di JOSÉ LUIS RODRIGUEZ ZAPATERO
La notte del 14 marzo del 2004, quando noi socialisti celebravamo la vittoria elettorale, ho sentito con chiarezza un coro di voci giovanili che mi gridava: "Zapatero, non ci deludere!". Quelle voci, che continuano a risuonare dentro di me, sono la voce dei cittadini spagnoli, che non voglio deludere e ai quali spetta di giudicare il primo anno del mio mandato alla guida del governo.
Nella campagna elettorale del 2004 avevo presentato agli spagnoli un programma per il cambiamento articolato attorno a tre assi: lavorare per la pace, dare ai cittadini più diritti e instaurare uno stile di governo che in Spagna abbiamo convenuto chiamare "talante", disponibilità, e che altro non è se non la politica del dialogo e del negoziato.
Un anno dopo, ritengo che il mio governo abbia fatto alcune cose importanti in risposta a quel messaggio. Una consistente maggioranza degli spagnoli desiderava che il nostro paese ritornasse a fare parte del cuore dell'Europa, e così abbiamo fatto. Il mio governo ha contribuito a sbloccare il processo dell'approvazione della Costituzione europea e della firma a Roma da parte dei capi di Stato e di governo. E a febbraio, il popolo spagnolo ha dimostrato la sua ferma vocazione europeista diventando il primo paese a ratificare con un referendum questa Costituzione.
Per l'Europa, il secolo XX è stato devastante. E, tuttavia, nella seconda metà di questo secolo, la Costruzione europea è diventata il progetto più ambizioso e appassionante di sempre, consistente nel tentativo di creare un grande spazio di democrazia, di diritti umani, di progresso economico, di solidarietà e di incoraggiamento alla pace.
Il nascente secolo XXI deve essere quello dell'allargamento, dell'approfondimento e della consolidazione di questo spazio. Il mondo ha bisogno e chiede più Europa, non meno Europa.
Parliamo ancora di pace. In un contesto internazionale convulso, anche il terrorismo si è globalizzato. In Spagna, che da trent'anni è colpita dal flagello dell'Eta, abbiamo subito l'accanimento della violenza selvaggia del terrorismo internazionale l'11 marzo 2004.
Bisogna ripeterlo: il terrorismo non ha alcuna giustificazione possibile, in nessun luogo e in nessuna circostanza. Di fronte a questa piaga c'è posto solo per la fermezza democratica e per la forza della legge. Per questo abbiamo aumentato le risorse umane e materiali per la lotta contro il terrorismo internazionale. Per questo abbiamo rafforzato il contingente militare in Afghanistan. Ed è anche per questo che abbiamo incrementato la cooperazione internazionale, dentro e fuori dell'Ue, nel settore delle forze di polizia, dei servizi d'intelligence e del potere giudiziario.
Ma il terrorismo va combattuto senza violare l'essenza stessa della democrazia, senza offendere i diritti e le libertà irrinunciabili, senza forzare la legalità internazionale, senza associarlo a delle comunità, a delle culture o a delle religioni determinate. L'uso della violenza e il terrorismo non sono patrimonio di alcuna comunità, cultura o religione, e da qui deriva la proposta che ho presentato davanti all'Assemblea dell'Onu di un'Alleanza di civiltà. È fondamentale chiudere il divario che s'è aperto tra Occidente e il mondo arabo e musulmano.
Dobbiamo studiare le cause di questa frattura e adottare delle misure per ricucirla. La risposta al terrorismo non può essere solo di tipo repressivo. Occorre bonificare le paludi dove questa peste cresce; prosciugare ogni brodo di coltura politico, economico, sociale o culturale che possa favorirlo. È per questo motivo che insistiamo nel multilateralismo, nella legalità internazionale, nel ruolo dell'Onu e nella solidarietà.
La Spagna sta aumentando il livello della sua cooperazione estera per raggiungere lo 0,5% del Pil al termine di questa legislatura. E mi sono impegnato a raggiungere quel simbolico 0,7% che il mondo in via di sviluppo sollecita. Assieme al Brasile, al Cile, alla Francia e al segretariato generale Onu, stiamo anche promuovendo l'Alleanza contro la fame.
"Zapatero, non ci deludere". La mia prima decisione come presidente del governo è stata di decidere il rientro delle truppe di stanza in Iraq. Lo aveva chiesto la grande maggioranza dei cittadini. Era un impegno preso in campagna elettorale che ho voluto onorare senza indugi. Non siamo stati d'accordo con la guerra, ma ciò non impedisce che siamo tra i più importanti contribuenti al processo di ricostruzione dell'Iraq. E non impedisce che io rispetti le decisioni che su questa materia hanno adottato i governi di altri paesi amici e alleati. E loro hanno saputo rispettare la posizione spagnola.
"Zapatero, non ci deludere". Le forze progressiste del secolo XXI devono ampliare i diritti dei cittadini; ciò deve essere uno dei primi segnali della nostra identità. In un anno appena, abbiamo rafforzato la tutela delle donne di fronte alla violenza machista, abbiamo reso più agile la legge sul divorzio e abbiamo riconosciuto il diritto al matrimonio delle coppie omosessuali.
Abbiamo anche aumentato il salario minimo e le pensioni e abbiamo moltiplicato il numero di borse di studio e di contributi per l'alloggio. E non considero progressista una smisurata spesa pubblica e neppure un deficit fuori controllo, credo nella sinistra della gestione virtuosa.
"Zapatero, non ci deludere". La parola spagnola talante è diventata un'etichetta del mio governo. Mi riempie d'orgoglio. Perché questo talante segna uno stile nel modo di governare. Talante è scommettere affinché il Parlamento riacquisti il suo ruolo centrale nella vita politica; è dare impulso allo spirito del dialogo e della negoziazione tra i partiti politici e le Comunità autonome d'una Spagna unita e pluralista.
Talante è, infine, garantire che i mezzi di comunicazione pubblici siano, per la prima volta nella storia della Spagna, indipendenti dal governo di turno e diretti da professionisti. Ho affidato a un comitato d'esperti l'incarico d'elaborare un insieme di proposte, che potrebbero essere poi convertite in legge.
Sta al popolo spagnolo trarre il bilancio della mia gestione alla guida del governo: penso che la nostra sia la strada giusta, ma non mi concederò un minuto d'autocompiacimento. E voglio che diventi un mandato cittadino quel grido della notte elettorale: "Zapatero, non ci deludere!".
