante, inesorabile crescita), invece di sforzarsi di diminuire i casi di prescrizione riducendo drasticamente la durata dei processi, è in cantiere una riforma che abbatte i tempi entro cui si può accertare se e da chi un reato è stato effettivamente commesso, causando inevitabilmente un ulteriore aumento delle prescrizioni: una specie di resa, di rinunzia alla pretesa punitiva per una fascia estesissima di reati; l'esatto contrario di un sistema giustizia efficiente e moderno
Questa sfiducia (o disorientamento) dei cittadini preoccupa e inquieta. Più che gli insulti di alcuni vertici istituzionali. Perché l'impopolarità nelle stanze del potere, per una giurisdizione indipendente, è fisiologica (talora, per chi voglia fare il suo dovere senza sconti o ammiccamenti, tenendo la schiena dritta, addirittura necessaria). Ma una società che perde la fiducia nella giustizia e nei suoi magistrati è una società a rischio. Inevitabilmente esposta al pericolo di derive patologiche, illiberali e disgreganti.
In democrazia, infatti, la fiducia dei cittadini nella giustizia e nei magistrati non è un optional, ma un elemento strutturale. Perciò, è essenziale per la saldezza della democrazia che questa fiducia sia recuperata. Dove fiducia non significa condivisione di questa o quella decisione (il giudice risolve conflitti e non può - per definizione - essere ugualmente apprezzato da tutti i contendenti). Neppure significa consenso, poiché ai giudici compete decidere in base alle regole, non secondo le aspettative di questo o di quello, si tratti pure della maggioranza del momento. Fiducia significa accettazione del ruolo sociale della giurisdizione, accettazione condivisa da tutti, in un quadro di controllo sociale sull'operato della magistratura e di legittimità di tutte le critiche argomentate.
Nel recupero di fiducia, un ruolo centrale hanno gli stessi magistrati. Prima di tutto sottoponendosi senza riserve a quel controllo e a quelle critiche e assumendosi (ad ogni livello) le responsabilità conseguenti. Poi acquisendo (tutta la magistratura, in ogni sua articolazione) la capacità di un maggior rigore sul versante delle insufficienze, impreparazioni e cadute di professionalità che ancora ci vengono - anche giustamente - rimproverate.
Decisivi sono pure i comportamenti quotidiani. Nella sua carriera, ogni magistrato incontra migliaia di cittadini. Non ne ricorderà quasi nessuno, mentre si può essere sicuri che ognuna delle persone incontrate dal magistrato si ricorderà di lui. E lo giudicherà bene (indipendentemente dal fatto che abbia avuto torto o ragione) se il magistrato sarà stato disponibile e non arrogante, rispettoso delle persone e capace di ascoltarle invece che burocraticamente ottuso, equilibrato ed attento anziché scostante e frettoloso. (...)
Spetta ai magistrati, inoltre, organizzare al meglio il proprio lavoro, eliminando ovunque si annidino eventuali "sacche di neghittosità". Esigenza di cui i magistrati sono ben consapevoli (come dell'importanza della posta in gioco), al punto da presentare al Ministro - come ANM - concrete proposte di controlli quadriennali sulla produttività, con riduzione dello stipendio per chi non lavori abbastanza. (...)
Ma non spetta soltanto ai magistrati (neppure spetta soprattutto ai magistrati) operare per il recupero di efficienza e quindi di credibilità dell'amministrazione della giustizia. Una grande occasione, per fare qualcosa di concreto in questa direzione, c'era. In teoria c'è ancora. Era (ed è) la riforma dell'ordinamento giudiziario. È stata invece - e c'è il timore che possa continuare ad essere - una grande occasione sprecata.
