di Antonio Padellaro
L’altra sera, nell’accomiatarsi dal Tg5 Enrico Mentana ha detto che non gli piace fare la vittima e che il vittimismo gli fa venire l’orticaria. Una frase certamente da apprezzare, come regola generale di vita e come contributo all’autobiografia di un bravo professionista che ha ricevuto dal suo editore, Mediaset e quindi Berlusconi, tutto quanto si è meritato in tredici anni di direzione. Compreso l’incarico di direttore editoriale come premio di consolazione. In questa storia l’unica vera vittima ci sembra piuttosto il vasto pubblico del Tg5 che resta all’oscuro delle vere ragioni che hanno indotto Mediaset, e quindi Berlusconi, a sostituire un direttore con un altro, visto che al direttore sollevato non si possono rimproverare né i cattivi ascolti né un’improvvisa crisi di credibilità (anzi a Mentana, il giorno dopo, tutti esprimono la più ampia solidarietà cantandone le lodi). Poiché una chiara risposta sul perché non sia più il direttore del principale tg Mediaset difficilmente arriverà dal nuovo direttore editoriale di Mediaset, al vasto pubblico del Tg5 non resta che prendere in considerazione un’ipotesi. Non è che forse Mentana, come ha scritto Curzio Maltese su “Repubblica”, è stato allontanato perché «non era abbastanza servo nei confronti del padrone, anche se non ha quasi mai cancellato le notizie sgradite a Berlusconi, al massimo le ha un po’ nascoste»? Non è che forse, nel momento più critico del suo governo e guardando ad elezioni che non può più perdere Berlusconi ha avuto bisogno di trasformare il suo tg in uno strumento di battaglia politica, in un corpo contudente contro gli avversari. Fuochino? Fuocherello?
Chiediamo scusa ai lettori se ironizziamo su una vicenda molto seria, ma il fatto è che, in Italia, la dittatura sull’informazione è giunta a un livello tale che ormai non resta che prendere la cosa a ridere. Che altro se no, quando proprio il giorno dopo l’epurazione di Mentana, sulla copertina del settimanale “Panorama” un gigantesco Bruno Vespa sovrasta il titolo: «Ve la racconto io la Storia». Spottone celebrativo del nuovo libro del giornalista prediletto dal presidente del Consiglio, padrone di Mediaset nonché proprietario della Mondadori. Ovvero la casa editrice per i cui tipi scrive il novello Erodoto e che stampa “Panorama”, il settimanale diretto da Carlo Rossella che, guarda caso, sarà il nuovo direttore del Tg5 al posto di Mentana. Ma Bruno Vespa significa “Porta a Porta”, definita il terzo ramo del Parlamento perché, così si dice, se un uomo politico non viene invitato in quel salotto, non è nessuno.
Berlusconi. Vespa. Rossella. In quale nazione al mondo l’informazione viene dominata da una simile onnipotente corporation? E in quale democrazia chi si azzarda a notare questa, diciamo così, anomalia del sistema rischia un giudizio d’ignominia da parte del giornalismo cosiddetto indipendente? Sul “Corriere della sera”, per esempio, Aldo Grasso assai si compiace che Mentana abbia annunciato in diretta la sua cacciata, «pur senza gridare al regime». Che bizzarra osservazione. L’importante non è il licenziamento del «più bravo» direttore di tg ma che costui, nell’atto di essere buttato fuori, non abbia pronunciato l’odiata parola. Grasso, però, non se la prende con i girotondi, e questo è già un progresso.
Non esiste paese al mondo dove il potere (politico, finanziario, religioso) non cerchi, continuamente, di superare il confine con l’informazione: quella sottile linea rossa che garantisce, appunto, la separazione dei poteri e le libertà dei cittadini. Nei regimi autoritari, dove vince il più forte, lo sconfinamento è permanente. Nelle democrazie, l’invasione di campo può essere contenuta se c’è una legge a tutela dell’interesse comune e un giornalismo geloso della propria autonomia. In Italia questa legge ci sarebbe ma qualcuno si sente di applicarla? Perfino la mite normativa sul conflitto d’interessi (agosto 2004) prescrive l’immediato intervento dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni se esiste il sospetto che le imprese che fanno capo al titolare di cariche di governo forniscano un sostegno privilegiato al medesimo titolare di cariche di governo. Il senatore Stefano Passigli (Ulivo) non ha dubbi in proposito. Mentana non ha forse dichiarato che la sua sostituzione è stata voluta dalla proprietà Mediaset in vista di grandi appuntamenti politici? E ciò non significa che Berlusconi vuole coprire il fallimento del proprio governo condizionando la libertà dei suoi stessi giornalisti per meglio manipolare le notizie che gli fanno comodo?
Quanto all’autonomia dell’informazione è come il coraggio di don Abbondio: non esiste legge al mondo che possa garantirla se non sono gli stessi giornalisti a pretenderne il rispetto. Oggi nelle direzioni dei giornali e dei tg comanda soprattutto la generazione dei cinquantenni. Molti vengono dal ‘68 o da esperienze in partiti di sinistra. Conoscono il cinismo della politica e spesso volentieri lo praticano. Bravi professionalmente sono, in genere, abituati a regolare le loro lancette sull’orologio del potere. Per alcuni di essi Berlusconi, con il suo governo, i suoi soldi, le sue televisioni ha rappresentato un richiamo irresistibile. Fanno gruppo. Si frequentano. Si scambiano le poltrone. Sono amici. L’altra sera Mentana ha dichiarato che da direttore editoriale Mediaset «vigilerà» sull’autonomia del Tg5 di Rossella. Bisognerà vedere chi vigilerà su Mentana.
Tratto da l'Unità del 13 novembre 2004
sabato 13 novembre 2004
La Corporation
venerdì 12 novembre 2004
Il telegiornale normalizzato
di CURZIO MALTESE
ROMA - È arrivato per primo anche l'ultima sera. Stavolta la notizia era lui, Enrico Mentana cacciato dal Tg5, il notiziario che aveva fondato e diretto per tredici anni. Una brutta notizia per l'informazione italiana, già molto malconcia. Un segnale di disperazione politica da parte di Berlusconi.
Stavolta non ci sono state finzioni. Il tono del messaggio di addio di Mentana era inequivocabile: "Venerdì i vertici dell'azienda mi hanno convocato per comunicarmi la decisione di cambiare direttore". È stato epurato per far posto a Carlo Rossella, reduce dalla berlusconizzazione forzata di Panorama.
Berlusconi voleva "levarsi dai piedi" il fondatore del Tg5 da almeno un anno.
Non ha mai mantenuto una promessa ma le minacce sì, tutte, dai tempi di Montanelli. Aspettava soltanto "un'occasione decente" che poi non è arrivata.
In fondo ormai l'indecenza è la normalità e "certe cose non si fanno sotto elezioni". Per la primavera del 2006 gli elettori avranno dimenticato la cacciata di Mentana come oggi non ricordano quasi più quelle di Biagi e Santoro.
Le epurazioni cominciano dai nemici e finiscono con gli amici, partono dai troppo liberi e si chiudono con i non abbastanza servi. Enrico Mentana non era abbastanza servo per i gusti del padrone, assai volgari in materia ma molto assecondati dalla corte giornalistica.
Il Tg5 ha sempre difeso gli interessi fondamentali del Cavaliere: la guerra alla giustizia, la difesa di Previti e Dell'Utri, il conflitto d'interessi.
Ma l'ha sempre fatto nel quadro di una decenza personale e professionale e di una grande tecnica televisiva. In Mentana alla fine è forte l'istinto del cronista.
Non ha quasi mai cancellato le notizie sgradite a Berlusconi, come fanno molti suoi zelanti colleghi, al massimo le ha un po' nascoste. L'effetto paradossale è che negli ultimi tempi una quota di pubblico di sinistra preferiva il telegiornale di Canale 5 a quella specie di filmato Luce del berlusconismo che è diventato il Tg1 di Mimun. Per anni la quantità minima e a uso personale di decenza esibita dal tg di Mentana è stata la foglia di fico del conflitto d'interessi. In qualche modo il Tg5 ha incarnato, con tutte le sue ambiguità, la finzione liberale del berlusconismo nascente, l'illusione che portasse "più libertà di scelta".
Oltre a costituire di fatto l'unica identità forte di Canale 5, rete ammiraglia del gruppo e quindi l'ideologia incarnata del gruppo. Ora s'è deciso che persino la foglia di fico non era più sopportabile per fronteggiare le urgenze pre-elettorali del Cavaliere. Nel tardo berlusconismo fatto regime perfino la parvenza del pluralismo, non parliamo della sostanza, è diventata intollerabile. Tanto più con i sondaggi in caduta libera e le promesse di tagli fiscali che slittano all'anno prossimo, per il quarto anno consecutivo. Rossella ha il compito di trasformare il Tg5 in un puro strumento di lotta e propaganda politica, come fece Vittorio Feltri quando accettò di scippare a Montannelli, suo "caro maestro", il giornale che aveva fondato. Il nuovo direttore è in grado di compiere la missione.
Si calcola, forse a torto, che gli spettatori rimarranno perché non hanno scelta. Se in Italia esistesse un libero mercato dell'informazione, domani Mentana verrebbe strappato a suon di milioni da un'altra rete televisiva e probabilmente replicherebbe altrove il successo del Tg5. Ma in Italia chi osa fare uno sgarbo al padrone unico?
La Rai è più governativa di Mediaset, la Sette è una specie di premio di consolazione per i cortigiani non adatti alla prima serata.
Sky News, che pure è proprietà dell'amico Murdoch, è in questi giorni oggetto di un pestaggio da parte della stampa berlusconiana e finirà per inchinarsi all'avvertimento dei bravi. Si parla già di editori spaventati e di un probabile allontanamento del direttore, accusato di essere "politicamente corretto". Non stupisce che nelle classifiche internazionali sulla libertà d'informazione l'Italia figuri nel gruppo dei Paesi africani, oltre il sessantesimo posto.
Il clamoroso licenziamento di Mentana conferma che se qualcuno in Italia sopravvaluta il peso delle televisioni non sono gli antiberlusconiani ma lo stesso Berlusconi.
È di queste ore la notizia che il premier avrebbe barattato l'ennesima e grottesca retromarcia sulle tasse con l'abrogazione della par condicio e la conferma del vertice monocolore alla Rai, vincendo i dubbi di Fini e Follini.
È convinto che gli italiani credano alla televisione più che alle loro tasche. Se il calcolo è sbagliato l'operazione Mentana si rivelerà un boomerang colossale e forse anche l'ultimo utile idiota pseudo liberale dovrà ammettere l'esistenza di un vero e proprio regime dell'informazione.
Se invece ha ragione Berlusconi, toccherà un giorno ricominciare dalle scuole dell'obbligo, una volta rimosse le macerie culturali e materiali di questa brutta avventura. In ogni caso dobbiamo prepararci ad assistere, da qui alla primavera del 2006, alle più squilibrate e irregolari campagne elettorali che si siano mai viste in una democrazia occidentale.
Tratto da La Repubblica del 12 Novembre 2004
L'INTERVISTA. Mentana: "Ho capito che stava per succedere quando il silenzio ha coperto l'opera dei manovratori"
"Dalle parti di Palazzo Chigi tanti volevano la mia testa"
di ANTONIO DIPOLLINA
ROMA - Prima l'annuncio in diretta alla nazione, poi il rientro in redazione dai suoi, accolto da un lunghissimo applauso ("Forse era di liberazione", scherza). Poi il crepitare delle telefonate, tra cui se ne distingue una, quella del successore designato e annunciato altrettanto in diretta, Carlo Rossella: toni concilianti, almeno sembra, la promessa reciproca di buona convivenza e buon lavoro. Ma intanto rimbombano polemiche già avviate, l'espressione di Enrico Mentana è quella di chi era pronto, ma non si può mai essere pronti del tutto.