L'autore è presidente del governo spagnolo
(traduzione di Guiomar Parada)
(22 aprile 2005)
http://www.repubblica.it/2005/d/sezioni/esteri/matrigay/zapate/zapate.html
venerdì 22 aprile 2005
Così abbiamo difeso i diritti dei cittadini
giovedì 21 aprile 2005
Spagna: primo Sì del Parlamento ai matrimoni gay
Madrid, 21 apr. (Adnkronos) - Con 183 voti a favore, 136 contrari e 6 astenuti, il Congresso spagnolo, la Camera bassa del Parlamento, ha approvato oggi in prima lettura una modifica del codice civile che autorizza i matrimoni gay.
Il disegno di legge, che passera' ora al Senato per poi ritornare alla Camera per la sua approvazione in via definitiva, introduce modifiche in 16 articoli del codice.
In particolare prevede la sostituzione delle parole 'marito' e moglie' con 'coniugi' e le parole 'padre e madre' con 'genitori'.
''Il matrimonio - si legge nel testo - avra' gli stessi requisiti e effetti nel caso in cui entrambi i contraenti siano dello stesso sesso o di sesso opposto''.
Tra i deputati contrari quelli del Partito Popolare, i nazionalisti del CiU e i baschi del Pnv.
Se per il presidente della 'Federazione lesbiche, gay e transessuali', Beatriz Gimeno, quello di oggi e' ''un giorno storico per tutti i cittadini che credono nell'uguaglianza, nella giustizia e nello stato di diritto'', per la Conferenza episcopale spagnola, la riforma ''introduce un pericoloso fattore di dissoluzione dell'istituzione familiare e con essa dell'ordine sociale''.
La questione ha gia' in passato creato tensioni tra Madrid e il Vaticano e arriva a due giorni dall'elezione a Papa del cardinale Joseph Ratzinger, al quale il premier socialista Jose Luis Rodriguez Zapatero aveva segnalato in un messaggio la sua disponibilita' a collaborare.
http://www.gaynews.it/view.php?ID=31842
Tramonto democristiano
di CURZIO MALTESE
Berlusconi ha scelto di morire democristiano. Pur di tirare a campare ancora per qualche mese, abbrancato alla poltrona, all'ultima e unica promessa mantenuta agli italiani: "Non vi libererete facilmente di me". Perché già la penultima, "non mi dimetterò mai", è andata a farsi benedire. L'uomo che solo lunedì non si sarebbe "mai piegato ai riti politicanti", nello spazio d'un mattino o due accetta di naufragare nel più grottesco dei voltafaccia, nel puro teatrino della politica, in antiche paludi che si chiamano dimissioni&rimpasto, rosa dei nomi, totoministri, verifica, orrido governo bis o balneare.
Stavolta è suo il ruggito del coniglio. Berlusconi e non Follini appare come il vecchio democristiano di ritorno. Più ancora che la vendetta della prima repubblica sulla seconda, questa è la comica finale del berlusconismo. Solo l'altro giorno il premier ha regalato ai suoi falchi l'ultimo gesto titanico, le dimissioni negate con tanto di minacce agli alleati, l'ennesimo salto nel cerchio di fuoco destinato all'applauso della corte dei vari Ferrara e Fede. Appena il tempo per il cambio scena e d'abito e Berlusconi da oggi è già lì a distribuire sorrisi, pacche, barzellette e ministeri ai nemici mortali dell'Udc. E allora a che cosa è servita la recita incendiaria? Soltanto a ingigantire la vittoria e la figura del nemico interno, Follini, e a ridurre a nani politici gli alleati più fedeli, Bossi e anche Fini.
La verità è che l'ultimo Berlusconi sbaglia tutte le mosse, almeno quanto le azzeccava il primo. È un contrappasso totale, quotidiano. La puntata di Ballarò del dopo elezioni era l'esatto contrappasso della discesa in campo del '93.
Il brontolio dimissionario con cui ieri al Senato Berlusconi ha stracciato il "contratto con gli italiani" è la risposta del tempo al radioso comizio d'insediamento nell'estate del 2001. Allora si celebrava l'inizio di un ipotetico ventennio ("governeremo per molte legislature"), ora se va bene si tratta d'arrivare al panettone. Da neothatcheriano a vecchio doroteo in soli 1400 giorni.
Fra le due immagini passa il clamoroso fallimento del berlusconismo. Non solo nei risultati concreti, deludenti oltre l'immaginabile, con il peggior stallo economico dal dopoguerra, il declino incombente, l'impoverimento dei ceti medi e le grandi opere ridotte a una villona padronale e semiabusiva in Sardegna. Ancora più definitivo è il fallimento ideologico, culturale, nel linguaggio e nella rappresentazione del Paese.
L'idea arrogante di poter guidare la politica e la nazione come un'azienda, l'altra di riuscire a manipolare all'infinito con le televisioni un'opinione pubblica infantile. Alla prima seria rivolta di un alleato o due, i più piccoli per giunta, il mantello d'invulnerabilità del berlusconismo è scivolato a terra e il capo si ritrova ora a inseguire un compromesso qualsiasi, arrangiandosi con le povere risorse dell'eterno trasformismo.
Il marasma finale è evidente perfino nel linguaggio, nelle parole e nei gesti del Berlusconi dimissionario. Lo show di 11 minuti durante il quale il premier ha alternato scuse di fatto a minacce virtuali, la tardiva ammissione di sconfitta e la sicumera delle future immancabili vittorie, una concreta retromarcia di fronte alle divisioni nella maggioranza e la chimerica fuga in avanti verso il partito unico della destra, l'ossequio formale al Quirinale e il disprezzo per la Costituzione. Un guazzabuglio da stato confusionale che le fide Rai e Mediaset, con pietoso servilismo, si sono ben guardate dal mandare in diretta. Lo show s'è chiuso poi nel paradosso d'una maggioranza che applaude con entusiasmo le dimissioni del suo premier mentre l'opposizione medita in silenzio.
Su queste basi di partenza c'è da domandarsi a che cosa serva prolungare l'agonia d'un anno con un Berlusconi bis.