Il vero problema della giustizia italiana, il problema dei problemi, è la durata eccessiva dei processi. Se i processi non finiscono mai, non c'è giustizia, ma denegata giustizia. Su questo versante innanzitutto un riformatore responsabile ha il dovere di intervenire. È proprio su questo versante, invece, che la legge delega di riforma dell'ordinamento giudiziario approvata dal Parlamento non contiene niente di niente. Le interminabili, intollerabili lungaggini dei processi non si ridurranno neanche di un piccolissimo giorno. Anzi: la carriera dei magistrati viene pensata come una specie di "concorsificio", con la conseguenza che - dovendo i magistrati distogliere parte del proprio tempo per sostenere un esame dopo l'altro - la durata dei processi è destinata ineluttabilmente a crescere. Ecco perché la riforma - purtroppo - è stata fin qui un'occasione, una grande occasione, semplicemente sprecata.
Fermo l'assoluto rispetto dovuto alle prerogative del Parlamento;- fermo altresì l'inderogabile dovere della magistratura di applicare lealmente tutte le leggi della Repubblica;- vi è tuttavia il diritto-dovere di ciascuno di ragionare intorno alle conseguenze che potrebbero derivare dalla legge, pur lealmente osservandola. Conseguenze obiettive, che prescindono dal tipo di maggioranza contingente e quindi dall'essere al governo questo o quello.
In quest'ottica, è diffusa la preoccupazione che possa trattarsi non di una riforma della giustizia, ma di una riforma dei giudici. Che invece di farsi carico di migliorare l'efficienza del sistema giustizia, si punti ad un altro obiettivo: controllare i giudici, sterilizzare l'indipendenza della magistratura, "colpevole" di aver fatto il suo dovere indirizzando il controllo di legalità non solo verso i deboli e gli emarginati, ma anche (ricorrendone i presupposti in fatto e diritto) verso i "colletti bianchi" e verso le deviazioni del potere.
A questo tipo di controllo dei magistrati inesorabilmente si arriva ogni volta che si svuoti di decisivi poteri il CSM, argine che la Costituzione pone a difesa dell'indipendenza della magistratura. (...) Il rischio è che la scritta "La legge è uguale per tutti", che campeggia nelle aule dei tribunali, torni ad essere non un'indicazione di percorso concretamente praticabile, ma una vuota formula.
Nella filosofia della riforma, poi, appaiono univocamente delineate solide premesse che porteranno alla separazione non delle funzioni (sulla cui necessità più nessuno avanza dubbi o riserve) ma delle carriere fra PM e giudici. Ovunque (in tutti i Paesi del mondo che la prevedono), separazione delle carriere significa che il PM - per un verso o per l'altro - deve adeguarsi alle direttive del Governo. La storia del nostro Paese ha già conosciuto, nel passato, forme di controllo politico del PM. Sono state esperienze negative. Perché ritornare ad esse oggi? - Oggi, quando alcuni imputati "di peso" (come l'esperienza ci mostra) hanno a volte la tentazione di non considerarsi eguali agli altri di fronte alla legge e di "aggredire" i magistrati che abbiano la ventura di doversi occupare di loro. (...)
Il nuovo ordinamento disegna un'organizzazione iper-gerarchica delle Procure, mettendo di fatto sotto tutela l'obbligatorietà dell'azione penale. Il dirigente della Procura potrà - se vorrà - comportarsi sostanzialmente come un capo-padrone ed i PM del suo ufficio potrebbero ritrovarsi con ben pochi margini per quell'esercizio dell'azione penale diffusa che ha consentito - negli ultimi decenni - importanti risultati nella tutela di diritti fondamentali come la salute, la sicurezza sul lavoro, l'ambiente.
Tanto più che gli uffici direttivi rischiano di essere assegnati non tanto a chi ha autorevolezza e capacità organizzative, quanto piuttosto a chi viene cooptato dall'alto, posto che i relativi concorsi sembrano congegnati prevalentemente come "prove di omogeneità culturale". (...)