Mentana, perché proprio ora?
"Veramente ci provavano da un sacco di tempo, in tanti. Quante volte ha letto la notizia che si è concretizzata oggi?".
Parecchie, in effetti. Ma allora?
"Ho un ritaglio da un sito internet di tre anni fa. Dice: Rossella al posto di Mentana e Calabrese a Panorama. Profetico? O a furia di gridare al lupo, si voleva rendere scontata una notizia allora poco credibile?".
Sì, ma ci hanno messi tre anni. Sono tanti.
"Era anche dura da far digerire, come ipotesi, anche perché il Tg5 è sempre andato a gonfie vele. Ho capito che stava per succedere quando le voci sono improvvisamente scomparse. A quel punto, era chiaro che c'eravamo vicini e che il silenzio copriva l'opera dei manovratori".
Quando hanno iniziato a farle offerte alternative?
"Diciamo negli ultimi sei mesi".
La proposta che le facevano era sempre quella di lasciare il Tg5?
"Sì. Ma era sempre presentata in senso distruttivo, e non mi stava bene. Questo meccanismo per cui venivo sollevato dall'incarico e intanto loro cercavano di riparare nello stesso istante, non mi andava, tutto qui. Era come se qualcuno ti rubasse il portafoglio e in cambio di offrisse un portamonete".
Come mai le è venuta in mente la metafora dei soldi?
"In molti, posso dirlo?, stronzi hanno messo in giro la voce che stessi trattando una superbuonuscita"
Ovviamente non era vero...
"Tanto poco vero che non ho chiesto niente, per poter lasciare il Tg a schiena dritta e senza bavaglio".
Scusi, si diceva che rifiutava quel genere di proposte. Adesso è stato sollevato dall'incarico, come ha detto in diretta, e poi promosso a direttore editoriale come ha annunciato Mediaset subito dopo. Cosa c'è di diverso rispetto a prima?
"Rispetto al passato c'è una proposta che riguarda la parte giornalistica. Prima mi offrivano altro, non mi interessava".
Ovvero, prima tentavano di togliersela dai piedi, ora no?
"Adesso c'è una proposta soddisfacente".
Direttore editoriale significa la vecchia ipotesi, ossia quella di creare un suo spazio settimanale di approfondimento?
"No, quello sarebbe un ghetto dorato, non mi interessa".
E allora direttore editoriale può significare solo un'altra cosa. Un signore che coordina, e comunque comanda sugli altri tg.
"Vediamo, vedremo. Ma il mio non è un compito di facciata, è invece un ruolo che voglio riempire di contenuti".
Appunto.
"Appunto".
Emilio Fede, alla notizia, potrebbe svenire. Anche per molto meno.
"So una cosa carina: aveva scommesso con una sua giornalista che mi sarei dimesso entro dopodomani. E' riuscito a incassare la buonuscita per me. Ma Fede non sarà un problema".
Diciamo che magari non sarà un problema nemmeno Giordano, il direttore di Studio Aperto. Chi rimane?
"Guardi, fino a domenica il direttore del Tg5 sono io. Vuole mica che litighi col mio successore prima ancora di passargli le consegne? E poi scusi, ma lei ha mai sentito di qualcuno che ha litigato con Rossella?"
Non faccia troppe battute. Spieghiamola.
"Non credo assolutamente che avrò problemi con i miei colleghi e tanto meno col mio successore. Ci conosciamo bene".
Ma, scusi se insisto, significa che lei controllerà Rossella?
"Significa che farò il direttore editoriale. Non sarò mica il primo al mondo".
Comunque non giriamo intorno alla questione principale. Ci sono già reazioni politiche furibonde, si parla di normalizzazione al Tg5 e dell'editore presidente del consiglio. Pochi giorni fa Paolo Guzzanti, deputato di FI, ha quasi richiamato alle armi l'informazione Mediaset, sostenendo che se si va avanti così si perdono le elezioni. Insomma, c'era un'esigenza politica superiore?
"Non siamo ipocriti. Certo che sì: andiamo per esclusione: ero troppo vecchio? Ragionando così si offenderebbe Rossella. Non facevo ascolto? Siamo stati per l'intera stagione fino ad oggi il programma più visto di tutta Mediaset. Anzi, Canale 5 l'abbiamo sorretta noi, alle 8, alle 13 e alle 20. Proseguiamo: Sono interista? Sì, ma anche Galliani è juventino...".
Si sta divertendo come un matto, eh?
"Non c'è male. E del resto, ha visto il Tg di questa sera? In mezzo a tanti drammi e tragedie vere non posso fare come le attrici del muto che si aggrappavano alle tende".
Più ci si pensa, però, più questa funzione di superdirettore su Rossella, Fede e Giordano sembra aprire scenari apocalittici.
"Parliamoci chiaro e seriamente. O davvero Mediaset vuole utilizzarmi come dice, per imprimere una svolta alla sua offerta informativa, oppure abbiamo scherzato. Per ora mi fido".
Scusi, quale svolta?
"Mi faccia dire: è o non è Mediaset che mi ha lasciato fare quel che volevo per tredici anni".
Proprio sempre? Sicuro?
"Sì. E la prova sta nel fatto che tanti dalle parti di Palazzo Chigi volessero la mia testa. Sono stato il primo a dire che mi hanno sollevato e che non me ne sono andato io dal Tg5, ma in queste ore sento urlare al regime da persone che già prima urlavano al regime di cui io facevo parte".
Sì, ma la svolta?
"Mediaset si è del tutto estraniata in questi ultimi anni da molti temi cruciali dell'informazione".
Esempio?
"Ha lasciato Vespa da solo, ha bucato mille avvenimenti. Domani è l'anniversario di Nassiriya, vede nei palinsesti Mediaset qualche trasmissione speciale?".
Stiamo tornando però alla questione dell'approfondimento. Non era un ghetto dorato?
"La questione non è che sia io a dover fare un programma su questo o su quell'argomento. Devo riuscire a far passare in tutta l'informazione Mediaset l'idea che non ci siano recinti da non oltrepassare".
Mettiamo che ci riesca. Riprenderanno a urlare e a chiedere la sua testa tutti quanti...
"E' un rischio che vale la pena correre. Sono stato fino ad oggi, a capo di un giornale libero. Mi faccia sbattere la testa contro un nuovo muro, poi magari le darò ragione".
Oltre a tutti quelli che si possono immaginare, a chi non piaceva il suo tg?
"Ai faziosi, da una parte e dall'altra. Ho avuto prove continue. Vuole un esempio: Paolo Guzzanti e sua figlia Sabina, faziosi da sponde opposte, che ce l'avevano e ce l'hanno con me. Li ho sempre messi d'accordo da questo punto di vista. Ho sempre pensato che il mio fosse un tg che riuniva le famiglie, ne ho riunita una in più...".
Ha un consiglio da dare al suo successore Carlo Rossella?
"Di essere indipendente. Diciamo così: Amicus Pelato, sed magis amica veritas".
Non era Plato?
"Pelato in questo caso va benissimo".
(12 novembre 2004)
http://www.repubblica.it/2004/k/sezioni/politica/mentana/esipoliti/esipoliti.html
giovedì 11 novembre 2004
Mentana cacciato dal Tg5. Berlusconi al suo posto sceglie Rossella
Il Tg5 di giovedì sera apre con un’esclusiva di Toni Capuozzo da Nassiriya. Subito dopo, a sorpresa, appare il direttore Enrico Mentana. Faccia scura e parole pesate: lascio il Tg5. E spiega com’è andata: venerdì i dirigenti di Mediaset l’hanno convocato e gli hanno comunicato che sarà sostituito da Carlo Rossella, attuale direttore di Panorama, uomo molto gradito a Berlusconi.
Il discorso di Mentana è formalmente molto pacato, ma duro nella sostanza. «Noi, in tredici anni, dice, non abbiamo mai servito questo o quell’uomo politico, questo o quell’imprenditore». In Mediaste c’è un uomo politico e un imprenditore al quale invece pace molto avere attorno persone che sanno dire di sì: Berlusconi.
«Veloce, formalmente molto curato, niente scenografie lussereggianti ed un logo essenziale giocato su due colori. informativamente un telegiornale che si batterà con gli altri senza alcun complesso di inferiorità». Erano queste le prime parole che Enrico Mentana utilizzò per presentare il Tg5, alle 13 del 13 gennaio 1992. Mentana era arrivato alla direzione del più importante tg del Biscione dopo undici anni passati in Rai.
Ancora prima Mentana aveva mosso i primi passi nella carta stampata come direttore di "Giovane sinistra", la rivista della Federazione giovanile socialista in cui ha militato fin dagli anni del liceo. Poi nel 1980 l'ingresso al Tg1 con esordio in video nel 1981, inviato a Londra per il matrimonio di Carlo e Diana. Da allora l'ascesa fu rapidissima: inviato, capo dei servizi della testata, vicedirettore del Tg2 e, infine, arrivo alla Fininvest per la sfida con il Tg5.
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=39068
Sei gay? Acqua in bocca: la dura vita omosex nell'era dei precari
Dopo il caso del collaboratore del vicepresidente del Senato Fisichella. Impossibile licenziare perché omosex. Ma in una situazione di precariato il pregiudizio ha la meglio
di Delia Vaccarello
ROMA - I lavoratori precari gay sono a rischio di discriminazioni? L’interrogativo si impone dopo il caso che ha visto un collaboratore del vicepresidente del Senato Fisichella allontanato dal posto di lavoro perché fotografato in un locale romano anche per gay. Facciamo un confronto con quanto succedeva 15 anni fa: il lavoratore omosex con contratto a tempo indeterminato poteva comunque difendersi.
Oggi, nell’era del lavoro precario, diventa un’impresa impossibile. «Nel ‘89 un giovane impiegato di banca, Massimo Mariotti, era stato fotografato con alcuni preservativi in mano a una manifestazione della Lila (Lega italiana lotta aids) ed era stato sospeso per 5 giorni dal lavoro per omosessualità manifesta. Si è rivolto alla Cgil ed è stato reintegrato. Ora è responsabile dello sportello Cgil del centro gay di Milano», racconta Maria Gigliola Toniollo, a capo dell’Ufficio Nuovi diritti Cgil, in prima fila da 15 anni sul fronte delle discriminazioni anti gay e trans. «Non esiste il reato di omosessualità manifesta e non è prevista la possibilità di licenziare qualcuno perché omosex. La sospensione di 5 giorni era illegale», aggiunge Toniollo. Cosa succede oggi? «L’arma discriminatoria è il mobbing, ma il lavoro precario ha cambiato molte cose. Un esempio: ti rivolgi a un’agenzia di collocamento interinale, la prima volta ti prendono, la seconda no. In questi casi non è possibile intervenire, non c’è un criterio che dà diritto alla convocazione del lavoratore».
Non lascia dubbi la vicenda di un giovane che lavorava in un megastore di computeristica, offrendo anche consulenza ai clienti. «Non faceva mistero del suo orientamento sessuale. La sera veniva sempre a prenderlo il suo compagno. Così, finito il primo round della collaborazione, non è stato più richiamato. Si è fatto avanti molte volte, non rendendosi conto, vista la qualità del lavoro che aveva svolto, del mancato rinnovo. Poi da commenti e battute ha avuto la conferma: non rinnovavano la collaborazione perché lui è gay», spiega Maria Gigliola Toniollo e aggiunge: «Senza contratto non c’è tutela, è quello che succede alla Camera dove spesso sono sottopagate le persone che lavorano per i parlamentari».
Come difendersi? Se si è in possesso di un contratto di lavoro a tempo indeterminato in una ditta con più di 15 dipendenti, dunque protetta dallo statuto dei lavoratori, sono possibili numerosi interventi. E nel settore pubblico? «Nel privato è determinante il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. Nel pubblico, laddove l’ingresso è legato a concorsi, c’è più tutela. Nel luogo pubblico può scattare il mobbing, ma è minore il rischio della perdita del posto di lavoro», continua Toniollo. Non a caso stanno sorgendo presso la Cgil tantissimi centri anti-mobbing.
