di ANDREA MANZELLA
Non c'è stata dunque tregua nella corsa per sradicare la nostra Costituzione dai suoi principi originari. L'estrema difesa sembra ormai affidata al referendum impeditivo. Tutte le previsioni dicono che in quel referendum prevarrà la grande maggioranza moderata degli italiani: di centro, di sinistra e anche di destra. E che sarà battuto l'estremismo di chi predica e pratica ogni giorno, da quattro anni, un bipolarismo feroce: nelle leggi, nelle nomine, nell'informazione, nella immagine esterna del Paese. Il clima di divisione nazionale, appunto, cristallizzato nel disegno governativo.
Maestri giuristi ci spiegano anche che questo progetto comunque non funzionerà. I maldestri meccanici che vi hanno lavorato hanno avvitato bulloni a casaccio. Ne è uscito fuori un macchinario che sembra privo di logica motrice. Ma il punto non è in tutto questo.
Il punto, che peserà come una zavorra nella storia della Repubblica, è che con questo progetto si è rotto il bene più prezioso che ci univa dal 1946: la pace costituzionale degli italiani. È un bene che aveva resistito allo scontro tra laici e cattolici, tra liberali e comunisti e persino alla guerra civile fredda che per trent'anni, dal 1946 al 1976, aveva opposto pro-atlantici a pro-sovietici. Ora si è dimostrato che è sufficiente un calcolo elettorale a breve, una baratteria di coalizione, la voglia di agitare un successo parlamentare, sia pure di corta durata, per potere spezzare senza scrupoli quel segno storico della nostra unità.
E, allora, non basterà vincere un referendum. Esso non potrà essere una misura di conservazione. Dovrà essere piuttosto la riscoperta e la rifondazione dei principi e degli equilibri della Costituzione. Una battaglia, in questo senso costituente, per una ricostruzione della specifica identità istituzionale italiana nel grande movimento costituzionale europeo.
La riconquista della pace costituzionale significherà innanzitutto la ricomposizione delle garanzie violate. Dopo le rotture, ci sarà da ristabilire le garanzie per i tre grandi principi di base: l'equilibrio democratico tra maggioranze e minoranze; l'equilibrio parlamentare tra poteri e contropoteri del governo; l'equilibrio nazionale tra unità e pluralismo territoriale.
Risultano, infatti, fiaccate, in primo luogo, le garanzie democratiche. La stessa contestata procedura seguita in modo convulso per cambiare 53 articoli della Costituzione, con fortissima limitazione dei diritti dell'opposizione, dimostra, per sé sola, che in questo Paese il governo ormai può tutto. E può di più quando, come nel caso della revisione costituzionale, sono tecnicamente fuori gioco sia il Presidente della Repubblica sia, forse, la Corte costituzionale.
Manomettere, come fa il progetto, queste garanzie si traduce immediatamente in un attacco alla zona dei diritti fondamentali. Si è così costruita una passerella di aggressione che va dalla parte organizzativa della Costituzione alla parte, apparentemente illesa, dei diritti dei cittadini. La prima tradizionale tutela dei diritti è affidata alla ordinaria legge parlamentare. Ma questa ora non è più una difesa.
Questo degrado di sicurezza costituzionale avviene contemporaneamente al rigetto di tutte le proposte dell'opposizione che cercavano di adeguare le garanzie della Costituzione al nuovo sistema elettorale maggioritario. Erano proposte che non ponevano minimamente a rischio la stabilità dei governi e le condizioni di governabilità. Il loro rifiuto è reso più cupo dal pesante contorno di leggi che minano le pre-condizioni della democrazia: stabilizzando il monopolio governativo dell'informazione televisiva, legittimando il conflitto di interessi, insidiando l'indipendenza della magistratura.
Sono in giuoco, poi, le garanzie per il regime parlamentare. C'è già ora il disprezzo di un primo ministro che rifiuta di andare in parlamento non solo per rispondere ad un cortese question time di importazione, ma perfino sull'indecifrabile destino di tremila soldati italiani, trascinati in un teatro di guerra. Il progetto consolida e legittima questa retrocessione del parlamento.
Una sovranità elettorale assoluta cancella ogni autonomia delle Assemblee rappresentative. Il rapporto a due parlamento-governo che è la vita stessa del principio parlamentare è bruciato fin dal giorno delle elezioni. La legge elettorale, si dice, deve "favorire la formazione di una maggioranza collegata al candidato alla carica di primo ministro". Con voti bloccati, questioni di fiducia, minaccia di scioglimento la stessa maggioranza parlamentare non ha alcuna possibilità di confronto e men che meno di controllo sull'operato del governo.
Quanto all'opposizione, i suoi voti sono considerati costituzionalmente appestati e non le si concede neppure il rimedio tipico delle democrazie maggioritarie: il ricorso preventivo al tribunale costituzionale almeno nei casi di sospetti abusi nel procedimento legislativo.
Nessun temperamento dunque all'attuale situazione di prevaricazione governativa. Vi è semmai il suo aggravarsi: con uno squilibrio ancor più forte a favore di una figura di primo ministro che assorbe in sé praticamente anche la rappresentanza parlamentare, cancellandone la differente identità.