Tutto lascia prevedere un anno orribile, gravido di vendette, dispetti, regolamenti di conti. Fallito l'ultimo, Berlusconi cercherà altri colpi di scena. Com'è nella sua natura, tornerà a fare la voce del padrone appena sarà caduta in prescrizione anche la minaccia del voto anticipato. I centristi possono rispondere con altre crisi e crisette. Già ieri hanno fatto una piccola prova generale facendo mancare la maggioranza a un decreto governativo.
Una specie di Vietnam parlamentare attende un'Italia già stremata e impaurita dalla crisi. Le elezioni anticipate rappresentavano almeno una soluzione decente, forse l'ultimo dei tanti treni persi dal paese nei dieci anni buttati per inseguire uno strano sogno.
(21 aprile 2005)
http://www.repubblica.it/2005/d/sezioni/politica/crisigoverno3/tramonto/tramonto.html
Le illusioni dello sconfitto
di MASSIMO GIANNINI
È finita. La parabola eroica del "leader vincitore", stavolta, si è chiusa senza altre sorprese. A Silvio Berlusconi, che ieri si è dimesso dopo 1.409 giorni di "regno democratico", va reso almeno un merito: ha svestito i panni del "monarca" in tono minore e dimesso. E dunque, per un autocrate mediatico cresciuto nel culto della personalità, in modo "quasi" responsabile. Lui, che aveva forgiato la sua immagine sul mito della legittimazione popolare e populista piuttosto che sulla mediazione politica e politicante, si è sottoposto a tutte le "stazioni" imposte dalla via crucis istituzionale che regola da mezzo secolo le crisi di governo di questo Paese.
Basterebbe già questo, a sancire la fine di un ciclo. Ieri, prima al Senato e poi al Quirinale, abbiamo assistito alla definitiva de-sacralizzazione dell'unto del Signore. Il Cavaliere "è sceso dal piedistallo", come ha detto con qualche malcelata soddisfazione uno dei suoi forse ex-alleati. Berlusconi non è più il padre-padrone della Casa delle Libertà. Se tutto va bene, sarà ancora giusto per un anno il presidente del Consiglio di un governicchio quadri-partito. Tenuto insieme solo dal gioco dei ricatti incrociati, e dalla mutua impossibilità delle singole forze che lo compongono di andarsene ciascuna per proprio conto. Ma da ieri, e a dispetto di tutte le convinte asserzioni formulate dal premier nell'aula di Palazzo Madama, il vincolo che ha retto il centrodestra in questi anni si è sciolto. Il Cavaliere riuscirà pure a rimettere in piedi un Berlusconi-bis.
Tenterà pure di far credere, attraverso un rimescolamento di poltrone ministeriali, che l'asse Forza Italia-Lega sarà riequilibrato a vantaggio del fronte An-Udc. Proverà pure a dimostrare, attraverso qualche altra trovata propagandistica, che un nuovo programma politico è ancora possibile, e che un altro miracolo economico per le famiglie, le imprese e il Sud è ancora probabile.
Ma sarà pura inerzia "resistenziale". Farà male allo stesso premier, che senza più un euro di tasse da restituire si esporrà al lento declino del suo strampalato modello di Berlusconomics. Farà male ai suoi alleati, che continueranno a litigarsi le spoglie di un'alleanza in calo progressivo di appeal elettorale. Farà male all'Italia, che con un deficit pubblico lanciato al 4,6% del Pil e una crescita inchiodata all'1% avrebbe bisogno nel frattempo di un vero elettrochoc per rimettersi in piedi. A questo punto le elezioni anticipate sarebbero la soluzione più equa e conveniente. Ma anche se nulla si può escludere, nessuno sembra disposto a rischiarle.
Il centrodestra consuma se stesso e il Paese in una doppia "condanna". È condannato a tenersi ancora per un anno questo leader: non ne ha altri capaci e coraggiosi al punto di accettare la sfida per il comando. È condannato a stare insieme chissà ancora per quanto: in base a una simulazione di Roberto D'Alimonte sulle politiche del 2001, nel maggioritario la Cdl senza la Lega perderebbe 52 seggi, senza l'Udc ne perderebbe 49, senza An ne perderebbe 159.
Come ha scritto mestamente ma lucidamente Giuliano Ferrara: "Non so come finirà, ma so che è finita".
Eppure, anche nella fine malinconica e quasi burocratica di ieri al Senato, Berlusconi ha trovato il modo per azzardare l'ultima forzatura. Da un lato, finalmente ha riconosciuto che la "coalizione attraversa una fase di difficoltà", e che la crisi di governo si innesca sul "segnale di disagio" trasmesso dagli elettori con il voto regionale. Meglio tardi che mai, per scoprire i fallimenti del progetto politico berlusconiano. Dall'altro lato, sorprendentemente ha collegato la crisi di governo non a quelle "difficoltà" a quei "segnali di disagio", ma ha detto sono "costretto a dimettermi da questa Costituzione". Non è mai troppo tardi, per verificare i fermenti della vena antipolitica berlusconiana.
Con il solito gioco di specchi, il Cavaliere confonde il suo mondo virtuale con la realtà fattuale. Scarica sulle regole, cioè sul sistema costituzionale, le tensioni tra i partiti, cioè l'assetto coalizionale. "Nei paesi europei dove il sistema istituzionale lo consente - dice - il presidente eletto dal popolo adegua la squadra di governo ogni volta che se ne presenta la necessità, con la sua diretta responsabilità, senza dunque le estenuanti crisi politiche e i passaggi parlamentari... In Italia, invece, per conseguire questo risultato la Costituzione richiede una serie di passaggi formali, a partire dalle dimissioni del governo. La riforma costituzionale di questa maggioranza adeguerà il nostro sistema di governo alle moderne democrazie. Ma ora, dovendo dar vita al nuovo governo, non mi posso sottrarre al passaggio attraverso una formale crisi di governo...".
In queste parole è racchiusa tutta l'anomalia della psico-politica berlusconiana. La possibilità che gli alleati-vassalli non siano d'accordo con il capo supremo non è contemplata. L'ipotesi che gli elettori-sudditi non apprezzino le scelte del sovrano assoluto non è prevista. Se qualcosa non funziona, se l'esercizio della leadership genera conflitti e non carisma, se la pratica di governo produce disaffezione e non consenso, la colpa è sempre di un fattore "esterno". Nel '94, a costringerlo a gettare la spugna furono i "comunisti", che non lo lasciarono "lavorare". Nel 2005 è "questa Costituzione", che lo obbliga alle "estenuanti crisi politiche e ai passaggi parlamentari".