Anche quando si è in presenza di un lavoro a tempo indeterminato, il dipendente si trova dinanzi a un bivio: denunciare il comportamento discriminatorio sulla base dell’orientamento sessuale significa automaticamente dirsi gay. E a volte si preferisce il silenzio. Ancora. «Ci sono casi di lesbiche e gay che noi fatichiamo ad aiutare perché il meccanismo del mobbing li porta a un punto tale di demotivazione da renderli la causa stessa della perdita del posto di lavoro», continua Toniollo. Il lavoratore isolato dai superiori e dai colleghi, privato di incarichi gratificanti, svalutato giorno dopo giorno, spesso si assenta, rende pochissimo, si autoisola. Perde terreno sul piano del diritto, getta la spugna.
Sul fronte delle tutele c’è una novità. La direttiva europea 78/2000 contro le discriminazioni sul lavoro ai danni di omosex e trans è stata recepita da un decreto governativo che non ha fatto sua «l’inversione dell’onere della prova». A differenza di quanto stabilito in sede Ue, il nostro governo ha sostenuto che è il lavoratore discriminato a dover esibire le prove della discriminazione di cui si dichiara vittima. Un’operazione difficilissima. Spesso, infatti, ci si potrebbe avvalere di testimonianze che i colleghi, però, resistono a fornire nel timore di ritorsioni.
«Un’attuazione assolutamente insoddisfacente», conclude Toniollo. I nuovi commissari europei dovranno controllare il buon recepimento della direttiva. La squadra di Barroso, composta anche da un esponente italiano e costretta a prendere atto della debolezza del decreto, avrà il compito di intervenire. Si profila un altro conflitto tra Ue e governo italiano?
tratto da l'Unità di giovedì 11 novembre 2004
E' morto Yasser Arafat
Sette vite vissute sognando lo Stato della Palestina
di Giancesare Flesca
Lasciando l'ultima delle sue sette vite così, in punta dei piedi e per di più in esilio, Yasser Arafat ha fatto ancora una volta la cosa giusta per il popolo palestinese. La sua presenza nella prigione della Muqata a Ramallah aveva negli ultimi anni rappresentato, che lui lo volesse o no, un ostacolo per ogni tentativo di pace con Israele. E soprattutto aveva impedito l'emergere di una nuova classe dirigente palestinese: finché il raìs era ancora vivo, l'unico vero capo era lui. Gli uomini del suo entourage non nascondevano il disagio per questa situazione, ma poco potevano fare. Per il suo popolo, anche per i palestinesi schierati con leader e organizzazioni diverse dalle sue, lui era un'icona della causa tanto potente che definirlo mr. Palestine, come facevano gli anglosassoni, appariva quasi inadeguato al ruolo quasi sacrale che in sessanta dei suoi settantacinque anni di vita era riuscito a conquistarsi fra la sua gente e fra la gente dei paesi arabi, compresi quelli i cui governi non lo amavano, anzi lo temevano e lo pagavano senza troppe chiacchiere per tenerlo il più possibile lontano.
Arafat, non dimentichiamolo, è stato l'unico leader laico capace di conquistare uno Stato per il suo popolo: non sembra giusto che se ne vada senza avere avuto il bene di vederlo nascere compiutamente. E tuttavia se lo Stato di Palestina nascerà davvero, questo si dovrà in parte al fatto che lui non ci sia più, che la sua bandiera sia stata ammainata per sempre. Nel 2002, di fronte all'inviato del Washington Post, aveva recitato compunto la sua preghiera: «Per favore, Signore Dio, lasciami l'onore di essere uno dei martiri per la santa Gerusalemme». Allah non lo ha accontentato. Ma è giusto che il suo popolo lo consideri comunque un martire della causa palestinese perché in effetti questo è sempre stato, nel bene come nel male.
Non è un caso se il suo arcinemico israeliano, Sharon, non vuole che venga sepolto a Gerusalemme. Durante una polemica di molti anni fa, a chi sosteneva che egli era nato il 24 agosto del 1929 al Cairo, lui replicava con estremo vigore di essere nato proprio quel giorno lì, ma a Gerusalemme. Tutto ciò aveva molto senso per lui perché durante tutta la sua vita ha gridato che Gerusalemme doveva essere la capitale dello Stato palestinese, magari una capitale in condominio con gli israeliani, ma comunque la capitale. «Chiunque rinuncia ad un solo metro di Gerusalemme non è né un arabo né un musulmano», aveva tuonato ancora nel 1993, aumentando l'irritazione di Sharon e di tanti israeliani nei suoi confronti.
Dove che sia nato, Arafat viene -questo è accertato- da una cospicua famiglia di commercianti di Gerusalemme. A quattro anni perde la madre, a 15 il padre lo manda a studiare nel cuore della cultura araba, cioè al Cairo. Nella capitale egiziana a quei tempi emergevano molti fermenti, da quelli panarabi che in seguito Gamal Abdel Nasser avrebbe predicato con successo, ma anche dal nascente integralismo religioso incarnato allora dai «Fratelli musulmani». Arafat assorbe tutto, ma il suo pensiero dominante va alla Palestina. Dopo la nascita di Israele nel 1948, la sua famiglia aveva dovuto trovare rifugio a Gaza. Lui studia ingegneria (riuscirà anche a laurearsi) ma quando nel 1956 scoppia la crisi di Suez fa parte con le brigate palestinesi dell'esercito egiziano, col grado di sottotenente. Nello stesso anno fonda al Fatah, l'organizzazione che resterà «sua» per i molti anni a venire, comincia a svolgere azione clandestina, gli egiziani, per niente grati dei suoi trascorsi militari, lo mettono in galera. Ci resta poco, poi si trasferisce in Kuwait, dove trova il fantasma dell'Olp, un'organizzazione nelle mani dei paesi arabi e di vecchi militanti ormai a riposo. Lui e altri capi palestinesi più radicali di lui come Mayef Hawatmeh e George Habbash partecipano alla guerra dei sei giorni. Quella guerra fu persa, ma la sconfitta permise ad Abu Ammar -così si chiamava allora Arafat- e agli altri duri di prendersi l'Olp. Così Arafat ne diventa presidente nel '69, una carica che manterrà continuamente nel corso degli anni, nonostante il fatto che le sue scelte siano state spesso contestate, anche vivacemente, da una parte dei suoi seguaci. Lo hanno rimproverato i politici più maturi per l'adesione al terrorismo che lo accomuna agli altri due «giovani leoni».
Dal ‘67 in poi sono anni brutti. Israele occupa la Cigiordania palestinese e la striscia di Gaza, lasciando intendere che mai restituirà quei territori. Il ricorso al mitra, ai sequestri, ai dirottamenti aerei sembra a molti palestinesi inevitabile. Probabilmente per non venire scavalcato dalla sua sinistra Abu Ammar si associa a quella politica, ma non la condivide fino in fondo. Il passato terrorista gli resterà comunque incollato addosso per tutta la vita, e vanamente lui cercherà di scrollarselo dalle spalle. Nel 1970 proclama ancora una volta al Washington Post: «L'obbiettivo della nostra lotta è la fine di Israele, e su questo non possono esserci compromessi». Questa linea gli lascia aperti i rapporti con i paesi arabi, che nel 1974 a Rabat definiscono l'Olp come «unico rappresentante del popolo palestinese» ma lo fa apparire sotto una luce sinistra in Occidente. Arafat lo sa benissimo e lavora per portare a piccoli passi la sua organizzazione lontano da una tale sciagurata deriva. Pochi gli credono ma alla fine lui otterrà dalla sua gente che la clausola statutaria dell'Olp che prevedeva come prima cosa l'eliminazione dello stato ebraico venga ritirata e sostituita da un implicito riconoscimento di Israele. Da lì spiccherà il volo per un negoziato duro che passerà da Madrid e da Oslo per approdare a Washington nel '94 quando stringerà la mano di Yitzhak Rabin e di Shimon Peres, accomunati nello stesso anno dal Nobel per la Pace.
Ma mentre a livello politico si svolgono negoziati e intrallazzi, Arafat assume in qualche modo l'immagine del pastore dei suoi connazionali. Durante il famoso settembre nero del 1970, quando re Hussein di Giordania decide di chiudere i conti con gli esuli palestinesi divenuti troppo ingombranti prendendoli a cannonate, Arafat è con loro, fugge da Amman vestito da donna. La dirigenza dell'Olp si trasferisce temporaneamente a Tunisi. Implacabili come sempre i caccia israeliani andranno a bombardare anche quegli edifici, nella speranza di colpire in primo luogo Arafat. Ma l'uomo ha veramente sette vite, sopravvive, si trasferisce con la sua gente in Libano, dove i profughi palestinesi mettono in crisi il precario equilibrio politico del paese e vengono ricompensati nel 1976 col massacro di Tel at Zatar dove i falangisti (il braccio militare dei cristiani maroniti), con la complicità dei falsi amici siriani e perfino del gruppo dissidente palestinese di As Saiqa, sparano senza ritegno sui profughi, donne e bambini compresi. Arafat scampa a questo massacro come era scampato nel '73 ad una bomba esplosa nel suo ufficio che uccise tre dei suoi principali collaboratori. Quando i palestinesi cominciano ad allargarsi troppo nel Libano (e Arafat non li dissuade, anzi) Ariel Sharon trova nel 1982 il giusto pretesto per scavalcare le frontiere libanesi arrivando fino a Beirut ed oltre e macchiandosi, ancora con la complicità dei falangisti, degli orrendi massacri di Sabra e Shatila. Ma Sharon cerca lui, l'uomo diventato per il vecchio generale un'idea fissa. Si racconta che il 30 agosto uno dei tiratori scelti israeliani riesca ad inquadrare Arafat nel suo mirino. Sharon, chissà poi perché, non dà l'ordine di fare fuoco.
Certamente Allah, pur non essendo Arafat uno scaccino, ha per lui una certa simpatia. Come si spiega altrimenti che due attentati contro di lui falliscano, poi gli succeda di cappottare in macchina sulla via di Bagdad uscendone senza un graffio, sia addirittura l'unico superstite di un incidente che carbonizza il suo aereo. E quando nel 1994 ritorna in Palestina come capo dell'Autorità Nazionale palestinese, la sua vita si fa sempre più difficile. Ai tradizionali avversari come Mayef Hawatmeh o George Habbash si aggiungono i gruppi dissidenti di Abu Nidal e Ahmed Jibril, entrambi finanziati dalla Siria che non vede di buon occhio la nascita di uno stato palestinese organizzato democraticamente ai suoi confini. Poi ci sono gli integralisti di Hamas, coi quali Arafat riesce però a mantenere aperto un canale di comunicazione, e gli altri gruppi jihadisti che si votano al martirio kamikaze. Abu Ammar da una parte li tira per la giacchetta, dall'altra sfrutta politicamente con gli israeliani il terrore che essi provocano e del quale, va detto, lui non è responsabile. Di altre cose sono responsabili lui in prima persona e tutto il suo entourage. I soldi che continuano ad arrivare come sempre dai regimi arabi sotto botta vengono amministrati in maniera clientelare, molti militanti diventano imprenditori e affaristi, il raìs lascia fare convinto che tutto questo non conti poi molto. E invece conta soprattutto a Gaza, dove Hamas, oltre che spedire kamikaze in Israele, intraprende tutto un lavoro di bonifica sociale e di solidarietà che riluce in contrasto con le miserie dei territori amministrati esclusivamente dall'Autorità Nazionale.
