venerdì 15 febbraio 2008

Coppia gay seconda foto più bella dell'anno

Nel concorso "World Press Photo" si è classificata al secondo posto la foto che ritrae una coppia gay appena aggredita da una raid omofobo.
Primo posto alla foto di un soldato disperato.


Foto numero 1

Si intitola "Coppia colpita da violenza omofoba in attesa di soccorso medico". Gli involontari protagonisti di questa immagine sono di Budapest, Ungheria. La foto si è classificata seconda, su un totale di 80.536, nella categoria "attualità" del 51esimo premio "World Press Photo" che ogni anno sceglie le immagini più belle e rappresentative. Primo posto alla foto "Soldato americano rimasto nel bunker a Korengal Valley, Afghanistan", ed è stata pubblicata da Vanity Fair.


Foto numero 2

mercoledì 13 febbraio 2008

La battaglia dei gay democratici: si può fare

Perché una lesbica o un gay dovrebbe votare il Pd alle prossime elezioni politiche?


Perché una lesbica o un gay dovrebbe votare il Pd alle prossime elezioni politiche? La domanda non è banale, considerato quello che è successo in questi ultimi due anni. Due anni fa il ritorno al governo del Paese dell’Unione portò con sé la speranza per la comunità omosessuale italiana di veder finalmente tradotte in legge quelle richieste, come la legge contro l’omofobia e quella per i diritti delle coppie di fatto, che potessero consentire all’Italia di colmare i forti ritardi su questo terreno rispetto al resto d’Europa. Nel corso di questi due anni proposte di legge moderatissime come quella sui Dico o sui Cus, o come la normativa contro i reati motivati dall’omofobia, leggi che pure erano frutto di tentativi di mediazioni alte tra la cultura laica e quella cattolica, sono via via cadute sotto il fuoco dei veti ideologici di quelle parti della maggioranza e del nostro partito che hanno preferito imporre all’Italia il loro fondamentalismo religioso piuttosto che estendere fondamentali diritti civili a tutti i cittadini.

Esponenti politici del nostro partito ci hanno definiti deviati, malati da curare, alcuni senatori sono arrivati al punto di minacciare il voto contrario sulla legge Finanziaria pur di impedire l’approvazione di timidissime riforme in favore dei diritti dei conviventi e addirittura una senatrice recentemente ha votato contro la fiducia al governo Prodi su un emendamento al decreto sicurezza che voleva contrastare le discriminazioni e le violenze omofobiche. Soprattutto è mancata la forza di saper dare risposta alle speranze di una larga parte della società italiana - non solo degli omosessuali - che su questi temi si aspettava il coraggio di una decisione e che non ha compreso come non si sia andati fino in fondo.

Tante lesbiche, tanti gay democratici in questi due anni se ne sono andati, chi preferendo di agire unicamente dentro al movimento lesbico, gay, bisessuale e transgender chi rifugiandosi nella vita privata.

Noi abbiamo scelto di restare, convinti come siamo che la battaglia per i nostri diritti si debba condurre qui, dentro il Partito Democratico, nel dialogo con le forze migliori del cattolicesimo democratico, provando a risvegliare i tanti laici di questo partito dal loro torpore. È una scelta difficile, ma l’abbiamo compiuta, convinti come siamo che le nostre battaglie dovranno servire soprattutto a riaprire spazi di cittadinanza per quei tanti che si sono allontanati, perché possano tornare presto con maggiore fiducia e speranza.

Sappiamo che la vittoria di questa battaglia civile passa necessariamente per una vittoria nel Pd, in quello che potrebbe essere il più grande partito d’Italia, in quel partito che aspira, anche col nostro sostegno, a vincere da solo le prossime elezioni ed a governare il Paese con le forze migliori della società italiana.

Abbiamo accettato la sfida delle primarie, siamo stati dentro la fase costituente, abbiamo lavorato con forza e convinzione dentro alle Commissioni, e la nostra presenza dall’interno ci ha consentito di raggiungere risultati importanti e significativi. Nel Manifesto dei Valori dopo una lunga ed accesa discussione, la famiglia è stata declinata al plurale: si afferma, infatti, che «le famiglie, nella loro concreta condizione, sono destinatarie e protagoniste delle politiche sociali». Nello stesso documento si auspica che siano «riconosciuti e disciplinati per legge i diritti e doveri delle persone conviventi in unioni di fatto» e che si elimini «ogni discriminazione e violenza per motivi di appartenenze razziali e sociali, di schieramento politico e culturale, di religione, di genere e di orientamento sessuale». Nello Statuto nazionale si afferma che il Pd «si impegna a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla piena partecipazione politica di tutti i cittadini ed in particolare di coloro che per motivi legati al genere, all’origine etnica, alla propria religione o alle proprie convinzioni personali, alle disabilità, all’età o all’orientamento sessuale incontrano i maggiori ostacoli nell’accesso alla vita politica».