Nel contempo, la riforma spalanca di fatto le porte ad eventuali forme di controllo politico del Governo (poco importa, ovviamente di quale colore) sull'attività giudiziaria. Estraneità al dibattito culturale - quasi un bavaglio - e conseguente conformismo si profilano come possibile stigma dei magistrati che vogliano evitare noie disciplinari.
In sostanza: tassello su tassello, sembra delinearsi un disegno che potrebbe favorire, nell'esercizio della giurisdizione, la gerarchizzazione e la burocratizzazione, vale a dire un'interpretazione del proprio ruolo che contrasta con una completa indipendenza e con la soggezione dei giudici soltanto alla legge, facilitando altre dipendenze: dal palazzo e dai suoi esponenti, dalle contingenti maggioranze (quale che sia, ovviamente, il loro segno o colore), dai potentati economici o culturali.
È per le preoccupazioni ricollegabili a questo disegno che la magistratura italiana si è trovata costretta, con sofferenza, cercando di ridurre al minimo i disagi causati, persino a scioperare. Perché vuole poter continuare ad esercitare le sue funzioni ispirandosi al primato dell'uguaglianza e dei diritti.
Perché ritiene contrario a giustizia e all'interesse dei cittadini che il metro di valutazione degli interventi giudiziari non sia quello della correttezza e del rigore, ma quello dell'utilità, misurata sui rapporti di forza contingenti.
Perché è ben consapevole che la propria indipendenza non garantisce in modo meccanico giustizia, libertà ed uguaglianza per tutti, ma è una delle condizioni per rendere possibile tale risultato. Risultato verso cui la magistratura italiana, pur coi suoi limiti e le sue insufficienze, ha da tempo intrapreso una "lunga marcia". Ancora incompiuta, è vero. Ma che chiediamo di poter continuare. Senza privilegi o penalizzazioni per nessuno. Semplicemente attuando - per tutti - il controllo di legalità previsto dalla legge, e dando risposta (senza distinzioni) a chiunque deduca la lesione di propri diritti.
Con il messaggio alle Camere che richiede una nuova deliberazione sulla legge delega per la riforma dell'ordinamento giudiziario, il Capo dello Stato - rilevando un palese contrasto con vari articoli della Costituzione - ha riaperto la discussione ed il confronto.
Ora il Parlamento è chiamato a valutare i rilievi del Presidente della Repubblica, che sostanzialmente riguardano, da un lato, l'esigenza di non svuotare di effettività i poteri del CSM;- e dall'altro l'esclusione in capo al Ministro di poteri che oltrepassino il limite costituzionale dell'organizzazione e del funzionamento dei servizi, evitando che sia intaccato il principio - fondamentale in democrazia - della separazione dei poteri .
L'auspicio del Capo dello Stato è che alla versione ultima della riforma, partendo da queste basi, si approdi mediante scelte largamente condivise, essendo quella sull'ordinamento giudiziario una legge di diretta attuazione della Costituzione.
La mia speranza è che in questo modo possano svanire molte delle preoccupazioni sopra prospettate. Spero anche che non si dimentichi l'insegnamento del Federalist di Alexander Hamilton: «Il giudiziario è senza paragone il più debole dei tre rami del potere e non può insidiare con successo alcuno degli altri due; per questo ogni possibile precauzione deve essere adottata per difenderlo dagli attacchi degli altri. Del pari, sebbene l'oppressione di un individuo possa ora e in futuro esser conseguenza di decisioni delle corti di giustizia, le libertà fondamentali del popolo non possono mai essere messe in pericolo da questa branca del potere; ciò sin quando il giudiziario rimanga effettivamente separato dal legislativo e dall'esecutivo».