E poi non mancano gli errori politici più evidenti, come l'appoggio dato a Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo, il Desert storm, quando contro il tiranno di Baghdad sono schierati non solo gli Stati Uniti ma anche qualcuno fra gli interlocutori privilegiati della diplomazia di Arafat come la Comunità europea e molti stati moderati. Il presidente palestinese non è contento dell'iniziativa irachena di invadere il Kuwait, visto che la violazione della sovranità territoriale è proprio quello di cui i dirigenti palestinesi accusano da sempre Israele,in più sa di essere inviso a Saddam al quale si deve fra l'altro l'uccisione di Abu Iyad, uno dei suoi principali collaboratori. Ma su ogni ragionamento politico prevale in lui il vecchio capopopolo, i campi profughi palestinesi sono pieni di ritratti di Saddam Hussein, le «sue» masse stanno tutte con l'uomo di Baghdad e Arafat non riesce a tirarsi indietro. Tutto questo gli costerà in termini di credibilità e di autorevolezza, ma Allah gli vuole bene, l'errore viene dimenticato presto, soffocato dai clamori dell'Intifada che Arafat sponsorizza quasi in pieno.
Come a riscattare il suo errore, un anno dopo Desert storm sposa una palestinese cristiana, Suha Tawil, e ne fa nascere la figlia a Parigi, fra i brontolii degli ulema. Gli stessi brontolii che hanno accompagnato la sua decisione di curarsi all'ospedale di Percy, dove è morto lontano dalla sua Palestina. E dopo aver vissuto sette vite spera che almeno gli consentano di riposare per sempre in un fazzoletto di terra piccolo, quanto basta a venire coperto dalla sua kefiah, un simbolo che per più di mezzo secolo ha saputo portare sempre con dignità e perfino con una qualche ironìa.
http://www.unita.it/index.asp?topic_tipo=&topic_id=38947
W la sincerità...
Il ministro dell'Economia di Berlusconi chiarisce lo stato delle cose per il suo Capo: «Vi assicuro che le famiglie italiane non arrivano alla fine del mese e questa non è certo leggenda metropolitana».
Domenico Siniscalco, Giornata del Risparmio, 5 novembre
mercoledì 10 novembre 2004
Il testo della legge regionale toscana contro le discriminazioni
Norme contro le discriminazioni determinate dall'orientamento sessuale o dall'identità di genere
CAPO I
PRINCIPI GENERALI
Articolo 1
Finalità
1. La Regione Toscana adotta, in attuazione dell'art. 3 della Costituzione italiana, politiche finalizzate a consentire a ogni persona la libera espressione e manifestazione del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere, e promuove il superamento delle situazioni di discriminazione.
2. La Regione garantisce il diritto all'autodeterminazione di ogni persona in ordine al proprio orientamento sessuale e alla propria identità di genere.
3. La Regione garantisce l'accesso a parità di condizioni ai servizi sociali, sanitari, scolastici e di formazione professionale, senza alcuna discriminazione determinata dall'orientamento sessuale o identità di genere dell'utente.
CAPO II
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI FORMAZIONE
Sezione I
Disposizioni in materia di formazione professionale e politiche del lavoro
Articolo 2
Interventi in materia di formazione professionale e integrazione sociale
1. Il piano di indirizzo generale integrato di cui all'articolo 31, comma 3 della legge regionale 26 luglio 2002, n. 32 (Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro) favorisce l'inclusione sociale nel rispetto dell'orientamento sessuale o dell'identità di genere della persona.
Articolo 3
Uguaglianza di opportunità nell'accesso ai percorsi formativi e alle politiche del lavoro
1. La Regione e le Province garantiscono opportune misure di accompagnamento anche al fine di assicurare percorsi di formazione e di riqualificazione alle persone che hanno mutato identità di genere e uguale opportunità a quante risultino discriminate o esposte al rischio di esclusione sociale per motivi derivanti dall'orientamento sessuale o dalla identità di genere.
2. In coerenza con le strategie dell'Unione europea per lo sviluppo delle risorse umane, la Regione e le Province favoriscono l'accrescimento della cultura professionale correlata all'acquisizione positiva dell'orientamento sessuale e/o identità di genere di ciascuno.
3. I transessuali e i transgender sono destinatori di specifiche politiche regionali del lavoro, quali soggetti esposti al rischio di esclusione sociale di cui all'art. 21, comma2, lettera c) della l.r. 32/2002.
4. Ai sensi e per la definizione del paragrafo 6 di Social Accontability 8000 ( SA 8000 ), rientrano nella nozione di parte interessata le associazioni rappresentative dei diversi orientamenti sessuali e identità di genere che non abbiano fini di lucro. Ai soggetti di cui sopra, l'azienda certificata deve in ogni caso consentire lo svolgimento di verifiche di conformità delle condizioni di lavoro ai criteri di cui al paragrafo 5 di SA 8000. Anche su segnalazione motivata di una delle associazioni di cui al comma 1, la Commissione regionale permanente tripartita propone alle aziende le azioni correttive ed i rimedi opportuni.
Articolo 4
Compiti del sistema regionale per l'impiego
1. Il sistema regionale per l'impiego istituito dalla l. r. 32/2002 sostiene le politiche per l'inserimento lavorativo delle persone discriminate per motivi derivanti dall'orientamento sessuale o dalla identità di genere della persona,.
2. Il sistema regionale per l'impiego supporta gli utenti nell'individuazione e costruzione di percorsi di formazione e inserimento lavorativo che valorizzino le qualità individuali, anche indirizzando agli strumenti per la promozione e l'avvio di nuove imprese.
Sezione II
Disposizioni in materia di formazione del personale regionale
Articolo 5
Formazione del personale
1. La Regione promuove l'adozione di modalità linguistiche e comportamentali ispirate alla considerazione e rispetto per ogni orientamento sessuale e identità di genere e individua altresì l'adozione di tali modalità tra gli obiettivi delle attività di formazione del personale dei suoi uffici ed enti.
2. La Regione attiva iniziative specifiche ed emana direttive da inserire nella programmazione delle attività di cui al comma 1.
3. Gli organi regionali tengono conto dei principi di cui all'articolo 1 nella redazione di codici di comportamento dei propri dipendenti.
CAPO III
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI SANITÀ E ASSISTENZA
Articolo 6
Consenso informato ai trattamenti terapeutici
1. Ciascuno ha diritto di designare la persona a cui gli operatori sanitari devono riferirsi per riceverne il consenso a un determinato trattamento terapeutico, qualora l'interessato versi in condizione di incapacità naturale e il pericolo di un grave pregiudizio alla sua salute o alla sua integrità fisica giustifichi l'urgenza e indifferibilità della decisione.
2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica ai minori di anni 18.
3. Nel caso di ricovero ospedaliero in strutture pubbliche o private, è fatto obbligo agli operatori sanitari di verificare l'avvenuta manifestazione della dichiarazione di cui al comma 1, e di darvi attuazione.
4. La manifestazione di volontà di cui al comma 1 garantisce altresì alla persona designata di prestare assistenza al malato in ogni fase della degenza, nel rispetto delle modalità definite dal regolamento di cui al successivo articolo e con i regolamenti delle strutture di ricovero e cura.
5. La richiesta ad un trattamento sanitario che abbia ad oggetto la modificazione dell'orientamento sessuale e/o dell'identità di genere per persona maggiore degli anni diciotto deve provenire personalmente dall'interessato il quale deve preventivamente ricevere un'adeguata informazione in ordine allo scopo e natura dell'intervento, alle sue conseguenze ed ai suoi rischi.
Articolo 7
Modalità attuative
1. La Giunta regionale, con proprio regolamento, disciplina le modalità per rendere la dichiarazione di volontà di cui all'articolo 6, comma 1.
2. Il regolamento disciplina in particolare:
a) la forma della dichiarazione;
b) le procedure per l'acquisizione della dichiarazione da parte delle strutture sanitarie competenti;
c) le modalità attraverso le quali la persona che deve essere sottoposta a un determinato trattamento terapeutico, qualora non abbia reso la dichiarazione di cui al comma 1 nella forma e secondo le procedure di cui al presente comma può rendere una dichiarazione di volontà di contenuto ed effetti equivalenti, da registrare nella cartella clinica;
d) l'informazione agli utenti;
e) la costituzione e la gestione di una banca dati;
f) le garanzie a tutela della privacy degli utenti che intendano prestare la dichiarazione di cui all'art. 6, comma 1.
Articolo 8
Patologie invalidanti
1. La Regione Toscana garantisce il diritto di condurre un'esistenza libera e dignitosa a tutte le persone affette da patologie che comportino, anche in via temporanea, significative riduzioni dell'autosufficienza e necessità continuativa di prestazioni ospedaliere.
2. La Regione inserisce tra gli obiettivi della programmazione sanitaria:
a) la promozione di campagne di prevenzione specificamente orientate a categorie di cittadini sovraesposti all'insorgenza delle patologie di cui al comma 1;
b) l'attuazione di interventi per il mantenimento dell'autonomia e dell'autosufficienza residua, e per l'eventuale recupero degli esiti invalidanti;
c) la realizzazione di un sistema di servizi di assistenza domiciliare integrata e di spedalizzazione domiciliare.
Articolo 9
Compiti delle AUSL in materia di scelta dell'orientamento sessuale e della identità di genere
1. Le aziende unità sanitarie locali (AUSL) assicurano adeguati interventi di informazione, consulenza e sostegno per rimuovere gli ostacoli alla libertà di scelta della persona circa il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere.
2. Le AUSL e le altre amministrazioni pubbliche promuovono altresì il confronto culturale sulle tematiche familiari per favorire, senza pregiudizio delle diverse identità di orientamento sessuale, l'eguaglianza di opportunità di ogni genitore nell'assunzione di compiti di cura ed educazione dei propri figli nel rispetto dei superiori diritti dei minori.
Articolo 10
Finanziamento dei consultori e convenzionamento con associazioni private
1. La Regione promuove l'attivazione degli interventi di cui all'articolo 9 destinando appositi fondi del piano sanitario regionale.
2. Allo scopo di promuovere iniziative di particolare rilievo sociale sui temi della discriminazione e di istituire circuiti di informazione e di solidarietà tra gli utenti le AUSL possono stipulare convenzioni con le associazioni e i gruppi rappresentativi dei diversi orientamenti sessuali e identità di genere.
CAPO IV
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI COMITATO REGIONALE
PER LE COMUNICAZIONI
Articolo 11
Funzioni del Comitato regionale per le comunicazioni
1. Il Comitato regionale per le comunicazioni tiene conto dei principi di cui all'articolo 1 nell'esercizio delle funzioni proprie, attribuite dall'art. 29, della legge regionale 25 giugno 2002, n. 22 (Norme e interventi in materia di informazione e comunicazione. Disciplina del Comitato regionale per le comunicazioni).
Articolo 12
Monitoraggio
1. Il Comitato regionale per le comunicazioni, nell'ambito delle funzioni di monitoraggio di cui all'art. 29, comma 1, lettera a) numero 5) della l. r. 22/2002, effettua la rilevazione sui contenuti della programmazione televisiva e radiofonica regionale e locale eventualmente discriminatori rispetto alla pari dignità riconosciuta ai diversi orientamenti sessuali e identità di genere della persona,.
Articolo 13
Accesso
1. Il Comitato regionale per le comunicazioni, nell'ambito delle funzioni di disciplina dell'accesso radiofonico e televisivo regionale di cui all'art. 29, comma 1, lettera b) numero 1) della l. r. 22/2002 garantisce adeguati spazi di informazione ed espressione in ordine alla trattazione delle tematiche di cui alla presente legge.
CAPO V
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI TURISMO E ATTIVITÀ RICREATIVE
Articolo 14
Promozione turistica
1. La Regione e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze in materia turistica, favoriscono la domanda di eventi culturali e forme di intrattenimento aperte ai diversi stili di vita, così come caratterizzati, tra l'altro, dagli orientamenti sessuali degli utenti, , dalle condizioni personali, opinioni religiose, identità etniche.