Tutto ciò non era affatto scontato, lo si deve soprattutto alla nostra perseveranza e rappresenta senz’altro un risultato importante, ma non basta. Per riaccendere le speranze del nostro popolo serve che questi principi e valori si traducano in precisi e chiari impegni programmatici. Serve che le persone che candideremo ne siano tutte consapevoli e ne divengano convinti e convincenti attuatori, anzichè, come alcuni sono stati in questi anni, cocciuti ed impuniti sabotatori.

Serve soprattutto che questa battaglia possa camminare anche sulle gambe di deputati e senatori dichiaratamente omosessuali che possano lavorare dall’interno delle istituzioni per costruire le mediazioni più avanzate, recuperando un rapporto e un dialogo profondo con quel grande e gioioso movimento che in gran parte ora sta fuori da qui. Perché è del tutto evidente che un partito che si definisce «a vocazione maggioritaria» ha bisogno di rappresentare la società italiana in tutti i suoi segmenti sociali, compresi quelli più scomodi, superando imbarazzi e reticenze.

Walter Veltroni in questi giorni ha proposto lo slogan della campagna elettorale, ispirandosi a Barack Obama «We can» cioè «Si può fare». È uno slogan che punta a trasmettere fiducia e speranza ad una società che vuole cambiare, rompere col passato e guardare con maggiore fiducia al futuro. A condizione però che sappia parlare a tutta la società, senza dimenticare nessuno.

Ecco quindi che la risposta alla domanda iniziale sul perché una lesbica o un gay italiano dovrebbe votare per il Pd dipenderà da quanto in questa campagna sapremo risultare credibili nel pronunciare «Si può fare». Tanti cittadini omosessuali vorrebbero svegliarsi il 14 aprile prossimo e poter dire che sì, «Si può fare»: si può uscire dalla paura, dalla non accettazione sociale, si possono avere diritti come tutti gli altri. Anche noi omosessuali vorremmo camminare verso una “nuova Italia” da protagonisti. Perché noi, anche se non siamo stati citati siamo parte importante di quella Italia a cui Veltroni ha parlato nel suo discorso di Spello. Perché la nostra battaglia è la battaglia di tutti, perché i nostri diritti aggiungono civiltà, rendono un Paese migliore, quel Paese in cui tutti vorremmo vivere. E allora, non solo «Si può fare» ma «Si deve fare».



Marco Volante

Andrea Benedino, Anna Paola Concia, Cristiana Alicata, Carmen Antonino, Andrea Ambrogetti, Simone Acquino, Fabio Astrobello, Alessandro Bandoni, Simone Barbieri, Riccardo Camilleri, Alfredo Capuano, Maurizio Caserta, Matteo Cavalieri, Nicola Cicchitti, Enrico Fusco, Veniero Fusco, Daniele Garuti, Carlo Guarino, Nunzio Liso, Sergio Lo Giudice, Enrico Pizza, Carlo Santacroce, Ivan Scalfarotto, Ivan Scanavini, Ennio Trinelli, Carmine Urciuoli


http://www.gaynews.it/view.php?ID=76917

martedì 12 febbraio 2008

Israele: la terra promessa delle adozioni gay

Via libera d'Israele alle coppie omosessuali: sì a un figlio
di Francesca Paci


Il primo pensiero va a David e Raul, una coppia di amici ebrei italiani: se decideranno di chiedere la cittadinanza israeliana potranno finalmente adottare un figlio». Shai Doatsh, portavoce dell'associazione omosessuale israeliana Agudà, agisce localmente ma pensa global, secondo la filosofia gay. La sentenza del consigliere giuridico del governo, Menahem Mozouz, che domenica ha spalancato le porte dell'adozione a partners dello stesso sesso, allinea il diritto di famiglia israeliano a quello di Gran Bretagna, Spagna, Svezia, Islanda, al Belgio che nel 2003 è stato il secondo Paese al mondo dopo l'Olanda a legalizzare i matrimoni omosessuali. Ma apre uno spiraglio anche per David, Raul, gli altri e le altre ebree che rispondono a legislazioni meno permessive ma potrebbero, domani, usufruire del diritto al ritorno nella Erez Israel e coronare il sogno proibito d'una paternità/maternità.