Questo testo è una parte della relazione letta da Gian Carlo Caselli in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario 2005 a Torino pubblicato da l'Unità del 16/01/2005

Berlusconi: "Con la sinistra miseria, morte e terrore"

Durissimo attacco del presidente del Consiglio contro l'Ulivo
"Sarebbe uguale a un altro regime comunista qualunque"


ROMA - "Se la sinistra andasse al governo, questo sarebbe l'esito: miseria, terrore, morte. Così come avviene ovunque governi il comunismo. Non sarebbe lo Stato liberale che vogliamo noi". Lo ha affermato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, dicendosi "sicuro" che nel 2006 gli italiani confermeranno alla Cdl il mandato di governare. "I cittadini - ha aggiunto nel corso di un collegamento telefonico con la manifestazione 'Neveazzurra' - l'anno prossimo ci domanderanno di proseguire nel governare il Paese".

Se il programma della Gad sarà di "rottura" con il governo Berlusconi, allora, ha detto ancora il premier commentando le dichiarazioni rese oggi da Romano Prodi "sarà anche di rottura con l'Italia che vuole crescere". "Mi fa piacere che facciano un programma - ha proseguito il presidente del Consiglio - Dio voglia che si mettano d'accordo su un programma, qualsiasi esso sia, almeno ne vedremo uno, perché finora non abbiamo visto niente".

Berlusconi è tornato anche sul tema della procreazione assistita. Per auspicare che il Parlamento modifichi la legge per evitare il referendum. Ma soprattutto per dire che se si arriverà alla consultazione popolare, questa si dovrà svolgere "nella prima parte del periodo indicato dalla legge", che prevede il voto tra il 15 aprile e il 15 giugno. Quindi al più presto possibile.

(16 gennaio 2005)

http://www.repubblica.it/2005/a/sezioni/politica/dibacdldue/berlaprodi/berlaprodi.html

La lunga battaglia intorno all'embrione

di Eugenio Scalfari

Il dibattito sul laicismo è stato concluso due settimane fa su queste pagine e già si preannunciano altri qualificati interventi che ospiteremo volentieri e che saranno infine tutti raccolti in un volume che diffonderemo con Repubblica. Ma ora i laici - religiosi e non - sono chiamati a confrontarsi con un appuntamento quanto mai impegnativo: il referendum sulla legge numero 40 che tratta della procreazione medicalmente assistita. Una legge approvata poco più di un anno fa dopo un'incubazione assai lunga da una maggioranza trasversale nella quale al centrodestra, massicciamente favorevole salvo poche eccezioni, si affiancarono quasi tutti i cattolici militanti nello schieramento di centrosinistra.

Quella legge tuttavia, anche dopo la sua entrata in vigore, suscitò una folata di critiche argomentate e aspre, non solo da parte dell'opinione pubblica laica ma in particolare da parte della classe medica, degli scienziati, delle donne. Anche in questo caso dunque un arco trasversale di segno opposto a quello formatosi in Parlamento per l'approvazione della legge.
In queste condizioni fu relativamente facile la raccolta delle firme per l'indizione del referendum abrogativo, anzi di cinque referendum unificati poi dalla Corte di Cassazione e infine trasmessi alla Corte Costituzionale per l'approvazione di merito.

Tre giorni fa la sentenza, che ha respinto il referendum mirante all'abrogazione totale della legge ed ha invece approvato gli altri quattro quesiti con i quali i promotori chiedono di cancellare alcuni articoli e cioè quelli contenenti il diritto del concepito equiparato in tutto ai diritti di persone già nate ed esistenti, i limiti posti alla ricerca scientifica sugli embrioni e l'uso delle cellule staminali a scopo terapeutico, i limiti alla procreazione degli embrioni e al loro impianto, il divieto dell'accertamento medico sulla sanità dell'embrione, il divieto alla procreazione eterologa cioè ottenuta utilizzando ovuli o seme forniti da persone estranee alla coppia ma ovviamente con il consenso della coppia stessa. Si tratta in sostanza degli architravi delle legge 40 ed è proprio su di essi che si erano orientate le critiche dell'opinione laica.






Il capo dello Stato, su parere del presidente del Consiglio, dovrà ora fissare la data del referendum che deve aver luogo in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno, a meno che nel frattempo il Parlamento non ridiscuta la legge 40 emendandola in modo da soddisfare i quesiti abrogativi proposti nel referendum.

Il dibattito sul merito è dunque destinato a riaccendersi, anzi si è già riacceso e verte sulle questioni inerenti e pertinenti ai quesiti di abrogazione.
Preliminare però all'analisi di tali questioni è l'esame della sentenza della Corte, possibile fin d'ora a lume di logica anche in assenza delle motivazioni che non sono ancora note. Ma il dispositivo ha una sua eloquenza e, se si può dir così, parla da solo.

