Ecco le parole di Giuliana Sgrena, ripresa dai suoi rapitori con uno sfondo bianco. La giornalista lancia il suo appello prima in italiano e poi in francese.
"Sono in Iraq dalla fine di gennaio, per testimoniare la situazione di questo popolo, che muore ogni giorno, migliaia di persone sono in prigione, bambini, vecchi, le donne sono violentate e la gente muore ovunque, per strada, non ha più niente da mangiare, non ha più elettricità, non ha acqua."
"Vi prego mettete fine all'occupazione, lo chiedo al governo italiano, lo chiedo al popolo italiano perché faccia pressione sul governo. Pierre aiutami, per piacere, fai vedere le foto dei bambini colpiti dalle cluster bomb, chiedo alla mia famiglia di aiutarmi, chiedo a tutti, a tutti quelli che hanno lottato con me contro la guerra, contro l'occupazione, vi prego, aiutatemi".
"Questo popolo non deve più soffrire, così, ritiratevi dall'Iraq, nessuno deve più venire in Iraq, perché tutti gli stranieri, tutti gli italiani qui sono considerati nemici, per favore fate qualcosa per me. "Pierre, aiutami tu, sei sempre stato con me in tutte le mie battaglie, ti prego aiutami a chiedere il ritiro delle truppe, fai vedere tutte le foto che ho fatto, questo popolo non vuole occupazione".
"Aiutami, aiutatemi, la mia vita dipende da voi, fate pressioni sul governo perché ritiri le truppe. Conto su di voi, potete aiutarmi. Bisogna mettere fine
all'occupazione, la situazione qui è intollerabile, i bambini muoiono, la gente muore di fame per strada, le donne vengono violentate, bisogna ritirare le truppe. "Pierre aiutami, fai vedere le foto che ho fatto dei bambini colpiti dalle cluster bombs, fai vedere quel che ho fatto per le donne. Nessuno dovrebbe venire in Iraq in questo momento, neanche i giornalisti, nessuno".
(16 febbraio 2005)
mercoledì 16 febbraio 2005
Il testo integrale dell'appello di Giuliana Sgrena
Svezia, la tv di Stato si fa lo spot: "Non siamo come Berlusconi"
Un filmato autoprodotto della Svt mostra l'immagine del premier insieme alle note di un mandolino
ROMA - Per farsi pubblicità, e sottolineare la sua indipendenza e obiettività, la televisione di stato svedese Svt usa l'immagine di Silvio Berlusconi. In un filmato breve, che va in onda in questi giorni e si può vedere anche sul sito dell'emittente, sfilano alcune riprese di Berlusconi che saluta la folla o che appare su decine di video contemporaneamente. Il sottofondo musicale è il mandolino tipico della peggiore iconografia dell'italietta, con le note ovvie di "O sole mio".
Ad accompagnare le immagini una serie di scritte: "In Italia, il 90 per cento dei mass media è in mano a Silvio Berlusconi", "Dopo intensiva campagna elettorale (grazie ai propri mezzi di comunicazione) vince le elezioni" ", "Ora è anche presidente del consiglio" e per finire: "Svt: noi siamo una televisione libera".
La televisione svedese non sottolinea solo la concentrazione dei mezzi di comunicazione in mano al presidente del consiglio, ma anche la qualità dei programmi. Le riprese di Berlusconi, che saluta sorridente, sono alternate a quelle di ballerine poco vestite nei varietà italiani.
(16 febbraio 2005)
http://www.repubblica.it/2005/b/sezioni/politica/tvsvezia/tvsvezia/tvsvezia.html
Ecco chi ha detto "mostro bavoso"
di Antonio Padellaro
Lunedì sera, ospite su Raiuno della trasmissione «Conferenza Stampa», Silvio Berlusconi ha accusato l'Unità di averlo definito un «mostro bavoso». Data la profonda gravità e volgarità dell'ingiuria abbiamo subito proceduto a una ricerca di archivio per verificare l'esattezza della citazione che se confermata ci avrebbe naturalmente imposto di rivolgere le più sentite scuse al presidente del Consiglio.