Siamo all'ultima, brutale svalorizzazione della Carta del 1948. È colpa della Costituzione, se dopo quattro anni di legislatura si è sciolto il fragile patto che legava gli inquilini della Casa delle Libertà? È colpa della Costituzione, se Bossi (senza il quale si perde al Nord) ricatta Berlusconi con la devolution, se Follini e Fini (senza i quali si perde al Centro-Sud) ricattano a loro volta Berlusconi sul programma e sulla squadra, e se lo stesso Berlusconi (senza il quale nessun centrodestra vince da nessuna parte) non ha più risorse politiche per pagare tutti questi riscatti? È colpa della Costituzione, se questa formidabile maggioranza che stravinse al voto del 2001 ha perso poi in sequenza ben cinque tornate elettorali consecutive? È colpa della Costituzione, se oggi un blocco sociale ancora in attesa di rappresentanza organica rescinde il "contratto con gli italiani", che ieri aveva sottoscritto come simbolo della modernizzazione pubblica e dell'arricchimento privato?
Il nostro sistema elettorale, l'esecrato Mattarellum, è un ibrido ancora imperfetto, che accresce i poteri di interdizione e di veto delle forze minori. Il nostro sistema istituzionale, e la forma di governo che vi è sottesa, meritano senz'altro qualche correzione, che rafforzi il peso e l'efficienza dell'esecutivo. Eppure l'ingegneria delle Costituzioni e delle coalizioni è solo uno strumento. Lo si può manipolare (o manomettere) quanto si vuole. Ma serve a poco, se non è al "servizio" di un disegno politico comune e condiviso. Il famoso "modello Westminster" sarebbe comunque inutile, se in Gran Bretagna non ci fossero stati due grandi leader come Margareth Thatcher e Tony Blair, che all'interno dei propri schieramenti alternativi e agli occhi dei rispettivi elettori hanno saputo incarnare un progetto riformatore forte, visibile e coeso.
Esattamente quello che è mancato e che ormai irrimediabilmente manca al centrodestra e al Cavaliere. Per questo Berlusconi commette oggi una palese mistificazione: per spiegare la rottura nella sua maggioranza, denuncia la presunta inadeguatezza dello "strumento" (la Costituzione) e nasconde l'imperizia di chi non l'ha saputo usare (la coalizione). Per questo Berlusconi non è credibile, e tradisce la sua endemica inclinazione alle super-semplificazioni demagogiche, e per certi aspetti anche pericolose: per ricercare in altro modo una rilegittimazione tardiva, si illude che cambiare la (nostra) Costituzione sia sufficiente a rifondare la (sua) coalizione.
Non è così. Non sarà così. Per quanto il Cavaliere si sforzi con altre invenzioni di marketing politico, dopo questa crisi il suo "palinsesto" è fallito. Come ha scritto il Censis, in un'indagine diffusa proprio ieri sulle ultime elezioni, "già dalle scorse europee si era registrato un evidente affanno della capacità di traino del leaderismo carismatico". Con le regionali, l'affanno è diventato collasso. E se la terapia è quella ascoltata ieri a Palazzo Madama, un altro anno di Berlusconi bis non salverà il centrodestra.
(21 aprile 2005)
http://www.repubblica.it/2005/d/sezioni/politica/crisigoverno3/illusioni/illusioni.html
mercoledì 20 aprile 2005
Un papato che fa chiarezza
Presa di posizione della Comunità cristiana di Base di Pinerolo guidata da Don Franco Barbero
La gerarchia cattolica, ancora una volta, è stata pienamente coerente con se stessa, con il suo potere, con la sua azienda ecclesiastica. Di questo dobbiamoprendere atto.
I cardinali non hanno eletto un uomo dai lineamenti incerti.
Hanno scelto il rappresentante più significativo dell'assoluta continuità con papa Wojtyla, un uomo che metterà tutte le sue energie in una direzione autoritaria, omofobica, sessuofobica, antidemocratica, accentratrice.
Finalmente c'é chiarezza! Il papato è contro la liberazione delle donne, dei gay e delle lesbiche, a favore dell'ipocrisia del celibato obbligatorio dei preti, contro la ricerca teologica, contro le seconde nozze.
Un papato che si inserisce nel solco trionfalista di Wojtyla aiuterà il popolo di Dio a ribellarsi contro questa tirannia.
Una grande speranza
Finalmente non c'é dubbio: la gerarchia non sta a destra dando l'illusione di guardare a sinistra.
Qui ci troviamo di fronte ad un papato incarnato da un uomo, Joseph Ratzinger, della destra più retriva. A ben pensarci, se il nostro cuore si fa attento al messaggio di Gesù, questa struttura ecclesiastica oppressiva può rappresentare l'opportunità di capire il vero ruolo della gerarchia.
Nutriamo una grande speranza. Occorre, a nostro avviso, imparare la libertà delle figlie e dei figli di Dio fuori dalle obbedienze sacrali. E' un'ora importante, un invito a deciderci; un'ora in cui l'obbedienza al Vangelo può tradursi in libertà, responsabilità, gioia, creatività.
Questo papa "buttafuori" farà il vuoto degli uomini e delle donne che hanno il gusto della libertà responsabile e attirerà quanti hanno la scelta o il "destino" dell'obbedienza.
Con enorme fiducia continuiamo il nostro cammino come tentativo di vivere sulle tracce di Gesù di Nazareth e non sarà lo squallore vaticano a toglierci la gioia di vivere e di credere. I padroni di questo mondo, politici o religiosi, non governano più i nostri cuori e non dirigono più le nostre vite.
La Comunità cristiana di base di Pinerolo (www.viottoli.it)
Pinerolo, 19 aprile 2005
http://www.gaynews.it/view.php?ID=31817
Ratzinger papa: ha vinto la Chiesa più retriva
Benedetto XVI è il campione di una chiesa medioevale
Con l’elezione di Benedetto XVI, cardinale Ratzinger ha vinto la Chiesa più retriva, contraria a qualsiasi apertura in materia di morale sessuale, assolutamente sorda rispetto all’evoluzione dei tempi e della società.