Articolo 15
Divieto di discriminazione nella fruizione dei servizi turistici
1. Gli esercenti imprese e professioni turistiche e commerciali, non possono rifiutare le loro prestazioni, né erogarle a condizioni deteriori rispetto a quelle praticate alla generalità degli utenti, per motivi riconducibili all'orientamento sessuale e all'identità di genere.
2. Le funzioni di vigilanza e di controllo sulla osservanza del divieto di cui al comma 1 sono esercitate dai comuni, nell'ambito delle competenze attribuite dalla legge regionale 23 marzo 2000, n. 42 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo).
3. Chiunque contravvenga ai divieti di cui al comma 1 è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di 1000 euro a un massimo di 2000 euro.In caso di reiterazione della condotta illecita nei due anni successivi, all'autore della violazione si applica la sanzione della sospensione dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività o professione turistica, per un periodo di tre mesi.
Toscana: approvata la legge regionale contro discriminazioni sessuali
E' passata, con i voti favorevoli del centrosinistra e del Prc e con il voto contrario dell'Udc (An e Forza Italia non hanno partecipato al voto) la legge della Regione intitolata "Norme contro le discriminazioni determinate dall' orientamento sessuale o dall' identità di genere".
La nuova legge prevede fra l'altro specifiche politiche del lavoro per i transessuali e multe da 516 a 3mila euro per chi (negoziante o esercente) rifiuti di fornire le proprie prestazioni per una discriminazione di tipo sessuale. Si pone l'obiettivo di consentire a ciascuno "la libera espressione e manifestazione del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere" e di promuovere il superamento delle discriminazioni.
L'articolo 7 prevede che chiunque possa indicare chi deve decidere per lui in caso di malattia grave, e chiarisce che questo delegato può essere anche essere un convivente o il compagno.
Inoltre le associazioni rappresentative dei diversi orientamenti sessuali vengono autorizzate a verificare se le aziende che hanno ottenuto il certificato Sa 800, relativo alla responsabilità sociale, rispettano effettivamente gli standard etici. La legge favorisce infine l' offerta di eventi culturali "aperti ai diversi stili di vita".
Finale di Commedia
di Antonio Padellaro
Il governo viene battuto alla Camera sull’articolo 1 della legge Finanziaria. La maggioranza diventa un agglomerato di risentimenti dove tutti accusano tutti. Il vertice della Casa delle Libertà, convocato per concordare il nuovo ministro degli Esteri e la famosa riforma fiscale si trasforma in una riunione di emergenza per salvare il salvabile. Sommiamo i tre principali eventi della giornata politica e avremo un governo incapace perfino di governare se stesso. Non serve a nulla affermare che un qualsiasi altro governo, in una qualunque altra normale democrazia avrebbe, a questo punto, preso atto di una situazione insostenibile e dunque rassegnato le dimissioni. Sarebbe un atto di consapevolezza e di rispetto delle istituzioni che, tuttavia, non ci sarà per la semplice ragione che a tenere in piedi il governo Berlusconi, in tutte le sue componenti, non sono più le normali regole della politica bensì una sorta di primordiale istinto di sopravvivenza.
Ciò che è accaduto, negli ultimi mesi, a questa informe ammucchiata di ministri avrebbe affondato non uno ma tre governi.
Il superministro dell’Economia creativa Tremonti accusato per la bancarotta dei conti pubblici e licenziato su due piedi dal presidente del Consiglio. Un altro ministro, Buttiglione, designato a rappresentare l’Italia nella Commissione di Bruxelles ma rifiutato dal Parlamento europeo con un severo verdetto di incompatibilità. Il ministro Siniscalco, successore del ministro creativo, costretto ad ammettere che le famiglie italiane non ce la fanno più ad arrivare alla fine del mese, strangolate come sono dal costo della vita. Ogni volta si è detto che una cosa del genere non era mai accaduta immaginando chissà quali conseguenze me sarebbero derivate.
Ma ogni volta l’informe ammucchiata ha fatto finta di niente continuando a farsi tranquillamente gli affari suoi. Del resto, a parte l’opposizione, chi si azzardava a fiatare? Non certo la cosiddetta grande stampa, totalmente assorbita dal fondamentale dibattito sulle radici cristiane dell’Europa. Quanto al grande Tg unificato, chi poteva mai pretendere uno straccio di notizia, qualcosa che non fosse la solita velina letta, approvata e timbrata da Palazzo Chigi? Si voleva forse mettere sul lastrico le famiglie dei poveri direttori Rai e Mediaset? E se i precedenti erano questi si poteva forse pensare che la bocciatura, anche questa senza precedenti, dell’articolo 1 della legge Finanziaria avrebbe provocato un qualche sussulto di resipiscenza, un qualche scatto di dignità?
Infatti, la legge fondamentale dello Stato e dei conti pubblici, viene bocciata, incenerita, distrutta fin dal suo architrave e tutto va avanti come prima. I deputati della Cdl hanno cominciato a rinfacciarsi gli uni con gli altri la responsabilità dei larghi vuoti nell’aula di Montecitorio, ma questa non è una novità. Il Tg unificato tratta la cosa con lo stesso rilievo dedicato all’ondata di freddo sulla penisola, e anche qui niente di nuovo. Unico inconveniente, il rinvio dello scambio delle merci (Gianfranco Fini si prende la Farnesina e An accetta la riforma delle tasse) ma ci sarà, vedrete, tutto il tempo per mettersi d’accordo.
Bisogna essere degli illusi o degli inguaribili romantici per pensare che gente del genere possa ragionare con il senso di responsabilità di chi ha cuore il bene del paese. Un premier degno di questo nome, preso atto della crisi della propria maggioranza sarebbe, come minimo, salito al Quirinale per consultarsi con il capo dello Stato. Magari per poi dare vita a un nuovo governo, con un gabinetto rinnovato e un programma aggiornato e credibile. Poteva anche esserci un Berlusconi due che, tuttavia, non ci sarà per non correre il rischio, una volta sciolto il Berlusconi uno, che sia poi l’intera coalizione a dissolversi nel nulla. Una volta venuto meno qualsiasi altro collante politico, ideologico, programmatico, a tenere insieme Forza Italia, An, Lega e Udc resta esclusivamente la voglia di sopravvivenza e di potere. E pensare che nel centrosinistra c’è chi vorrebbe impostare un dialogo con questa roba qui. Un’idea davvero stravagante.
Tratto da l'Unità del 10/11/2004
martedì 9 novembre 2004
Giulianone alle crociate
Marco Travaglio sull'Unità di oggi ironizza sulla recente alleanza teo-con di Ferrara e Buttiglione:
È un vero peccato che, come dice Luttwak, negli Stati Uniti non si badi alla politica italiana («ininfluente, inesistente») e dunque non si leggano i giornali italiani né si faccia caso alle tv italiane: con tutte le paure che attanagliano il popolo americano, sarebbe un'occasione per qualche ora di sano svago.
Nel nostro mondo a parte, per esempio, c'è un presidente del Consiglio convinto che Bush abbia vinto le elezioni perché ha copiato da lui riducendo le tasse: neppure gli viene in mente che Bush le tasse le ha tagliate davvero, mentre lui le ha ridotte nei cartelloni pubblicitari e nei monologhi a Porta a Porta (ieri i tg annunciavano comicamente a reti unificate che «Berlusconi rilancia la riforma fiscale nel prossimo libro di Vespa»).
Ci sono pure eminenti leader dell'opposizione convinti che le elezioni le abbia perse Michael Moore e, per estensione, i girotondi. Poi c'è Giuliano Ferrara, che è un mondo a parte nel mondo a parte: lui è convinto di aver vinto le elezioni americane in Italia.
Chi volesse meglio comprendere le evoluzioni e le reincarnazioni di questo bizzarro personaggio non ha che da leggere «L'arcitaliano» (Kaos), biografia non autorizzata e molto informata scritta da Pino Nicotri su questo eterno raccomandato, sempre dalla parte del più forte e del più prepotente, dalla Russia di Stalin alle ginocchia di Togliatti, dagli stivali di Craxi alle buste della Cia, dai tacchi di Berlusconi alla valigetta di Calisto Tanzi.
Mancava un solo coté alla sua peripatetica esistenza: quello clericale. Lacuna prontamente colmata nell'ultimo mese, con la recente folgorazione dovuta a un evento soprannaturale davvero irresistibile: gli è apparso Rocco Buttiglione di bianco vestito e gli ha affidato una missione di alta spiritualità: diffondere il Verbo di Bush in tutt'Italia, isole comprese, da Arcore a Gallipoli.
Il Platinette Barbuto s'è subito convertito, pescando alla rinfusa nel Concilio di Trento, nel Sillabo, nell'opera omnia di Torquemada, Oriana Fallaci e Brancaleone alle crociate. E trasformando il Foglio nella bibbia-bignami di una nuova religione: l'ateoclericalismo. Una strana setta popolata di miscredenti dichiarati (ci sono anche Pera, Galli della Loggia, Ostellino, Panebianco, Rossella e Adornato) che curiosamente si battono per le «radici cristiane dell'Europa», dopo aver passato anni a combattere il comunismo appena morto. Ieri anticomunisti senza comunismo, oggi religiosi senza Dio.
A bordo di Ferrara, è già partita la prima crociata: contro quel «manipolo di girotondini» che «tiene in ostaggio il Parlamento europeo» (i celebri «culattoni» di cui parla un altro prestigioso socio onorario del club). Insomma contro il complotto demoplutomassonico che avrebbe le sue punte di lancia in Michael Moore, Pedro Almodovar e addirittura Franco Frattini.
Secondo Ferrara, infatti, il nuovo commissario europeo, colpevole soltanto di aver sostituito l'amato Rocco, «si è formato in ambienti massonici». Dunque, al rogo (anche Berlusconi era iscritto a una loggia massonica, tale P2, ma paga bene e lo si lascia in pace).
Per spiegare la differenza fra De Gasperi e Andreotti, Montanelli diceva: «Il primo parla con Dio, il secondo parla col prete». Ecco: Ferrara non parla nè con Dio nè col prete; parla con Buttiglione. Che poi è l'unico che gli risponde. Strana liaison, la loro. Nel '95, quando il fratacchione di Gallipoli approdò al Polo, il Platinette Barbuto lo fulminò: «L'onorevole Buttiglione ci ha portato il voto suo e quelli dei suoi parenti stretti».
Ora che i voti di Buttiglione si sono ulteriormente ridotti dopo il figurone europeo, Ferrara l'ha eletto a sacerdote del bushismo all'italiana. Trascurando una lievissima differenza. Bush ha dalla sua qualche decina di milioni di voti, di cui 4 solo dalla setta degli evangelici, lobby potentissime, i petrolieri al completo, la famiglia saudita, le multinazionali delle armi, miliardi a palate.
Ferrara ha 8 mila lettori scarsi, che corrispondono più o meno agli elettori di Buttiglione; più gli «ascoltatori di Radio Maria che - come informa Libero - lo vedono come l'unico possibile Bush italiano»; più i due o tre lettori di una rivista clandestina diretta da tal Luigi Amicone, il ciellino di belle speranze (peraltro irrealizzate) che sabato ha «moderato» la prima uscita della strana coppia in un teatro di Milano, aperta con un inno religioso e chiusa con un'invocazione dell'incolpevole Spirito Santo.
Ora questi tre noti frequentatori di se stessi si son messi in testa di fondare un nuovo movimento politico, spiritosamente battezzato «La società dei liberi». Che, per una sigla inventata da un signore che prendeva soldi fuoribusta dalla Cia e poi dal cavalier Tanzi, non è niente male.