La ricerca ha effettivamente confermato che in data 7 dicembre 2004 la rubrica «Bananas» di Marco Travaglio aveva come titolo «Qua la mano mascalzone (non mostro, ndr) bavoso». Il testo, effettivamente, contiene una serie incredibile di insulti, offese, oltraggi, contumelie che sommati l'uno con l'altro determinano un'aggressione personale senza precedenti nei confronti di un leader politico. Si parla nell'ordine di «leader rottamato», «fior di mascalzone», «uomo dal passato cupo di ombre», «amico dei golpisti», «bavoso», «vergognoso», uno che «ha fatto a pezzi il Paese», «salame», «come chi in America latina adorava il mitra», «disastro», «medium da retrobottega», «capo di uno schieramento demenziale e violento» fatto di «poveracci» e da «squadristi da far valere alle manifestazioni», «canagliesco», «attrezzo per disperati», «figura indegna», uno che «è entrato in una cabina telefonica, si è tolto il liso panciotto, si è spolverato la forfora, si è spogliato ed è rimasto nel costume con mantellina con la grande "M" di Mascalzone». Solo che l'oggetto di tanto odio non è Silvio Berlusconi bensì Romano Prodi. Travaglio, infatti, si è limitato a riportare tutte le infamanti citazioni contenute nell'articolo pubblicato il giorno prima sul «Giornale» di proprietà della famiglia Berlusconi, a firma di Paolo Guzzanti, vicedirettore del quotidiano e senatore di Forza Italia.
Da notare che l'altra sera, su Raiuno, Berlusconi ha potuto diffamare l'Unità a colpi di citazioni false (attingendole dal dossier già distribuito alla stampa, che definisce questo giornale affetto da «sindrome nazicomunista») senza che la conduttrice Anna La Rosa e i quattro colleghi presenti, certamente a conoscenza delle farneticazioni prodotte dagli appositi uffici del premier, abbiano potuto obiettare alcunché. È veramente paradossale (per non dire altro) che il Berlusconi che si presenta in televisione con l'aria della vittima costretta a subire ingiurie e derisione è lo stesso Berlusconi che un giorno sì e l'altro pure insulta pm e giudici ("toghe rosse", "eversori", "golpisti", "comunisti", "fascisti", "come la banda della Uno Bianca", "criminali", "matti"),giornalisti e attori (Biagi, Santoro e Luttazzi "criminosi"), capi di Stato (Scalfaro "golpista e ribaltonista") e semplici cittadini ("faccia da stronza", alla signora di Rimini che lo invitava a tornare a casa).
A questo punto ci aspettiamo che Berlusconi renda, se ne è capace, le sue più sentite scuse a Romano Prodi, all'Unità e alla verità.
da l'Unità del 16/02/2005
martedì 15 febbraio 2005
Coppie di fatto: storia di una donna senza diritti
L’emblematica vicenda di Federica e Francesco: «Dovevamo sposarci nel 2004».
Dieci anni d’amore, una casa, un mutuo. Poi lui muore e ora l’appartamento va agli eredi di lui. Lei dovrà andarsene perché non c’è una legge che la tuteli.
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di Delia Vaccarello
ROMA «La mia vita è finita. Solo quando torno nella nostra casa mi sento protetta, perché c’è ancora lui. Ci siamo noi». Federica ha perso il suo amore il 21 maggio del 2004. Si chiamava Francesco. Andava sullo scooter al lavoro. È stato investito da un’auto ed è finito contro un palo della luce. Il Corriere Adriatico ha dato la notizia dicendo che Francesco Filippini lasciava la moglie Federica. Ma Federica non era ancora sua moglie. «La casa dove abitavamo l’avevamo acquistata con un mutuo che aveva messo a suo nome perché trattandosi di prima casa poteva detrarre gli interessi dalle tasse», dice Federica. Se succede qualcosa? La domanda, forse, deve avere attraversato la mente di entrambi, ma l’età giovane non ha creato la necessaria ansia.
E poi si sarebbero sposati presto. Dieci anni di unione di cui gli ultimi di convivenza erano una buona garanzia per una vita insieme felice. Se ci possono mai essere garanzie in amore. «Ci sposiamo nel 2004?». «Ma il 2004 è bisestile!». Federica ricorda i loro colloqui quando sentivano di avere il bene più prezioso il tempo che sostiene la spensieratezza. Decidono di finire di arredare la casa «così anche la taverna sarà a posto» - e di sposarsi con l’anno nuovo. L’amore c’è, e dunque si crede ci siano futuro e progetti. L’amore è rimasto. Ma uno dei due partner non c’è più. E la casa? Se ci fosse in Italia una legge che riconosce le coppie di fatto, Federica avrebbe diritto a restare. Ma la legge ancora non c’è. E non è lei l’erede.