Una Chiesa, che vuole continuare ad avere un forte potere d’interdizione nei confronti dei partiti e delle scelte politiche.
Benedetto XVI, come Prefetto della Dottrina della Fede, si è distinto come il campione dell’ortodossia, della conservazione, esprimendo più volte nostalgie pre Conciliari. Il cardinale Ratzinger, ha in questi anni più volte offeso le persone gay, lesbiche e transessuali del mondo e, ha ridotto al silenzio qualsiasi voce, che all’interno della Chiesa, ha dissentito rispetto ad una visione medioevale della fede cattolica.
Come Arcigay attenderemo gli atti concreti del nuovo papa, che certamente con il suo passato non ci appare come il miglior interprete dell’originario messaggio d’amore di Gesù Cristo.
Aurelio Mancuso
Segretario nazionale Arcigay
Bologna, 19 aprile 2005
http://www.gaynews.it/view.php?ID=31809
martedì 19 aprile 2005
Missione compiuta
di Furio Colombo
Vi ricordate quando ci ammonivano: «Se continuate a parlar male di Berlusconi, resteremo all'opposizione per altri vent'anni»? Ricordate quando la parola "regime" detta con riferimento al controllo totale (scandaloso per il resto del mondo) di tutte le televisioni e all'intimidazione della stampa (attraverso decapitazioni clamorose) suscitava reazioni decisamente ostili anche fra coloro che era naturale immaginare amici e vicini e partecipi dell'unico grande impegno democratico di questo Paese, rimuovere Berlusconi con il voto, per far sciogliere come neve al sole tutto il suo mondo di clienti e dipendenti?
Ci ho ripensato leggendo l'articolo del premio Nobel americano per l'Economia John Stiglitz sulla prima pagina de la Repubblicadel 14 aprile. Stiglitz in quell'articolo è duro e inesorabile con Bush. Una delle cause più sprezzanti è questa: «Bush esprime preoccupazione per la concentrazione del settore dei media russi. Ma tace su quella dei mezzi di comunicazione in Italia». Denuncia questa cecità selettiva (fingere di non vedere il clamoroso caso Berlusconi) come una "ipocrisia imperdonabile".
Ma il caso Berlusconi è apparso imperdonabile, ovvero estraneo alla democrazia e unico nel mondo libero, al Parlamento Europeo, alle agenzie di sorveglianza delle Nazioni Unite, agli esperti e politologi americani, anche di destra, che in questi anni si sono occupati dell'Italia. E' diventato un caso nelle università del mondo, una barzelletta (per noi alquanto triste) per i vignettisti dei cinque continenti. E' stato l'esclusivo tema della grande stampa internazionale - tutta, senza eccezione - ma soprattutto dei grandi organi finanziari ogni volta che quella stampa si è occupata dell'Italia. E non di Fini, non di Follini, non degli adoratori di Forza Italia, ma esclusivamente di Silvio Berlusconi.
Esattamente come ha fatto l'Unitàin questi anni. Lo ha fatto subito, nel momento in cui si è capito che il rischio della democrazia italiana, privata di televisioni e intimidita gravemente nei giornali, era rappresentato da una sola persona in grado di controllare, imporre, comprare, vendere tutto, dicendo, negando, aprendo e concludendo da solo "grandi opere" e campagne elettorali, capace di raccontare senza smentita i suoi grandi "successi internazionali", mentre il prestigio del Paese precipitava nel vuoto e i debiti italiani diventavano enormi.
Ostacolare così tenacemente Berlusconi comporta molti rishi, come sanno Enzo Biagi, Ferruccio De Bortoli e altri direttori e giornalisti italiani, come sa la vasta schiera di condannati al silenzio fra i migliori colleghi della Rai. Avrà contato questo impegno senza sosta e senza interruzioni de l'Unità durante questi anni del regime mediatico, in cui c'è stata una serie di vittorie elettorali del centrosinistra che hanno progressivamente intaccato la inossidabilità del mito, del capo, del tycoon buono che avrebbe fatto piovere ricchezza sulle famiglie italiane, in cambio di un po' di silenzio, di conformismo, di "lasciatelo lavorare"? Avrà contato, nella straordinaria e quasi completa, sconfitta di Berlusconi alle elezioni regionali?
Sconfitta di Berlusconi, abbiamo detto (non dei presidenti delle diverse regioni strappate alla destra). Infatti Berlusconi in persona, la sera della morte del Papa, aveva sequestrato, tutta per sé, tutta da solo la principale rete della televisione pubblica del Paese, e aveva lanciato la sua sfilza di numeri inesistenti nello studio vuoto. Ma ci sembra arbitrario un reclamo di credito. Nelle elezioni ha vinto chi ha vinto: una opposizione unita e ben guidata, le scelte giuste dei candidati, le campagne elettorali condotte con generosità e con fermezza.
Ma poiché tutto ciò che abbiamo detto e scritto per quattro anni su questo giornale era basato sulla persuasione (condivisa con la stampa libera del mondo) che esistesse un solo grande problema per l'Italia, il potere troppo grande, troppo arbitrario, troppo circondato di silenzio, di Silvio Berlusconi, ci fa piacere il riconoscimento che adesso ci giunge dai grandi sostenitori mediatici del presidente del Consiglio ormai avviato sul viale del tramonto.
Ci dice che avevamo visto giusto, politicamente, avevamo capito bene la macchina organizzativa di quella presunta modernizzazione che erano Forza Italia e i suoi alleati. Ci dice che avevamo combattuto la battaglia che bisognava combattere. Quella contro il predominio e la prepotenza di un uomo solo, che era riuscito a imporre celebrazione o silenzio. Inutile occuparsi d'altro o di altri, c'eravamo detti, perché, senza di lui, a destra non c'è niente, niente resta di cui valga la pena di occuparsi. E d'altra parte niente avrebbe potuto esistere di questa strana politica definita - a richiesta del suo unico autore Berlusconi - il "nuovo" e che invece è antico, fondato sul danaro, sul potere personale, sulla perentoria richiesta di partecipare al gioco così come esso viene condotto, pena l'esclusione dalla vita pubblica.