Ma le rimanenze dei fondi neri ormai scarseggiano. Così l'altro giorno, seminascosto fra le lettere del Foglio, è comparso il conto corrente per le eventuali offerte: «Presso Banca di Roma - Agenzia 5 di Milano. Il numero è cc 65522039. Abi 3002». Causale del versamento: «La Società dei Liberi». Banconote di piccolo taglio, possibilmente non segnate. Astenersi demoplutomassonculattoni.
http://www.gaynews.it/view.php?ID=29820
Firefox 1.0 è qui ...e il web non sarà più lo stesso
· Cos'è Firefox?
Firefox è un browser alternativo per navigare su internet.
Per capire al meglio cos'è e come funziona vi consigliamo di provarlo voi stessi.
· Perché usare Firefox?
Firefox è open-source e gratuito. Offre maggiore sicurezza agli utenti rispetto ad Internet Explorer, il browser predefinito sui sistemi Windows™, oltre che un numero superiore di funzioni ed una più alta possibilità di personalizzazione. Blocca le finestre pop-up, permette la navigazione a schede, dispone di numerose estensioni e temi, ecc.
· "Io mi trovo bene con I.E."
Internet Explorer è certamente il browser con maggiore diffusione e sicuramente molti di voi sono abituati ad usarlo, ma a quale prezzo? Cambiare le proprie abitudini non è mai piacevole soprattutto se non si hanno buoni motivi per farlo. Da quando Internet Explorer ha ottenuto il titolo di "browser più diffuso al mondo" il suo sviluppo si è notevolmente rallentato, se non addirittura fermato. Molte funzionalità importanti come il corretto supporto ai CSS ed alla trasparenza delle immagini PNG sono assenti e questo ha limitato e limita notevolmente l'intero sviluppo del web. Come se non bastasse Microsoft ha dichiarato che non aggiornerà più il suo browser per le versioni di Windows™ precedenti ad XP/2000 ed in futuro tenterà di imporre i propri standard, primo tra tutti il linguaggio XAML che limiterà l'accesso alle applicazioni web solamente ai sistemi basati su Windows™+Internet Explorer.
· Per il supporto?
Grazie al gruppo di mozillaitalia.org trovate sempre l'ultima versione di Firefox in italiano ed un forum di supporto dove porre le vostre domande o cercare la soluzione ai vostri problemi tra le risposte date ad altri utenti del forum.
L'arcivescovo di Bologna: «Le unioni civili sono una metastasi»
di Andrea Carugati
Diritti alle coppie di fatto? Una «letale metastasi». Della cui diffusione sono complici i Ds e l’Unità. Rei di aver promosso e raccontato la campagna per sostenere i Pacs, i Patti di civile solidarietà: una proposta di legge firmata da 161 deputati del centrosinistra, primo firmatario Franco Grillini, per estendere alle coppie di fatto diritti fiscali, previdenziali, sanitari e di successione. La crociata è partita domenica da «Bolognasette», inserto locale di Avvenire. Martedì scorso le pagine dell’Unità dell’Emilia Romagna avevano dato conto della presentazione dei Pacs a Modena, raccontando che l’obiettivo è «dare diritti, oggi negati, alle cosiddette coppie di fatto, formate da persone etero o omosessuali che vivono insieme senza il vincolo del matrimonio». Parole che non sono piaciute al giornale vicinissimo alla curia bolognese guidata da monsignor Carlo Caffarra.
Avvenire ha ironizzato sulla descrizione dei manifesti che la Quercia ha preparato per sostenere la campagna, dove si vedono quattro coppie: Marco e Matteo, Viola e Luigi, Franco e Teresa e Carla e Gina. Non è piaciuto che questo giornale definisse due gay «teneri nei loro pull di lana celeste in un abbraccio affettuoso». O due lesbiche come «sorridenti e colorate». «Non osiamo pensare le reazioni dei vecchi comunisti che nel definire certe situazioni scavalcavano tranquillamente il ministro Tremaglia», sogghigna il quotidiano della Cei. Per poi passare al piatto forte: «”L’identità del diritto con il desiderio” è stata definita da monsignor Carlo Caffarra in un recente convegno come la “vera metastasi delle nostre società occidentali», ricorda Avvenire. E spiega: «Contribuire a diffondere questa letale metastasi come sembrano fare i promotori della campagna pro Pacs, significa, a nostro parere, farsi complici del progressivo soffocamento dei principi sui quali si fonda la nostra civiltà». Proprio così. Aver scritto che quattro coppie, etero e gay, «condividono casa e sentimenti e oggi vorrebbero condividere dei diritti» significa soffocare i principi della nostra civiltà. Il quotidiano della Cei si concede anche un ironico riferimento alle disavventure europee di Rocco Buttiglione: «Poiché fortunatamente non siamo candidati a commissari europei vorremmo aggiungere una postilla: ci sono, in questa campagna gestita da lobby molto brave nell’arte del canto delle sirene, un grande silenzio e una grande ingiustizia.
Il silenzio è sui doveri sociali, ai quali le nuove coppie sembrano allergiche tanto da aver cancellato la parola dal loro vocabolario. L’ingiustizia è nei confronti della famiglia. Quella vera, fondata sul «matrimonio». Insomma, le coppie di fatto per Avvenire sono come chi «vuole la bicicletta ma costringe gli altri a pedalare». Dove pedalare significa, ad esempio, educare i figli e assistere gli anziani e i malati.
Dura la reazione di Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay: «Non credo che l’arcivescovo di Bologna Caffarra abbia letto il progetto di legge sui Pacs: se lo avesse fatto si sarebbe sicuramente risparmiato le stupefacenti dichiarazioni circa le presunte metastasi che il Pacs provocherebbe». «Evidentemente- prosegue Grillini- il fondamentalismo delle sette evangeliche americane, che non fanno molta differenza tra gay, cattolici ed ebrei, spira anche dalle parti della curia bolognese e del suo arcivescovo, in vena sfruttare il nuovo vento “teocon” per cercare di trapiantarlo anche qui da noi». «In ogni caso- assicura Grillini- la proposta di legge parla di diritti e doveri con buona pace di Caffarra. Il Pacs non è altro che un elenco di problemi su cui interviene la legge: la malattia, la morte, il carcere, la casa, i beni comuni, le testimonianze in tribunale, il permesso di soggiorno per ricongiungimento. Di grazia, dove sarebbe la metastasi?».
«Esterrefatta» dalle posizioni del foglio della diocesi bolognese Barbara Pollastrini, coordinatrice Donne della segreteria nazionale Ds. «La verità è che le coppie di fatto esistono e sono una libera scelta degli individui. Definirle una “letale metastasi” significa costruire a freddo e senza ragioni un clima di scontro e di crociata. A cui noi contrapporremo dialogo, confronto e responsabilità».
«Le parole del vescovo di Bologna si prestano a veicolare un messaggio di odio e intolleranza incompatibile con il messaggio cristiano», dice Sergio lo Giudice, presidente nazionale di Arcigay, che parla di «talebani di Avvenire» e aggiunge: «Definire queste relazioni di amore una metastasi significa farsi propagandisti di quella stessa cultura dell’odio che ha prodotto, negli ultimi giorni, aggressioni violente contro giovani coppie gay a Milano e a Napoli».
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=39017
lunedì 8 novembre 2004
LICENZIAMENTO OMOFOBO AL SENATO
Il capo della segreteria del vice-presidente Domenico Fisichella mandato a casa da un giorno all'altro. Motivo? Essere apparso in una foto che lo ritraeva nella folla del Gay Village.
di Giulio Maria Corbelli
ROMA - Frequentare un posto di "culattoni" anche solo occasionalmente è un'azione assolutamente incompatibile con il ruolo di collaboratore di un senatore della Repubblica. Così almeno sembra che la pensi Domenico Fisichella, vice-presidente del Senato e membro del partito di Alleanza Nazionale. E' stato lui a licenziare alcune settimane fa un suo stretto collboratore, reo di essere stato involontariamente ritratto in una foto, poi pubblicata dal settimanale Panorama, all'interno in mezzo alla gente che affollava l'area del Gay Village di Roma.
A dare la notizia è stato Daniele Scalise, dalle pagine del Foglio di venerdì scorso. La foto incriminata, scattata dal fotografo Luigi Narici dell’agenzia Agf, secondo la descrizione del giornalista romano «ritrae dall’alto un gruppo di ganzi (ma è distinguibile anche una donna) quasi tutti a torso nudo: due si sbaciucchiano, due sono in procinto, altri si affollanno. Davanti, di passaggio, un giovane uomo con tanto di maglietta che si sta guardando attorno con l’impressione di cercare qualcuno. Quel signore è Dario Mattiello, capo della segreteria di Domenico Fisichella».
Licenziato senza alcuna spiegazione
Scalise ricostruisce la vicenda che è seguita alla pubblicazione di quella foto: «La domenica successiva all’uscita del settimanale, Fisichella parla come di consuetudine al telefono con il suo capo segreteria che lavora nel suo staff da otto anni con meriti che tutti Fisichella in testa - gli hanno sempre e ampiamente riconosciuto. Nessun cenno alla foto». Pare invece che pochi giorni dopo il vice-presidente del Senato si sia sentito in dovere di esprimere con una dura reprimenda tutto il suo scandalo per l'episodio, chiedendo a Mattiello di stare a casa per tre giorni «per far decantare la vicenda». Ma i tre giorni non fanno in tempo a passare, senza che a Mattiello venga annunciata da un collega una lettera di licenziamento firmata dallo stesso senatore Domenico Fisichella. Lettera che poco tempo dopo arriva.
Il diretto interessato non avrò nemmeno la possibilità di interloquire con il suo "datore di lavoro" per un chiarimento. Non dovrà far altro che accettare la decisione. Una decisione basata su un fatto che la maggior parte delle persone di buon senso giudicherebbe senza nessuna importanza: trascorrere una calda sera d'estate nella Capitale in uno dei posti all'aperto più frequentati da tutti i romani - chi è stato al Gay Village sa che non era certo frequentato da soli gay e lesbiche.
Grillini protesta con Fisichella
Il deputato DS Franco Grillini ha inviato al vice-presidente del Senato una lettera aprte in cui si dice «trasecolato e allibito» nell'apprendere la notizia del licenziamento: «siamo di fronte - scrive Grillini - all'espressione di una evidente ed inaccettabile discriminazione, civilmente e moralmente detestabile, in radicale contrasto con i più basilari valori liberali della civiltà politica e giuridica dell’Europa contemporanea».
Il presidente onorario Arcigay chiude la lettera chiedendo al senatore Fisichella «di ripensarci, di ritornare sui suoi passi, di ammettere di avere sbagliato e di porgere le Sue scuse all'interessato, per il danno anche esistenziale e morale procurato, e alla comunità gay romana e nazionale per questo gesto impensabile di un paese civile e occidentale».
http://it.gay.com/view.php?ID=19374
Il condono per i ladri d'arte
Un emendamento alla Finanziaria per far emergere i beni archeologici: basta pagare il 5% del loro valore
di SALVATORE SETTIS
Ottime notizie per tombaroli, depredatori e trafficanti di antichità, collezionisti finti e mercanti disonesti: la Finanziaria 2005 ha in serbo per loro un regalo che nemmeno i più cinici osavano sperare. Secondo un emendamento in discussione in questi giorni al Parlamento, il Codice dei Beni Culturali viene integrato come segue: "I privati possessori o detentori a qualsiasi titolo di beni mobili di interesse archeologico non denunciati né consegnati a norma delle disposizioni del Codice, ne acquisiscono la proprietà mediante pagamento del 5% del valore", purché vi sia "una dichiarazione dell'interessato attestante il possesso o la detenzione in buona fede".
In altri termini: basta che chi ha occultato beni archeologici anziché denunziarli o consegnarli secondo la legge dichiari che lo ha fatto "in buona fede", e il reato che ha commesso si trasforma in merito: si tiene il maltolto, pagando - sinistra beffa - il 5% del suo valore. E chi determina il valore? La soprintendenza competente, ovviamente; ma nel caso essa non si esprima in tempo, "la richiesta si intende accolta": l'orrido principio del silenzio-assenso, che già si era insediato nel Codice (ma almeno in modo temporaneo) per un diktat di Tremonti diventa in tal modo, come era troppo facile profetizzare, un grimaldello per radere al suolo ogni principio di tutela.
