di Gian Carlo Caselli
Fare un po' di "conti" mi sembra di decisiva importanza. Perché, se i "conti" dimostrano un costante, sostanziale impoverimento dell'amministrazione della giustizia, invece che un obiettivo possibile, la giustizia diventa una grande illusione, se non un inganno. Ma in questo modo si alimenta e si rafforza quella sfiducia verso la giustizia che già è ampiamente diffusa fra i cittadini italiani.
Di ragioni (reali o strumentalmente indotte) per non avere fiducia nella giustizia i cittadini ne hanno, purtroppo, davvero molte:
Soffrono sulla loro pelle i tempi vergognosamente lunghi ed i costi elevatissimi di un processo incomprensibile e farraginoso;
Rilevano che il servizio giudiziario, oltre ad essere inefficiente, è incapace di produrre - come dovrebbe - eguaglianza; e che la disuguaglianza è aggravata dalla filosofia dei condoni e delle leggi che, quando non sono "ad personam", sono "sui et sibi", cioè non dettate da interessi generali;
Avvertono (forse confusamente, ma lo avvertono) che il modello penale "mite" riguarda solo i rami alti della società: come plasticamente indicato dal nuovo art. 624 bis codice penale (introdotto con legge 128/2001), che ha reso il borseggio di pochi spiccioli - nella tavola dei valori tutelati - più grave della corruzione miliardaria; e come confermato dalla trasformazione del falso in bilancio in reperto d'archivio;
Chiedono sicurezza, ma spesso ottengono soltanto proclami elettorali o campagne mediatiche di vuota rassicurazione;
Sono disorientati dalle polemiche e dai dibattiti a senso unico che accompagnano ogni processo di rilievo (spesso veri e propri "teatrini" costruiti ad arte nei salotti televisivi);
A forza di sentirselo ripetere in modo martellante, anche da "pulpiti" istituzionali autorevolissimi, alla fine finiscono per credere che sia buono e giusto definire i magistrati "associazione a delinquere" o "cancro da estirpare";
Ma non si raccapezzano più, quando constatano che proprio a questi "inaffidabili" giudici vengono assegnati sempre nuovi compiti, essendo l'Italia (come sappiamo) il paese in cui persino i campionati di football aspettano - per il calcio d'inizio - il fischio di un Tribunale;
E ancor meno si raccapezzano se apprendono che nel 2001,2002,2003 e 2004 si sono prescritti - rispettivamente - 123mila, 151mila, 184mila e circa 210mila procedimenti e che a fronte di questi dati impressionanti (in costante, inesorabile crescita), invece di sforzarsi di diminuire i casi di prescrizione riducendo drasticamente la durata dei processi, è in cantiere una riforma che abbatte i tempi entro cui si può accertare se e da chi un reato è stato effettivamente commesso, causando inevitabilmente un ulteriore aumento delle prescrizioni: una specie di resa, di rinunzia alla pretesa punitiva per una fascia estesissima di reati; l'esatto contrario di un sistema giustizia efficiente e moderno
Questa sfiducia (o disorientamento) dei cittadini preoccupa e inquieta. Più che gli insulti di alcuni vertici istituzionali. Perché l'impopolarità nelle stanze del potere, per una giurisdizione indipendente, è fisiologica (talora, per chi voglia fare il suo dovere senza sconti o ammiccamenti, tenendo la schiena dritta, addirittura necessaria). Ma una società che perde la fiducia nella giustizia e nei suoi magistrati è una società a rischio. Inevitabilmente esposta al pericolo di derive patologiche, illiberali e disgreganti.
In democrazia, infatti, la fiducia dei cittadini nella giustizia e nei magistrati non è un optional, ma un elemento strutturale. Perciò, è essenziale per la saldezza della democrazia che questa fiducia sia recuperata. Dove fiducia non significa condivisione di questa o quella decisione (il giudice risolve conflitti e non può - per definizione - essere ugualmente apprezzato da tutti i contendenti). Neppure significa consenso, poiché ai giudici compete decidere in base alle regole, non secondo le aspettative di questo o di quello, si tratti pure della maggioranza del momento. Fiducia significa accettazione del ruolo sociale della giurisdizione, accettazione condivisa da tutti, in un quadro di controllo sociale sull'operato della magistratura e di legittimità di tutte le critiche argomentate.
Nel recupero di fiducia, un ruolo centrale hanno gli stessi magistrati. Prima di tutto sottoponendosi senza riserve a quel controllo e a quelle critiche e assumendosi (ad ogni livello) le responsabilità conseguenti. Poi acquisendo (tutta la magistratura, in ogni sua articolazione) la capacità di un maggior rigore sul versante delle insufficienze, impreparazioni e cadute di professionalità che ancora ci vengono - anche giustamente - rimproverate.