Ma ecco il vero e proprio diploma di idoneità politica. Viene rilasciato a questo giornale da Angelo Panebianco nel suo ormai celebre editoriale sul Corriere della Sera del 10 aprile. Quell'editoriale è un appello a Berlusconi perché accetti subito di rendersi conto del disastro e chieda le elezioni anticipate. Il senso è: se Berlusconi non accettasse l'evidenza della sconfitta cercando nuove elezioni, «Berlusconi diventerebbe un leader puramente nominale. Sia l'Italia che conta sia la comunità internazionale guarderebbero a Berlusconi come a un leader finito e a Romano Prodi come all'astro nascente».
La riflessione di Panebianco è chiara e indica il punto. Berlusconi è un leader finito. Ma il fatto interessante è che senza di lui, istantaneamente, evapora tutto. Tanto che, persino in questo momento di emergenza per la destra, nessuno pensa a fare altri nomi o a immaginare altri percorsi. O Berlusconi, o tutti a casa.
Tutto ciò viene detto con più chiarezza da un'altra fonte che ha sempre maltrattato l'Unità proprio con l'accusa di ossessione per Berlusconi. Ecco il testo della grande abiura del Riformista: «Quello che è venuto meno è il connotato stesso del bipolarismo italiano, fin dal suo inizio e senza soluzione di continuità incarnato in Berlusconi. Si è sciolto il collante che teneva insieme il Nord e il Sud del Paese, la partita Iva e gli statali, gli animal spirits e i vegetativi trasformismi. Il centrodestra italiano non è mai esistito in altra forma e mai senza Berlusconi. Il centrodestra italiano è così anomalo da dover scartare a priori ciò che in ogni altro Paese sarebbe la soluzione ovvia: cambiare il premier e ricominciare». Si può avere un riconoscimento più netto della decisione di dedicare quattro anni di vita giornalistica e di impegno politico allo scopo di scalzare quell'unico leader, la sua statua di resina sintetica e la sua glorificazione ottenuta esclusivamente con il controllo delle televisioni e dei giornali?
Non ci avevano detto che il "conflitto di interessi non interessa nessuno"? Non ci avevano ripetuto che l'Unità era una testata omicida e criminale e che il nostro insistere sulla ricchezza oscura, sul potere smisurato (economico, mediatico e politico, l'uno accresciuto con l'altro) e sul controllo totale della informazione era la strategia sbagliata che avrebbe rafforzato Berlusconi? Non ci avevano detto che monitorare costantemente il comportamento di continua aggressione che era il governare di Berlusconi era cattivo giornalismo politico? Ve la ricordate la "demonizzazione"? Nel Paese in cui la maggioranza berlusconiana ha votato un "giorno della caduta del Muro" (come se ci avessero liberato i ragazzi tedeschi col piccone, invece che i partigiani italiani e i soldati americani) dovrebbe esserci, nel nostro prossimo mondo libero, un "giorno della demonizzazione". Servirà per raccontare nelle scuole di Enzo Biagi, di Michele Santoro, di Luttazzi, della Guzzanti, e di tutti coloro che sono stati colpiti dall'accusa stregonesca di "demonizzazione" mentre erano intenti a fare giornalismo di opposizione, unico modo per salvare la democrazia di un Paese.
La sera dell'8 aprile la delicata sensibilità di Clemente Mimun ha fatto seguire al telegiornale di illustri funerali un Batti e ribatti in cui l'ospite celebrato era Sandro Bondi. Bondi ha usato tutti i suoi minuti per spiegare che, anche se il comunismo è morto, non è morto in Italia il pericolo della sinistra. Ovvero si è lamentato che esista ancora l'opposizione. Ma il conduttore del programma, un certo Berti, vestito - Dio sa perché - nel tipo di doppiopetto gessato che Francis Ford Coppola aveva immaginato per "Il Padrino", ha riportato persino Bondi al punto cruciale del dramma che la destra sta vivendo. Ha concluso infatti con queste storiche parole: «Alla fine tutto ruota intorno al prestigio di Silvio Berlusconi». Un vero riconoscimento per questi anni di lavoro de l'Unità.
Abbiamo scommesso tutto, e rischiato molto, per dire ogni giorno agli italiani che il prestigio di Berlusconi non esiste. E finalmente ci dicono con cruda chiarezza gli eventi di questi giorni e la processione di coloro che stanno abbandonando, a uno a uno, Palazzo Chigi, che niente più ruota intorno a Berlusconi perché si è visto che non c'è alcun prestigio. Non è delegittimazione. È constatazione della realtà, testimoni gli italiani. Missione compiuta.
Tratto da l'Unità del 16/04/2005
L'agonia di un'alleanza
di EZIO MAURO
L'uomo che ha resuscitato la destra italiana, portandola dal nulla al governo, oggi la tiene prigioniera del suo destino, che non è politico e tantomeno istituzionale, ma solo privato e personale. A quel destino di comando e di invulnerabilità, quasi di predestinazione, Berlusconi sta sacrificando tutto, scuotendo le colonne che reggono il tempio della Casa delle libertà.
La prova è un colpo di teatro che in realtà è un colpo di mano sulla strada che lo portava al Quirinale, dove Fini e Follini erano certi che si sarebbe dimesso, mantenendo la parola data agli alleati poche ore prima. Invece Silvio Berlusconi ha detto al Presidente della Repubblica che non intende dimettersi perché ha conservato la fiducia dell'Udc, pur avendo perso i suoi quattro ministri: dunque la sua maggioranza è numericamente intatta, anche se politicamente a pezzi.
Di fronte a questo quadro, Ciampi ha rinviato il premier alle Camere "senza indugio" per certificare se Berlusconi ha ancora un futuro, o se le urne sono la strada maestra per la fine di quell'avventura.
Formalmente, il premier può fingere di non sentire l'obbligo di dimettersi. Politicamente non può evitare di prendere atto che un intero partito si sfila dal suo governo, con Fini sempre più ridotto a far la foglia d'insalata, insapore, nel sandwich nordista Bossi-Berlusconi.
Invece di seguire la ragione che consigliava un Berlusconi-bis, il premier ha seguito ancora una volta l'istinto, truffando i suoi alleati ma soprattutto truffando se stesso con la finzione esoterica che esista ancora la Casa delle libertà e il suo leader. Va in scena, con più cupezza, un deja vu e oggi come nel '94 il Cavaliere dimostra di essere una formidabile macchina elettorale ma un pessimo uomo politico, perché sfascia la sua alleanza.