Non è tutto qui: in deroga (anzi in barba) a qualsiasi altra disposizione, i beni archeologici ormai privatizzati "possono essere oggetto di attività contrattuale a titolo gratuito o oneroso e la loro circolazione è libera". Anzi, a scanso di equivoci, chiunque ne presenti istanza è ipso facto non più punibile non solo per i reati previsti dal Codice dei beni culturali, ma nemmeno per i reati di cui agli articoli 648 e 712 del Codice Penale (rispettivamente: "Ricettazione" e "Acquisto di cose di sospetta provenienza"). Ricettare antichità, acquistarle e rivenderle anche se di sospetta provenienza (purché "in buona fede") diventa una virtù.
Questa vergognosa proposta è stata presentata dai deputati Carlucci, Orsini, Santulli, Licastro Scardino (tutti di Forza Italia) e, in un'altra variante senza modifiche sostanziali, da altri due deputati dello stesso partito, Gianfranco Conte e Marinello. Continua dunque, e fu facile profezia, l'opera di smantellamento della tutela e del Codice Urbani approvato pochi mesi fa. La legge-delega sull'ambiente fa a pezzetti l'art. 181 del Codice, regalando sanatorie indiscriminate a chiunque abbia deturpato il paesaggio in aree vincolate.
Il nuovo emendamento sui beni archeologici ha una portata ancor più vasta: non si tratta infatti di una sanatoria di situazioni pregresse (o che possono passare per tali), bensì di una "licenza di uccidere" il patrimonio archeologico ora e sempre, senza alcun limite e alcun discrimine se non la dichiarazione che tombaroli e ricettatori operano "in buona fede". E come negarlo, se i loro complici siedono in Parlamento?
Ma all'impudicizia non c'è fine. L'on. Conte ha dichiarato alla Camera (2 novembre) che la sua proposta ha il nobile fine di favorire "l'emersione dei beni archeologici in mano privata". Non dunque di legittimare traffici illeciti e ricettazione si tratta, bensì di far "emergere" gli oggetti di scavo: "emergere", cioè sommergere senza speranza nelle mani di chi li ha illecitamente scavati, trafficati, acquistati e può ormai impunemente continuare a farlo.
Nella discussione alla V Commissione, un'opposizione tanto flebile da somigliare a un applauso è venuta dall'on. Maurandi (Ds), a cui la proposta non piace perché "non raggiungerebbe l'obiettivo che il presentatore si prefigge"; mentre l'on. Boccia (Margherita) ha parlato di "un vero e proprio colpo di spugna", e il sottosegretario all'Economia Vegas ha usato un linguaggio non meno duro ("una sanatoria per i tombaroli").
Ma entrambe le definizioni sono molto al di sotto della realtà: questa norma intende essere (e sarà, se approvata) un invito a un generalizzato do-it-yourself dello scavo archeologico, gratificato dall'assoluta certezza non solo di non compiere alcun reato, ma anzi di acquistare la proprietà dei rinvenimenti, e di poterli liberamente commerciare previo pagamento di un modestissimo obolo allo Stato.
In tal modo, il principio plurisecolare che ha regolato la tutela in Italia - la proprietà statale dei reperti archeologici comunque rinvenuti - viene cancellato con un blitz brutale. Si apre su tutto il territorio nazionale una gigantesca caccia al tesoro, si beffeggiano i Carabinieri del benemerito Nucleo per la tutela del patrimonio artistico, impegnatissimi nel recupero dei beni archeologici trafugati (resteranno ora senza lavoro?), si vanificano tutte le azioni in corso (anche della magistratura) per il recupero del patrimonio archeologico illegalmente acquisito da collezioni e musei stranieri.
Questa norma non solo viola la Costituzione, ma la offende. Essa rivela che cosa è il "Codice Urbani" per una parte almeno della maggioranza di governo che lo ha approvato: uno specchietto per le allodole, che ha consentito di concentrare il fuoco sul ministro Urbani al momento della discussione, diffondendo tuttavia la falsa impressione che con l'approvazione del Codice "i giochi sono fatti".
E' vero il contrario: per una qualche lobby il Codice è già in corso di smantellamento sul fronte dell'ambiente e dei beni archeologici. Il resto fatalmente arriverà, se mancheranno reazioni adeguate nel Parlamento e nel Paese, e il Codice sarà presto carta straccia. A poco serviranno i ponderosi commentari che stanno già arrivando in libreria.
Questa, è bene sottolinearlo, non è una battaglia né di destra né di sinistra, è una battaglia di civiltà. Le tiepide proteste delle opposizioni contro una norma tanto spudorata non sono meno preoccupanti della norma stessa. Perché il partito trasversale dei nemici della tutela venga sconfitto, occorre un'alleanza delle buone volontà, degli onesti, di coloro (e ce ne sono in ogni parte politica) a cui ripugna la connivenza con ricettatori e trafficanti. Ma occorre anche informazione e consapevolezza dei cittadini.
Faremo in tempo ad arrestare questo cinico, irresponsabile invito allo scempio del nostro patrimonio archeologico?
(8 novembre 2004)
http://www.repubblica.it/2004/k/sezioni/cronaca/settis/settis/settis.html
Windows: Falla In Internet Explorer Resta Senza Soluzione
Roma, 6 nov. (Adnkronos Multimedia) - Una falla presente nella versione 6.0 di Internet Explorer non ha avuto ancora nessuna soluzione e rimane un accesso per malintenzionati. E' quanto annuncia Secunia, compagnia danese che si occupa di protezione per i computer. La società ha spiegato che in entrambi i Service Pack rilasciati -per Windows XP e per Windows 2000- non è presente nessuna correzione alla vulnerabilità del tag html 'IFRAME', che permette attacchi dall'esterno grazie ad un buffer overflow creato da codice precedentemente preparato per l'assalto. (Mak/Adnkronos)
domenica 7 novembre 2004
Non copiate Zapatero, vince troppo
Malteste sul Venerdi de La Repubblica spiega come Zapatero viene visto con sospetto in Italia da entrambi i fronti politici
Contromano di CURZIO MALTESE
L'Italia è l'unico Paese dove l'immagine del nuovo premier spagnolo, José Luis Zapatero, è circondata da comune deplorazione o comunque da un certo sospetto, sconfinante nello scandalo. Perfino a sinistra, fra i leader che fanno a gara nel prendere le distanze dall'esempio spagnolo, «troppo estremista». Non è facendo come Zapatero che si vince, insegnano i nostri professori di riformismo. Tralasciando il dettaglio che Zapatero ha appena vinto e se si rivotasse domani stravincerebbe. Mentre i nostri strateghi della rincorsa al centro moderato, per dire, hanno regalato a Berlusconi la più larga maggioranza parlamentare degli ultimi quarant'anni. La stampa del resto dell'Occidente, compresa quella conservatrice, racconta una Spagna «zapatera» molto diversa dalla caricatura reazionaria nostrana. Un Paese in forte crescita, quasi euforico, che funziona e attrae investimenti da tutto il mondo. Del resto, basta fare un breve viaggio per constatare il clima di rinascita culturale dì grandi città come Barcellona, Siviglia, la stessa Madrid, e paragonarlo al mesto e caotico declino urbano delle capitali italiane. Oppure, confrontare la vivacità delle grandi università spagnole, che ospitano studenti di tutto il mondo, con il grigiore autarchico delle nostre baronie.
Perché Zapatero irrita l'intellighenzia, si fa per dire, nazionale? Una ragione assai banale, intanto, è che si tratta di un giovane e i nostri intellettuali sono molto vecchi. Non tanto per l'età quanto per il modo di ragionare, realmente decrepito. La vicenda Buttiglione, per esempio, ha riportato alla luce un pensiero giurassico sui diritti civili, diffuso perfino fra sedicenti liberali, che sarebbe parso superato anche ai trisavoli. È normale che una cultura sostanzialmente ferma alla Controriforma reagisca con orrore all'invasione di principi libertari nella cattolicissima Spagna. Finché lo facevano in Svezia o Danimarca, pazienza. Un altro motivo dell'antipatia per Zapatero è che ha vinto e governa con una tattica assai poco machiavellica. Si limita a fare quanto ha promesso, fedele a principi e identità non negoziabili. Questo offende il trasformismo patrio, vero terreno comune, e minaccia alcuni interessi materiali, grandi e piccoli. Pensate se i nostri politici si mettessero a fare come Zapatero, quanti «consiglieri del Principe» rimarrebbero senza un mestiere. Per queste e altre ragioni, la sinistra italiana «non faccia come Zapatero». Rischierebbe di capire che, per conquistare i ceti medi, non occorre travestirsi da democristiani. La sbornia ormai è passata e i cittadini non vogliono più sogni di Pulcinella, ma certezze e identità. I mitici ceti medi, spagnoli o italiani, oggi si fidano più di un «estremista» coerente come Zapatero che dei «moderati» trasformisti di centrosinistra, pronti a tutto pur di compiacerli.
http://www.gaynews.it/view.php?ID=29791
Il limbo dei moderati
di Furio Colombo
Il New York Times del 4 novembre non ha dubbi. Queste elezioni sono state un grande scontro tra radicali e moderati. I radicali sono i repubblicani che hanno vinto, i moderati sono i democratici che hanno perso. Da oggi, nel giornalismo americano, la parola "radicale", nel senso tipicamente americano di "estremo" sostituisce la parola conservatore o neoconservatore o cristiano evangelico.
Infatti a pag. 1 del New York Times del 4 novembre trovate questa frase di Richard Viguerie , che ha avuto un ruolo chiave nel mobilitare per Bush il voto cristiano fondamentalista: «Adesso arriva la rivoluzione. Se non facciamo la rivoluzione adesso, quando dovremmo farla? Basta con le chiacchiere di unire il Paese. Chi ha votato in massa per Bush ha fatto con lui un patto. Adesso vogliamo i valori morali di cui Bush, in tutta la campagna elettorale, si è fatto paladino e sostenitore».
I "valori" sono perentori: abolizione dell'aborto, eliminazione da tutte le scuole e università della teoria di Darwin, eliminazione della scienza quando contrasta con la religione, esclusione dei gay da ogni responsabilità pubblica e da qualunque genere di contratto che richiami il matrimonio, divieto di adozione fuori dalle regolari famiglie cristiane, preghiere cristiane in tutte le scuole, sussidi alle scuole private organizzate per l'insegnamento della Bibbia, equiparazione dell'aborto all'omicidio a partire dagli embrioni e carcere per i medici, censura rigorosa dei testi scolastici (di cui i giornali americani hanno dato notizia il 6 novembre) e nomina di giudici (le nomine che spettano al Presidente e al Senato)scegliendo rigorosamente tra i giuristi accettati dai cristiani evangelici.
«Dio ci sta dando un'ultima occasione» - sostiene, sempre nelle pagine del New York Times del 4 novembre, James Dobson, leader e fondatore del movimento "Focus on Family", che ha portato a Bush milioni di voti della estrema ala radicale cristiana. «Ma Dio ci sta mettendo alla prova per un periodo brevissimo. Appena i quattro anni della nuova presidenza di Bush. L'America era sull'orlo della rovina. Ora Dio ci porge la mano della salvezza». Il linguaggio non inganni il lettore. Viguerie e Dobson non sono predicatori delle praterie che agitano il tuono di Dio per spingere a un più severo comportamento morale i fedeli della chiesetta di campagna.