Prima di inoltrarmi nell'esame delle suddette questioni sento tuttavia il dovere, come cittadino, di ringraziare le forze politiche che si sono impegnate nella raccolta delle firme per l'indizione del referendum e segnatamente il Partito radicale. Dai radicali mi dividono molte cose, a cominciare dal loro abuso di richieste referendarie che ha avuto il negativo effetto di logorare l'istituto e quasi di renderlo inviso agli elettori. Salvo nei casi in cui una consistente parte di essi rivendichi quei diritti che una legge può in ipotesi aver loro sottratto e voglia legittimamente riappropriarsene. I promotori del referendum adempiano in tal caso utilmente al ruolo di dare sbocco completo a quella volontà popolare, quale che ne sia poi l'esito istituzionale.

* * *

Comincio con il preliminare, la sentenza della Corte.
Ha giudicato improponibile il referendum sull'abrogazione totale della legge 40, ma ha invece ritenuto validi e ammissibili i quattro quesiti miranti ad abrogare alcuni articoli della legge stessa. Perché? Quale può essere la "ratio" di questa complessa sentenza che al tempo stesso nega e concede? Secondo me la "ratio" è abbastanza chiara. Il Parlamento ha approvato una legge che detta criteri su una questione, la procreazione assistita, fino a quel momento priva d'una normativa e quindi soggetta ad abusi gravi, lesivi della salute e fonte anche di discriminazioni vistose tra abbienti e non abbienti nel ricorso alle risorse che la medicina genetica mette oggi a disposizione.

L'abrogazione totale della legge 40 avrebbe riportato a zero il faticoso iter parlamentare rinviando a chissà quando il recupero del suo impianto.
Ma continuiamo l'esame della sentenza. L'ammissibilità dei quesiti referendari accolti dalla Corte consente, almeno sulla carta, che il Parlamento intervenga subito, entro la scadenza referendaria, modificando la legge in modo tale da soddisfare i quesiti referendari.

La Corte cioè ha tenuto conto, come doveva, sia dell'autonomia delle richieste di chi ha promosso il referendum abrogativo sia della sovranità legislativa del Parlamento e ha sentenziato di conseguenza.
In questo quadro la domanda se ora sia opportuno oppure no che il Parlamento modifichi la legge evitando il referendum mi sembra di secondario interesse. Se il referendum si farà e se dovessero vincere i "no" o se il quorum del 50 più 1 per cento non fosse raggiunto, la legge attuale risulterà confermata senza emendamenti. Se invece vincesse il "sì" o se la legge fosse emendata prima del referendum e allo scopo di evitarlo, avrebbero vinto in entrambi i casi i promotori del referendum stesso.
Queste sono le diverse possibilità teoriche.

Personalmente penso che il tempo disponibile per un intervento parlamentare immediato e soprattutto la voglia di farlo non vi siano. Andare al referendum mi sembra dunque la scelta più chiara e più rispettosa della sovranità popolare.

Il tema sovrastante su tutti gli altri quando si esamini il merito della questione sta comunque nella natura dell'embrione e se esso sia fin dalle prime ore di vita una "persona" titolare di diritti oppure un grumo di cellule evolutive, una persona "potenziale" ma una non-persona "attuale" e che quindi non possa usufruire di diritti soggettivi.

Le opinioni su questo punto capitale sono molto divise. Io non credo che l'embrione sia una persona e penso che la sua capacità evolutiva non sia un dato sufficiente ad attribuirgli diritti autonomi e conflittuali con altri diritti. Penso che l'embrione, prima che la sua capacità evolutiva da potenziale divenga attuale dotandolo di un minimo di organi biologici che lo configurino come soggetto, sia ancora interamente confuso con il corpo della madre e non distinguibile giuridicamente da lei e dalle sue determinazioni. Il legislatore può entro certi limiti condizionare tali determinazioni in funzione di un pubblico interesse, badando però a non annullare quel diritto soggettivo in nome d'un altro diritto conflittuale ma secondo me inesistente.