Amori e dolori. Il loro legame è nato nel 1994. Nel giugno del 1997, Francesco e Federica prendono in affitto un piccolo alloggio, in via Firenze, a Senigallia, e vanno a vivere insieme. «Nostra madre era contraria alla coabitazione perché non si erano ancora sposati», dice Ludovica Marra, la sorella più grande di Federica. Il dolore però non li risparmia. «La mamma morì, dopo una malattia breve ma prostrante per tutta la famiglia, il primo novembre del 1997, e da allora Federica prese a vivere un po´ con il papà, per accudirlo ed alleviargli i dolori della vedovanza, un po´ con Francesco, che continuava ad essere l´incrollabile punto fermo della sua esistenza».
Nel 1999 Francesco si trasferisce in un´altra casa, sulla Statale Adriatica, in via Podesti. Federica abita ormai definitivamente con lui. Nel settembre del 2000 muore anche il padre di Federica, lasciando le figlie in una condizione non facile. L’altra sorella di Federica, Raffaella, ha contratto una grave malattia che richiede cure molto costose. Il padre delle tre donne muore lasciando dei debiti. Federica e Raffaella rinunciano all’eredità, Ludovica interviene. «Decido per motivi di onore di accollarmi i debiti di mio padre».
La casa di Senigallia. Federica e Francesco continuano ad amarsi, lottano contro questo destino avverso che colpisce negli affetti Federica e le sue sorelle, si sentono sempre più vicini. Nel 2001 acquistano un immobile a S. Angelo di Senigallia, dove vanno a vivere dal febbraio del 2002. L'appartamento è intestato a Francesco che contrae il mutuo e lo assicura. Entrambi hanno la residenza nella casa nuova dal mese di luglio del 2002. Per l’anagrafe sono un nucleo. Francesco è un giocatore professionista di pallavolo e lavora come operaio all’Api di Falconara. Federica lavora in un call center e fa la cartomante. «Per comprare casa e mobili abbiamo fatto un po’ di sacrifici, ma stavamo costruendo il nostro mondo. Ricordo un natale più “povero degli altri” e Francesco che mi sembrava rattristato. Ma poi fu preso da un moto di orgoglio e mi scrisse in una lettera: “tutto quello che faccio è per te”», ricorda Federica.
Passano due anni dall’acquisto della casa. Una mattina come le altre Francesco si prepara per andare al lavoro: la prima colazione insieme al cane adorato che pregusta la passeggiata mattutina, le risate, l’estate che sta per arrivare, le vacanze. Esce. Monta sullo scooter. Un’auto lo scaraventa contro un albero. Finisce tutto.
«Quando Francesco muore, il mutuo viene bloccato e pagato all´assicurazione, quindi la casa, oggi, è di proprietà degli eredi. Dei genitori e della sorella di Francesco», dice la sorella Ludovica. Federica ha la residenza nella casa dove ha convissuto con Francesco, ma per avere titolo a restare deve acquistare l’immobile. A nulla valgono i progetti, il contributo che deve aver dato, il fatto che quelle mura erano nate insieme alla coppia.
Vacatio legis. In Italia non c’è una legge che riconosce un diritto conseguente alla convivenza. Questo vuoto è iniquo per le coppie etero che non si sposano o non fanno a tempo a sposarsi, lo è per le coppie gay che non possono neanche ricorrere alle nozze. «Io potrei anche comperare la casa che è stata acquistata 250 milioni. Quanto varrà oggi? Ma non ho soldi. L’assicurazione dell’auto che ha investito il mio Francesco dovrebbe riconoscermi un danno morale. Avrò solo questo. Rispetto agli eredi per la legge attuale io sono un’acquirente come tante. Una di quelle persone che rispondono a un annuncio perché cercano casa. Io non la cerco, questa è la casa del nostro amore. Non c’è altra casa per me. Prego il Signore di potere restare. Spero che la volontà di Francesco di vivere qui con me non sia morta insieme a lui».
http://www.gaynews.it/view.php?ID=30953