Decisivi sono pure i comportamenti quotidiani. Nella sua carriera, ogni magistrato incontra migliaia di cittadini. Non ne ricorderà quasi nessuno, mentre si può essere sicuri che ognuna delle persone incontrate dal magistrato si ricorderà di lui. E lo giudicherà bene (indipendentemente dal fatto che abbia avuto torto o ragione) se il magistrato sarà stato disponibile e non arrogante, rispettoso delle persone e capace di ascoltarle invece che burocraticamente ottuso, equilibrato ed attento anziché scostante e frettoloso. (...)
Spetta ai magistrati, inoltre, organizzare al meglio il proprio lavoro, eliminando ovunque si annidino eventuali "sacche di neghittosità". Esigenza di cui i magistrati sono ben consapevoli (come dell'importanza della posta in gioco), al punto da presentare al Ministro - come ANM - concrete proposte di controlli quadriennali sulla produttività, con riduzione dello stipendio per chi non lavori abbastanza. (...)
Ma non spetta soltanto ai magistrati (neppure spetta soprattutto ai magistrati) operare per il recupero di efficienza e quindi di credibilità dell'amministrazione della giustizia. Una grande occasione, per fare qualcosa di concreto in questa direzione, c'era. In teoria c'è ancora. Era (ed è) la riforma dell'ordinamento giudiziario. È stata invece - e c'è il timore che possa continuare ad essere - una grande occasione sprecata.
Il vero problema della giustizia italiana, il problema dei problemi, è la durata eccessiva dei processi. Se i processi non finiscono mai, non c'è giustizia, ma denegata giustizia. Su questo versante innanzitutto un riformatore responsabile ha il dovere di intervenire. È proprio su questo versante, invece, che la legge delega di riforma dell'ordinamento giudiziario approvata dal Parlamento non contiene niente di niente. Le interminabili, intollerabili lungaggini dei processi non si ridurranno neanche di un piccolissimo giorno. Anzi: la carriera dei magistrati viene pensata come una specie di "concorsificio", con la conseguenza che - dovendo i magistrati distogliere parte del proprio tempo per sostenere un esame dopo l'altro - la durata dei processi è destinata ineluttabilmente a crescere. Ecco perché la riforma - purtroppo - è stata fin qui un'occasione, una grande occasione, semplicemente sprecata.
Fermo l'assoluto rispetto dovuto alle prerogative del Parlamento;- fermo altresì l'inderogabile dovere della magistratura di applicare lealmente tutte le leggi della Repubblica;- vi è tuttavia il diritto-dovere di ciascuno di ragionare intorno alle conseguenze che potrebbero derivare dalla legge, pur lealmente osservandola. Conseguenze obiettive, che prescindono dal tipo di maggioranza contingente e quindi dall'essere al governo questo o quello.
In quest'ottica, è diffusa la preoccupazione che possa trattarsi non di una riforma della giustizia, ma di una riforma dei giudici. Che invece di farsi carico di migliorare l'efficienza del sistema giustizia, si punti ad un altro obiettivo: controllare i giudici, sterilizzare l'indipendenza della magistratura, "colpevole" di aver fatto il suo dovere indirizzando il controllo di legalità non solo verso i deboli e gli emarginati, ma anche (ricorrendone i presupposti in fatto e diritto) verso i "colletti bianchi" e verso le deviazioni del potere.
A questo tipo di controllo dei magistrati inesorabilmente si arriva ogni volta che si svuoti di decisivi poteri il CSM, argine che la Costituzione pone a difesa dell'indipendenza della magistratura. (...) Il rischio è che la scritta "La legge è uguale per tutti", che campeggia nelle aule dei tribunali, torni ad essere non un'indicazione di percorso concretamente praticabile, ma una vuota formula.
Nella filosofia della riforma, poi, appaiono univocamente delineate solide premesse che porteranno alla separazione non delle funzioni (sulla cui necessità più nessuno avanza dubbi o riserve) ma delle carriere fra PM e giudici. Ovunque (in tutti i Paesi del mondo che la prevedono), separazione delle carriere significa che il PM - per un verso o per l'altro - deve adeguarsi alle direttive del Governo. La storia del nostro Paese ha già conosciuto, nel passato, forme di controllo politico del PM. Sono state esperienze negative. Perché ritornare ad esse oggi? - Oggi, quando alcuni imputati "di peso" (come l'esperienza ci mostra) hanno a volte la tentazione di non considerarsi eguali agli altri di fronte alla legge e di "aggredire" i magistrati che abbiano la ventura di doversi occupare di loro. (...)