Avevamo avvertito che l'agonia politica del berlusconismo sarebbe stata terribile perché il Cavaliere non accetta le sconfitte e per evitarle è pronto a tutto, compreso il peggio. Oggi, in anticipo, siamo davanti a un concentrato di quel peggio. Con il premier che pur di durare un giorno in più si gioca il futuro dell'intera destra.
(19 aprile 2005)
http://www.repubblica.it/2005/d/sezioni/politica/crisigoverno2/agonia/agonia.html
lunedì 18 aprile 2005
Mobilitiamoci per i SÌ al referendum
Come movimento lgbt dobbiamo batterci affinchè vinca la laicità dello Stato sull'oscurantismo clericale
di Aurelio Mancuso
Il 12 e 13 giugno siamo chiamati ad esprimerci rispetto ai 4 quesiti referendari che intendono abrogare alcune parti della legge 40, sulla procreazione medicalmente assistita. Si tratta di una brutta legge che ha introdotto nell'ordinamento italiano mostruosità giuridiche severamente criticate da premi nobel, dalla comunità scientifica, da costituzionalisti.
Tralasciando gli aspetti tecnici e le buone ragioni per andare a votare, che ben sono illustrati dal Comitato per il Referendum (sul sito potete trovare un'ampia documentazione: www.comitatoreferendum.it), c'interessa qui richiamare le ragioni politiche per cui il movimento lgbt deve impegnarsi con tutte le sue forze affinché si raggiunga il quorum e si vinca questa nuova battaglia di libertà.
In gioco c'è la laicità dello Stato, più volte messa in discussione in questi decenni dagli ambienti più retrivi del cattolicesimo italiano (divorzio, aborto, ecc.), che non si rassegna al fatto che le democrazie devono assumere tutti quei provvedimenti che aiutino le persone a vivere meglio, secondo le proprie convinzioni, senza creare danno o obbligare altri a subirne le conseguenze.
Lo Stato laico deve tutelare la salute delle donne, consentire la ricerca scientifica, consentire alle madri e ai padri di poter scegliere le migliori terapie. Tutto ciò è impedito dalla legge 40 perché si sono introdotte norme figlie di una visione confessionale e proibizionista della società.
Come fu per il divorzio e l'aborto, le gerarchie cattoliche (oggi con il trucco dell'appello all'astensionismo, perché sanno che le loro posizioni sono minoritarie) tentano di dimostrare che lo Stato laico è inferiore allo Stato etico, che il pluralismo e il cosiddetto relativismo devono lasciare posto ad un'unica visione di verità. E' la Chiesa trionfante, interventista e con grande capacità d'interdizione verso la politica che deve dimostrare la propria forza.
I gay, le lesbiche, le/i trans italiani non possono avere tentennamenti: questo progetto teo con deve essere sconfitto, anche perché, in caso di non raggiungimento del quorum, diventerà difficile per chiunque vada al governo, promuovere una stagione di riforme libertarie e di civiltà. Insomma, come hanno ben evidenziato scienziati, operatori socio sanitari e politici, in un recente seminario interno dei DS del nord tenutosi a Milano (che ha visto una partecipazione straordinaria, al di là delle migliori previsioni): il futuro sociale del paese sarà segnato in modo inequivocabile dal risultato di questi referendum.
Per il movimento lgbt ci sono ragioni aggiuntive affinché quest'orrenda legge sia resa non applicabile. In primo luogo si tratta di una legge che all'articolo 5 si esprime contro la possibilità che coppie dello stesso sesso possano accedere alle tecniche di procreazione assistita, in secondo luogo se perderanno i referendum anche temi a noi cari saranno più difficili da affrontare.
Sull'articolo 5 (di cui non è chiesta l'abrogazione) possiamo dire che rappresenta una discriminazione aggiuntiva rispetto alle già numerose discriminazioni operate nel complesso dell'articolato. Si nega la genitorialità agli omosessuali, mentre, come tutti sanno questa è assolutamente diffusa, prova ne sono le reti di madri e padri omosessuali che da tempo operano in Italia. Il referendum radicale, fortemente sostenuto da Arcigay e Arcilesbica, abrogava tutta la legge, quindi, anche il famigerato articolo 5, purtroppo lo stesso è stato respinto dalla Corte Costituzionale, con motivazioni che riteniamo, per usare un eufemismo, fragili.
Ma ora ciò che è davvero importante è che si dia un chiaro segno rigetto di un provvedimento anti libertario, per questo come cittadini lgbt ci dobbiamo sentire impegnati più di altri, perché sappiamo che la vittoria dei Sì ci aiuterà a vincere altre battaglie: prima fra tutte il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali, il Pacs, ecc.
Per tutte queste ragioni, è importante partecipare al lavoro dei Comitati per il Referendum presenti sul territorio, organizzare iniziative e materiali rivolti alla comunità, invitare amici e parenti ad andare a votare.
http://www.gaynews.it/view.php?ID=31793
Nichi Vendola è come il divorzio
«E' a suo modo nel costume e nella psicologia di una regione meridionale una ripetizione del referendum sul divorzio»
DI PAOLO FRANCHI
Ha scritto Peppino Caldarola sul Riformista che la vittoria sul filo di lana di Nichi Vendola in Puglia (la più imprevista e imprevedibile di quelle del centrosinistra nelle elezioni del 3 aprile) «è a suo modo nel costume e nella psicologia di una regione meridionale una ripetizione del referendum sul divorzio». Perché già nella campagna elettorale sono saltate le barriere ideologiche e la discriminazione sessuale. E perché a cose fatte tutto un mondo composito e variegato (l'intellettuale come l'imprenditore come il giovane disoccupato) si è scoperto «più laico, più ambizioso, più politicizzato»: come succede solo quando comincia un'altra storia. Anche e soprattutto nel Mezzogiorno. Dove cose simili capitano. com'è noto, di rado.
Io spero che Caldarola abbia ragione. E che la vittoria del «radicale» Nichi per apparente paradosso sia, o possa diventare, una vittoria riformista. Perché il riformismo, per non esaurirsi in un «flatus vocis», deve essere anche, e forse soprattutto, capacità di entrare in relazione con un'idea di modernità più ricca e complessa di quanto dica un termine, modernizzazione, che non diviene meno vacuo solo per-ché tanti riformisti veri o presunti ne abusano.