«L'unico criterio da prendere in considerazione è il bene del bambino» è stata l'argomentazione vincente di Mazouz. A febbraio del 2006 la Corte israeliana aveva riconosciuto il diritto di Tal e Avital Yaros-Hakak, una coppia lesbica, ad adottare i tre bambini nati dalla precedente unione di Tal. La cosiddetta «stepchild-adoption», l'adozione del figliastro, corsia preferenziale femminile possibile, oltre che in Israele, in Germania, Norvegia, Danimarca. «L'unico criterio da prendere in considerazione è il bene del bambino» è stata l'argomentazione vincente di Mazouz. A febbraio del 2006 la Corte israeliana aveva riconosciuto il diritto di Tal e Avital Yaros-Hakak, una coppia lesbica, ad adottare i tre bambini nati dalla precedente unione di Tal. La cosiddetta «stepchild-adoption», l'adozione del figliastro, corsia preferenziale femminile possibile, oltre che in Israele, in Germania, Norvegia, Danimarca.

«Adesso sarà più semplice anche per gli uomini» afferma Shai Doatsh. A giudicare dalle ultime statistiche di Agudà, in Israele ci sono almeno 18 coppie omosessuali, di cui 25 già genitori/genitrici e 10 alle prese con certificati, richieste ufficiali, carte bollate.

La sentenza del giudice Menahem Mozouz, spiega Michal Hamel, leader storico del movimento gay israeliano, «equipara le coppie omosessuali a quelle dello stesso sesso sostenendo che una coppia è una coppia e corrisponde esattamente all'idea di mamma e papà». Un'affermazione semplice ma rivoluzionaria qui, dove convivono la licenziosa San Francisco mediorientale patria della cantante trans Dana International e la terra santa della Bibbia. Dove, secondo uno studio della Ynet-Gesher, il 73 per cento dei genitori s'immedesima con il primo ministro ed è pronto ad accettare un figlio omosessuale come Dana Olmert, ma rabbini, imam e porporati cristiani innalzano eccezionalmente comuni barricate contro il Gay Pride di Gerusalemme.

«L'adozione è la naturale evoluzione di un percorso civile e legale sull'uguaglianza dei sessi» nota Michal Tamir, docente di diritto di famiglia all'università di Tel Aviv. «Israele è un Paese moderno ma anche profondamente conservatore, il punto d'incontro tra la cultura occidentale e la tradizione mediorientale. Il sistema legale e quello politico procedono lentamente, di pari passo, senza strappi». Nel 1988 è venuto il riconoscimento dell'omosessualità, nel 2005 la maternità delle lesbiche, ora l'adozione per tutti, donne e uomini. Nonostante le fughe in avanti dei progressisti, a Gerusalemme fa ancora scuola la sinagoga ortodossa di Dean Ramon, inamovibile nel ricordare che «la legge ebraica proibisce l'omosessualità» e il leader della destra religiosa, Nissim Ze'ev, auspica «centri di riabilitazione per curare la sodomia».
Passato e futuro, in guerra per il presente.

Michal Tamir legge la decisione della Corte come lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi: «Per essere un Paese con cinque milioni e mezzo di abitanti, Israele ha il più alto numero di famiglie omosessuali con figliastri adottivi».
Altre ne seguiranno e più "ufficiali", nonostante l'anatema del ministro Eli Yishai, leader del partito ultraortodosso Shas contro la «nauseante iniziativa del giudice Mozouz». Più che la morale è l'economia a spingere verso l'emancipazione. I dati di Avodà coincidono con quelli del ministero del turismo: oltre il 10 per cento degli stranieri che visitano Israele ogni anno è composto da gay. Se la Knesset si aprisse ancora di più, come ha già fatto il Comune di Tel Aviv, potrebbero arrivare 400 turisti omosessuali ogni settimana. O magari aspiranti residenti come David e Raul, disposti a lasciare l'Italia per un bebè.

http://tinyurl.com/2e7cox

Uno straccio di laicità

Sex crimes and the Vatican

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