Il nuovo ordinamento disegna un'organizzazione iper-gerarchica delle Procure, mettendo di fatto sotto tutela l'obbligatorietà dell'azione penale. Il dirigente della Procura potrà - se vorrà - comportarsi sostanzialmente come un capo-padrone ed i PM del suo ufficio potrebbero ritrovarsi con ben pochi margini per quell'esercizio dell'azione penale diffusa che ha consentito - negli ultimi decenni - importanti risultati nella tutela di diritti fondamentali come la salute, la sicurezza sul lavoro, l'ambiente.
Tanto più che gli uffici direttivi rischiano di essere assegnati non tanto a chi ha autorevolezza e capacità organizzative, quanto piuttosto a chi viene cooptato dall'alto, posto che i relativi concorsi sembrano congegnati prevalentemente come "prove di omogeneità culturale". (...)
Nel contempo, la riforma spalanca di fatto le porte ad eventuali forme di controllo politico del Governo (poco importa, ovviamente di quale colore) sull'attività giudiziaria. Estraneità al dibattito culturale - quasi un bavaglio - e conseguente conformismo si profilano come possibile stigma dei magistrati che vogliano evitare noie disciplinari.
In sostanza: tassello su tassello, sembra delinearsi un disegno che potrebbe favorire, nell'esercizio della giurisdizione, la gerarchizzazione e la burocratizzazione, vale a dire un'interpretazione del proprio ruolo che contrasta con una completa indipendenza e con la soggezione dei giudici soltanto alla legge, facilitando altre dipendenze: dal palazzo e dai suoi esponenti, dalle contingenti maggioranze (quale che sia, ovviamente, il loro segno o colore), dai potentati economici o culturali.
È per le preoccupazioni ricollegabili a questo disegno che la magistratura italiana si è trovata costretta, con sofferenza, cercando di ridurre al minimo i disagi causati, persino a scioperare. Perché vuole poter continuare ad esercitare le sue funzioni ispirandosi al primato dell'uguaglianza e dei diritti.
Perché ritiene contrario a giustizia e all'interesse dei cittadini che il metro di valutazione degli interventi giudiziari non sia quello della correttezza e del rigore, ma quello dell'utilità, misurata sui rapporti di forza contingenti.
Perché è ben consapevole che la propria indipendenza non garantisce in modo meccanico giustizia, libertà ed uguaglianza per tutti, ma è una delle condizioni per rendere possibile tale risultato. Risultato verso cui la magistratura italiana, pur coi suoi limiti e le sue insufficienze, ha da tempo intrapreso una "lunga marcia". Ancora incompiuta, è vero. Ma che chiediamo di poter continuare. Senza privilegi o penalizzazioni per nessuno. Semplicemente attuando - per tutti - il controllo di legalità previsto dalla legge, e dando risposta (senza distinzioni) a chiunque deduca la lesione di propri diritti.
Con il messaggio alle Camere che richiede una nuova deliberazione sulla legge delega per la riforma dell'ordinamento giudiziario, il Capo dello Stato - rilevando un palese contrasto con vari articoli della Costituzione - ha riaperto la discussione ed il confronto.
Ora il Parlamento è chiamato a valutare i rilievi del Presidente della Repubblica, che sostanzialmente riguardano, da un lato, l'esigenza di non svuotare di effettività i poteri del CSM;- e dall'altro l'esclusione in capo al Ministro di poteri che oltrepassino il limite costituzionale dell'organizzazione e del funzionamento dei servizi, evitando che sia intaccato il principio - fondamentale in democrazia - della separazione dei poteri .
L'auspicio del Capo dello Stato è che alla versione ultima della riforma, partendo da queste basi, si approdi mediante scelte largamente condivise, essendo quella sull'ordinamento giudiziario una legge di diretta attuazione della Costituzione.
La mia speranza è che in questo modo possano svanire molte delle preoccupazioni sopra prospettate. Spero anche che non si dimentichi l'insegnamento del Federalist di Alexander Hamilton: «Il giudiziario è senza paragone il più debole dei tre rami del potere e non può insidiare con successo alcuno degli altri due; per questo ogni possibile precauzione deve essere adottata per difenderlo dagli attacchi degli altri. Del pari, sebbene l'oppressione di un individuo possa ora e in futuro esser conseguenza di decisioni delle corti di giustizia, le libertà fondamentali del popolo non possono mai essere messe in pericolo da questa branca del potere; ciò sin quando il giudiziario rimanga effettivamente separato dal legislativo e dall'esecutivo».
Questo testo è una parte della relazione letta da Gian Carlo Caselli in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario 2005 a Torino pubblicato da l'Unità del 16/01/2005
domenica 16 gennaio 2005
In Difesa della Giustizia
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