Mi rendo conto che questa opinione è, appunto, opinabile.
Legittima ma opinabile. Ci sono però altre considerazioni che vanno prese in esame. Le seguenti.
Chi decide di ricorrere alla fecondazione medicalmente assistita non avendo altre possibilità di procreare, desidera evidentemente dar vita ad un nuovo essere. Agisce dunque in favore di una nuova vita. Non si comprendono perciò le limitazioni che vengono poste a questa pulsione creativa e gli ostacoli che giocano obiettivamente contro la nascita di nuove vite e nuove persone. Nello scontro fin troppo aspro tra le varie opinioni, i cosiddetti "movimenti per la vita" di ispirazione cattolica hanno tacciato i loro avversari come "partito della morte". Non si rendono conto che una definizione del genere, oltre ad essere settaria, si presta ad essere rovesciata.

Il partito della vita è quello che favorisce la realizzazione d'un desiderio che può condurre alla nascita di nuove creature o quello che pone ostacoli a quella realizzazione? E ancora: l'uso terapeutico di cellule staminali per combattere malattie mortali e quindi per salvare vite esistenti è un gesto in favore della vita oppure un gesto mortifero quando riceva quelle cellule preziose da embrioni in soprannumero?
Si tratta di questioni estremamente complesse e non risolvibili se si attribuisce al concepito, fin dal primo istante del concepimento, una personalità attuale e gli si attribuiscono diritti di intensità pari a quelli di cui sono portatrici le persone attualmente esistenti. Non solo.

L'attribuzione di tali diritti a una non-persona fa sì che il suo unico possibile delegato sia lo Stato. Ecco l'ultimo paradosso di questo modo di pensare: lo Stato, attraverso le norme da esso formulate, si attribuisce il diritto di decidere in nome del concepito contro il diritto soggettivo della madre e della coppia genitoriale. Lo Stato cioè distrugge diritti soggettivi arrogandosi la rappresentanza di un diritto soggettivo attribuito per legge ad un soggetto potenziale ma inesistente allo stato dei fatti.

A me sembra chiaro che lo Stato abbia un rilevante interesse a regolamentare i diritti soggettivi genitoriali in materia di procreazione medicalmente assistita; ma un interesse non è un diritto soggettivo e lo Stato non può esercitarlo per delega d'un gruppo di cellule vive ed evolutive quanto si voglia. Lo Stato può agire sulla base di un interesse proprio e della collettività che rappresenta, ma quell'interesse non giustifica in nessun caso la confisca e la soppressione di un diritto soggettivo senza che ciò configuri un gravissimo abuso di potere.

* * *

Io non credo che le osservazioni sopra esposte siano superabili né credo che in questa discussione siano coinvolti e lesi principi religiosi. La religione difende il principio della vita, ma anche i non-religiosi lo difendono se non altro seguendo l'impulso alla sopravvivenza della specie. I religiosi difendono la vita dell'embrione, ma anche i non religiosi la difendono; si è mai visto o udito qualcuno che auspichi una sistematica strage di embrioni? Il problema nasce quando, in nome di persone potenziali si inventano diritti confliggenti con quelli di persone esistenti e si fanno soggiacere i secondi rispetto ai primi.

Questo, appunto, è il paradosso contenuto nella legge 40 e a questo paradosso vogliono porre rimedio i quesiti referendari che la sentenza della Corte ha giudicato ammissibili. In nome della vita. In nome dei diritti intangibili della persona. In nome del dovere di curare persone ammalate di morbi mortali. In nome della libera ricerca scientifica.

Lo Stato può regolamentare l'esercizio dei diritti inalienabili degli individui, ma non può sopprimerli né confiscarli e non può attribuirsene la rappresentanza senza trasformarsi in uno Stato totalitario. Quanto alla religione, essa può raccomandare ai credenti comportamenti ritenuti coerenti con i principi della fede ma non può neppure tentare di imporli a una libera comunità senza con ciò violare quella "laicità" che dovrebbe rappresentare il terreno comune di tutti coloro che hanno a cuore la civile e ordinata convivenza.

(16 gennaio 2005)

http://www.repubblica.it/2004/i/sezioni/politica/fecondazione/battembr/battembr.html

Uno straccio di laicità

Sex crimes and the Vatican

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