Proprio per questo bisogna intendersi, quando si azzarda un paragone (affascinante) con la vittoria del No nel referendum abrogativo del-la legge sul divorzio (12 maggio 1974). Fu un trionfo, quello. E per molti, a sinistra, ancora più inaspettato, almeno in partenza, del successo di Vendola in Puglia. L'Italia e il Mezzo-giorno erano cambiati molto più in profondità di quanto le categorie tradizionali di cui disponevano potessero far prevedere. Anche allora la rottura si era manifestata su un terreno, quello del costume, dei rapporti tra i sessi, dei diritti. delle forme stesse della convivenza. che sin lì si era preferito arare con la massima discrezione: per antico moralismo, certo, ma soprattutto per non farsi inutili problemi con i cattolici e i «moderati». Che nella cultura politica della sinistra dell'epoca grosso modo coincidevano con la Dc. Pesò eccome, questa «in-comprensione», nei disastri cui andò incontro la sinistra nei decenni successivi. I tempi sono cambiati, si capisce: Puglia docet. Ma non sarebbe male rifletterci su.
http://www.gaynews.it/view.php?ID=31791
Istituzioni fatte a pezzi
di GIORGIO BOCCA
Le ultime frasi del Berlusconi sconfitto e tradito sono nello stile del Berlusconi vincente e arrogante: "Ma che volete? Vi manderò una cartolina dalle Bahamas". "Sono uno che ha un capitale di ventimila miliardi, che vogliono questi?...". Che l'uomo politico Berlusconi sia irrecuperabile al buon governo non vuol dire che sia fuori da ogni governo, vuol dire che con lui un buon governo è impensabile. Diceva l'altra sera in televisione il suo maggiordomo Bondi che Berlusconi era arrivato a Palazzo Chigi con due soli obiettivi: cambiare l'Italia con le riforme e pacificarla, farne un Paese unito.
Incauto maggiordomo a rimarcare in pubblico le due fondamentali ragioni della sconfitta del suo padrone. Berlusconi ha cambiato l'Italia mandando in pezzi quel po' di Stato moderno che c'era, si è accanito con le sue controriforme contro la pace sociale, contro la giustizia, contro la scuola, contro la finanza pubblica e ha diviso il Paese come non lo era più stato dagli anni della guerra civile, ha evocato il fantasma di un comunismo staliniano morto e stramorto, ha sdoganato i neofascisti e li ha riportati al potere, si è alleato con i secessionisti e soprattutto ha ingannato i cittadini con le false promesse.
Gli analisti della politica non sforzino i loro cervelli a cercare le ragioni della sua sconfitta: sono lì, visibili, grandi come delle montagne. A cominciare dalla legge obiettivo per le grandi opere, rimaste lettera morta, avviata solo per la propaganda, senza i finanziamenti necessari, con i debiti che si accumulano, una eredità spaventosa per i governi a venire sicché le elezioni anticipate più che una occasione di riscatto vengono pensate dalla gente che conserva il ben dell'intelletto come un amarissimo redde rationem. E fortuna che si è ancora in tempo a fermare gli impegni più demenziali come il ponte sullo Stretto di Messina.
Per mesi, per anni la gente ha subito la propaganda governativa come qualcosa di incomprensibile ma di sopportabile. Sapeva che il cavaliere sparava balle in continuazione ma pensava che proprio male non facevano. Qualcuno trovava persino simpatico il suo ottimismo. E perdurava la strana illusione che uno che aveva fatto tanti denari per sé ne avrebbe fatto anche per i concittadini. Adesso incominciano a capire che il benefattore milanese di fronte alle incertezze della politica fa cassa, vende la sua azienda.
Nella sua testa il capitale conta più di tutto, pur di salvarlo fa la figura di uno che si prepara a tagliare la corda, e i suoi più stretti collaboratori lo lodano "ha venduto al meglio". Complimenti! Il senso dello Stato nel governo di opportunisti che ha messo assieme non esiste, è una debolezza da democratici ingenui, da prima repubblica. Anche per questo i cittadini stanno voltandogli le spalle.
Nell'ora della sconfitta i suoi alleati risultano francamente incomprensibili. Che vogliono? Maggiore autonomia? Più potere? Ma che hanno fatto in questi anni per meritarselo? Raggiunti i loro ministeri e le auto blu, le vetrine televisive e le scorte sono diventati dei perfetti yes men.
Altro che turarsi il naso e votare, come consigliava Montanelli ai tempi della Dc! Hanno votato per anni a naso aperto tutte le leggi ad personam. Arrivavano all'informazione dei flebili sussurri: "Pare che a Fini la legge salva Previti non piaccia. Quelli dell'Udc sono infuriati per le nomine nella Rai. Bossi è pronto a dimettersi se non passa la devolution". Poi si arrivava al voto, si accendevano le lampadine dei sì e il gregge era compatto come sempre a far passare le prepotenze e le arroganze del padrone. Ora si susseguono i dibattiti sulla crisi con le solite dosi omeopatiche.
In maggioranza i rappresentanti del governo che fu in minoranza, volenterosi oppositori che neppure a vittoria ottenuta sembrano crederci e il concerto non sembra cambiato "non mi interrompa", "mi consenta di correggerla" e così via su aspetti insignificanti pur di sorvolare il disastro che sta davanti a tutti, con cui tutti nei prossimi mesi ed anni dovranno pure misurarsi.
Come è possibile che un governo moribondo, carico di debiti e con le casse vuote continui a promettere tagli delle tasse? Come è possibile che un timoniere alla guida di una barca sfondata continui a promettere la scoperta dell'America? Deciso a quanto pare a tener duro. Una antica voglia, per non dire una antica certezza circola per il Paese. Cosa faremo? Faremo come hanno già fatto i nostri padri e nonni, volteremo gabbana, come stanno voltandola nei partiti, nei ministeri, negli uffici pubblici, nell'informazione, nello spettacolo quelli che si adontavano se qualcuno parlava di un nuovo regime, di tendenze autoritarie. Ma questa volta, a casse vuote, cambiar padrone serve a poco. Forse la celebrazione del 25 aprile può avere quest'anno un unico senso, quello del '45: rimettere in piedi il Paese. Se siamo ancora in tempo.
(18 aprile 2005)
http://www.repubblica.it/2005/d/sezioni/politica/crisigoverno1/pezzi/pezzi.html