Non siamo in un film americano degli anni Quaranta o Cinquanta, in cui il predicatore burbero diventa buono oppure viene mandato via. Qui siamo alla Casa Bianca di Bush. Viguerie e Dobson sono personaggi del cerchio stretto del presidente. Le due dichiarazioni riportate dal New York Times sono parte di telefonate rese pubbliche dall'ufficio di Bush. Sono voci dell'esercito di sostenitori che ha portato il cristiano fondamentalista George Bush al trionfo della Casa Bianca. Il giornale di New York ha condotto anche un'inchiesta fra i più poveri di questi elettori e anche fra coloro che non sono sostenitori della guerra in Iraq. La risposta è sempre la stessa: «La prima cosa che mi ha attratto in Bush è il suo coraggio nel sostenere apertamente i nostri valori. È uno deciso, che non cambia idea, e sostiene Dio. Mai pensato, neppure per un minuto, di votare Kerry. Non c'è Dio dalla sua parte». Nel supplemento del New York Times dedicato alla spiegazione di un risultato elettorale così inatteso (14 milioni di elettori in più vanno a votare e vince il presidente in carica) il giornale torna e ritorna a citare dichiarazioni come questa, a livelli alti e bassi, periferici e di potere. Torna alla frase chiave e sembra il nuovo slogan di sostenitori di Bush, come se, finita la campagna elettorale fossero liberi di abbandonare ogni finzione: «Non perdiamo tempo a unire il Paese. Il messaggio di Dio è chiaro. Non puoi salvare chi non vuol salvarsi. Fuori dalla salvezza non c'è che la dannazione».
Tutti così gli elettori di Bush? No, naturalmente. Milioni di cittadini normali, guidati da buon senso e da inclinazione politica, hanno scelto di votare per Bush come avrebbero votato in passato per Reagan o per Bush padre. Ma ciò di cui i commentatori si meravigliano è il traino che gli evangelici hanno esercitato, superando e ignorando tutti gli argomenti con cui si misurano i praticanti della politica. Qui non c'entrano né il mercato né la guerra. Ti dicono: «Questa è una rivoluzione» come per svegliarti dalla immagine di un'altra America che è ormai il passato.
Se volete una storia esemplare, ecco quella di Tom Daschle, capo della minoranza democratica al Senato e senatore di immenso prestigio per 26 anni. Di fronte ai nuovi cristiani di Bush, Daschle aveva scelto di "capire" e di "dialogare". Dicono di lui i commentatori politici che è un uomo sempre misurato nel linguaggio, sempre preoccupato di trattare gli avversari da colleghi e non da nemici. Ma poiché si è opposto al famoso taglio delle tasse per i più ricchi è stato prontamente definito "ostruzionista e traditore", lui che era sempre stato considerato, non solo in Senato, "statista e patriota". In ogni altro momento della storia americana, Daschle sarebbe stato tipicamente definito "di centro", anche perché, contrariamente a illustri colleghi come Kennedy e come Byrd, ha sempre sostenuto la guerra.
Ma "la rivoluzione" dei nuovi radicali non tiene conto dei centristi dal linguaggio misurato. In una sola, breve campagna elettorale lo hanno travolto e cacciato dalla politica. Il suo avversario, lo sconosciuto John Thune ha chiamato a raccolta cristiani conservatori che non potevano perdonare a Daschle un voto contro la discriminazione dei gay e un voto - uno solo - contro la libera circolazione delle armi. A quanto pare Tom Daschle, senatore da 26 anni ed efficace e telegenico protagonista di infiniti dibattiti televisivi in tutto il Paese, ha continuato i suoi comizi, nello Stato del South Dakota che lo aveva sempre rieletto, senza rendersi conto del pericolo: l'associazione dei produttori di armi aveva messo a disposizione dei cristiani fondamentalisti e dello sfidante di Daschle un finanziamento dieci volte più grande delle risorse niente affatto modeste del senatore. Perciò Dio, le armi e i valori morali hanno stravinto in questo esemplare episodio della rivoluzione radicale americana, che è stata anche la più costosa campagna senatoriale nella storia degli Stati Uniti. Ma a quanto pare Dio, i cristiani fondamentalisti e i produttori di armi non badano a spese. Daschle è scomparso dalla politica come sono scomparsi altri quattro colleghi al Senato (tutti tra i più moderati, tutti nella lista di coloro che avevano votato per Bush sulla guerra). Sono finiti nello stesso limbo in cui è caduto John Kerry. In quel limbo appaiono per ora confinati tutti coloro che hanno fatto una campagna elettorale cauta e sottovoce, rifiutandosi di denunciare l'enorme conflitto di interessi del vice presidente Cheney, il disastro - che continua e si aggrava - dell'Iraq e di confutare con energia le false accuse ricevute ogni giorno dai vivaci e aggressivi leader repubblicani.
Il New York Times offre un ritratto, che è anche un elogio funebre, del più timido candidato democratico dell'ultimo decennio.
«È stato un personaggio sempre un po' fuori fuoco, come se avesse avuto timore di rivelarsi e di rivendicare la sua vita e il suo passato. Ha esitato e tardato prima di rispondere alle atroci accuse di reduci del Vietnam appositamente mobilitati dalla campagna elettorale di Bush per diffamarlo. Non ha risposto, lui che è stato insignito di tre medaglie al valore, alle accuse di codardia e di tradimento, lanciate contro di lui da uno come Bush che si è sottratto alla guerra.
Bush lo ha costantemente attaccato, irriso, insultato, denigrato con veemenza. Kerry ha mostrato una singolare cautela. Il più delle volte ha scelto di ignorare le accuse». Gli amici di Kerry fanno notare l'immensa sproporzione di mezzi fra la campagna di Kerry e quella di Bush. Bush disponeva di un sostegno finanziario molte volte superiore, e, insieme con gli evangelici, lo ha portato alla vittoria. Ma forse fanno luce queste parole di Carl Rove, stratega elettorale del vincitore: «Bush ha vinto perché abbiamo saputo diffondere il dubbio sulla moralità e l'integrità dell'altro candidato, e perché i cristiani evangelici sono venuti in massa a votare per lui». Può essere utile aggiungere che quando Kerry, nei suoi comizi, parlava di "valori" intendeva i diritti dei lavoratori, le scuole pubbliche, gli ospedali, la separazione fra Stato e Chiesa. E lo ha fatto costantemente con rispetto e mitezza.
Infatti, quando Bush parlava di "valori" intendeva esclusione dei gay, emendamento alla Costituzione contro i matrimoni dello stesso sesso, abolizione e criminalizzazione dell'aborto, preghiera obbligatoria nelle scuole pubbliche, finanziamento di scuole private ispirate alla Bibbia.
Dice l'economista Paul Krugman: «Kerry non si è accorto della svolta radicale dei suoi avversari. Ha condotto una campagna moderata. Ha lasciato la sinistra senza guida, ed è affondato insieme al centro».
tratto da L'Unità del 7/11/2004
Sondaggio Demos-Eurisko: Sì alle coppie di fatto, bocciati i matrimoni tra gay
Frattura su fecondazione e uso degli embrioni la maggioranza favorevole all'adozione da coppie non sposate.
La famiglia si conferma il luogo centrale nella vita degli italiani
di FABIO BORDIGNON
Un punto fermo, ma, allo stesso tempo, in continuo movimento. La famiglia si conferma luogo centrale nella vita degli italiani, primo riferimento in caso di difficoltà. Nella popolazione, tuttavia, sembrano oggi convivere diverse "idee" di famiglia: non esiste un'unica definizione, e il legame con l'istituzione del matrimonio appare meno stretto che in passato. Ma è soprattutto sui temi della riproduzione e della bioetica - fecondazione assistita, utilizzo degli embrioni per la ricerca, aborto - che emergono, nella società italiana, fratture molto profonde. Sono questi i principali spunti offerti da un'ampia indagine realizzata da Demos-Eurisko per La Repubblica.
Quasi una persona su due ha (almeno) un parente stretto (ma esterno al proprio nucleo familiare) come vicino di casa. Più di otto persone su dieci hanno parenti che vivono nello stesso comune. Oltre alla densità dei legami familiari, l'indagine conferma la loro persistente rilevanza, nel nostro paese, quale rete di sostegno: quasi il 90% degli intervistati pensa di poter contare, nei momenti difficili, sull'appoggio della famiglia, che, sotto questo profilo, stacca nettamente gli altri soggetti e le altre istituzioni presi in esame (gli amici, i compaesani, la parrocchia... per non parlare dei servizi del comune e dello stato).
A questi significativi elementi di continuità, l'indagine contrappone importanti segnali di cambiamento, innanzitutto nel modo in cui il concetto di famiglia viene declinato dagli individui. Se il 53% degli intervistati ritiene che, per formare una famiglia, occorra sposarsi - e quasi uno su tre consideri necessario il matrimonio religioso (31%) -, per una percentuale appena inferiore (il 45%) è sufficiente che due persone vivano sotto lo stesso tetto. Del resto, una larga maggioranza, in particolare tra i giovani, considera ormai la convivenza (così come il sesso al di fuori del matrimonio) un comportamento ammissibile (79%). Da tale convinzione nasce la necessità di garantire alle coppie di fatto alcuni dei diritti attualmente riservati al vincolo matrimoniale. Sei persone su dieci sono favorevoli all'istituzione di unioni civili, che tutelino queste relazioni (61%). Una porzione non trascurabile (ancorché minoritaria) della popolazione italiana vedrebbe, inoltre, con favore il matrimonio gay: il 32%, lo stesso valore osservato da Gallup negli Stati Uniti, dove il tema è stato al centro del dibattito, nel corso della campagna per le elezioni presidenziali, e oggetto di referendum - tutti bocciati - in ben 11 stati.
Anche le opinioni in materia di adozioni sottolineano l'indebolimento del legame tra famiglia e matrimonio. Il 78% ritiene legittimo che anche una coppia non sposata possa adottare dei bambini, e il 58% concederebbe tale possibilità anche alle donne sole. Il grado di favore, tuttavia, si abbassa drasticamente nel caso degli uomini soli (36%) e, soprattutto, delle coppie omosessuali (21%).
Un ulteriore capitolo dell'indagine riguarda una
questione di grande attualità, che presto potrebbe essere sottoposta al giudizio elettori attraverso referendum (le firme sono già state depositate in Cassazione): la fecondazione assistita. Quasi sette persone su dieci (69%) approvano l'aiuto, da parte della scienza medica, per le coppie che non possono avere figli (il 55% anche per quelle non sposate). Nel caso della cosiddetta eterologa - la fecondazione assistita che utilizza il seme di un donatore esterno, proibita, allo stato attuale, dalla nuova legge che regolamenta la materia - il numero dei favorevoli scende considerevolmente, fermandosi al 39%.
Un'altra norma controversa, contenuta nella legge recentemente varata dal governo, riguarda, poi, il divieto di sperimentazione sugli embrioni umani. A questo proposito, la popolazione si presenta fortemente divisa: se il 38% considera accettabile, dal punto di vita etico, l'utilizzo di embrioni per la ricerca, una componente ancora superiore condanna tale pratica (44), giudicandola discutibile dal punto di vista morale. La stessa percentuale di persone, peraltro, si oppone all'aborto, questione che - pur non essendo oggetto di riforma - conferma la propria capacità di polarizzare l'opinione pubblica.
Le forti divergenze sui temi della bioetica e della morale sono spiegate, innanzitutto, dalla posizione religiosa degli intervistati. I favorevoli alla fecondazione eterologa, per fare solo un esempio, raggiungono il 53% tra chi non va mai in chiesa, ma la percentuale declina, nettamente, al crescere della pratica religiosa, per fermarsi al 24% tra i praticanti assidui (coloro che vanno a messa tutte le domeniche). Il riflesso di tali contrapposizioni è visibile, infine, anche negli orientamenti politici, con gli elettori della CdL più vicini, sui temi considerati, alle posizioni dei cattolici praticanti.
(7 novembre 2004)
http://www.repubblica.it/2004/j/sezioni/cronaca/mammegay/sondadem/sondadem.html