È compromessa, infine, la garanzia dell'unità territoriale della Repubblica. Compromessa dall'inserimento della clausola di "esclusività" nelle competenze legislative delle regioni. Una "esclusività" che non tocca solo i grandi sistemi unitari nazionali - la scuola, la sanità - ma si estende indefinitamente anche "ad ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato". Ora, questa "esclusività" - che è il punto di inconciliabile frattura tra il regionalismo di tutti (e non solo del centro-sinistra) e quello della Lega - è una aberrazione sia per l'ordinamento italiano sia per l'ordinamento europeo. Nell'uno e nell'altro è in contrasto, infatti, con il fondamentale principio di sussidiarietà. Un principio - imperniato sulle intese fra i differenti livelli di governo - che rende mobili e flessibili le competenze.
La competenza esclusiva, se ha un senso, creerà invece un sistema di rigide gabbie legislative nel territorio della Repubblica, di compartimenti impermeabili a principi comuni, di vere e proprie dighe alla stessa legislazione comunitaria e prevedibili ostacoli alla circolazione delle imprese e dei servizi. D'altronde la logica della frammentazione e del separatismo lascia le sue impronte digitali. Là dove consente che per cinque anni tutte le tentazioni alla diaspora del localismo italiano trovino sfogo. Sia attraverso una sospensione delle garanzie attuali della Costituzione. Sia stabilendo che ai referendum di amputazione territoriale partecipino solo "i cittadini residenti nei comuni o nelle province di cui si propone il distacco dalla regione"...
Per tutte queste ragioni il referendum non potrà esaurisi in un semplice "no". Con esso si devono ridefinire le condizioni e i principi repubblicani per un coabitare mite in Costituzione.
Nel 1946 quando cominciò la Costituente, il fascismo era definitivamente morto. Eppure si creò una Costituzione antifascista: per cercare di evitare, sbagliando magari qualcosa in senso opposto, gli eccessi di potere di quel regime trascorso. Forse è troppo pretendere che si ponga ora mano a regole costituzionali che mettano fine all'attuale esorbitante accumulo di poteri pubblici e privati proprio del berlusconismo. Ma è certamente impossibile accettare, dopo questa esperienza, meccanismi che concedano al berlusconismo (non ancora morto) o a qualunque altro estremismo populista, una patente costituzionale per prevaricare di più. Ogni politica costituzionale deve partire dall'esistente e non dalle teorie. E l'esistente è questo. Non c'è Westminster né la Bbc.
Ecco perché, alla fine, questo referendum avrà logicamente una forte influenza sulle elezioni politiche del 2006. Quale che sarà la data del suo svolgimento, esso consentirà ai cittadini di valutare l'intera posta in giuoco e di riappropriarsi di valori costituzionali che si sono fatti lontani. E che, come ogni cosa lontana, rischiano di essere perduti per sempre.
(24 marzo 2005)
http://www.repubblica.it/2005/c/sezioni/politica/rifoist2/manzellaedit/manzellaedit.html
giovedì 24 marzo 2005
Le garanzie cancellate
La Patria perduta
Nuova Carta, in pericolo l’unità italiana
di Ernesto Galli della Loggia
È impossibile nascondersi la gravità di quanto è accaduto ieri al Senato. Dopo la Camera, infatti, l’assemblea di Palazzo Madama ha approvato definitivamente in prima lettura una riforma della Costituzione italiana che distrugge alcuni aspetti caratterizzanti dell’organizzazione dello Stato repubblicano e modifica in profondità il funzionamento dei massimi organi del suo potere politico nonché lo schema dei loro rapporti. Il panorama delle rovine è presto descritto. Viene estesa a dismisura, anche a campi delicatissimi come quello dell’istruzione e della sicurezza pubblica, la capacità legiferatrice delle Regioni: lo Stato centrale mantiene sì formalmente l’esercizio di un potere d’interdizione, ma in misura attenuata e così ambigua che l’unico risultato prevedibile è una crescita esponenziale del contenzioso Stato- Regioni, già oggi ben oltre il limite di guardia. Nell’ambito del potere centrale, poi, la fine dell’attuale bicameralismo perfetto serve ad installare un Senato di nuovo tipo — presentato come «federale» ma in realtà non eletto in rappresentanza delle Regioni in quanto tali, e con competenze ridotte rispetto ad una vera camera politica —e una Camera dei deputati sovrastata da un primo ministro eletto dal popolo ma che, in barba ad ogni logica costituzionale, potrà a certe condizioni essere sfiduciato dalla stessa ed avrà, insieme, il potere di scioglierla quando gli piacerà. Ciò che in conclusione la riforma costituzionale realizza—per giunta non subito ma, tanto per accrescere la confusione, in varie tappe scaglionate nel tempo — sarà un incrocio contraddittorio e micidiale di accentramento e decentramento, all’insegna dell’istituzionalizzazione della paralisi e dell’apoteosi del ricatto. Del resto è solo per il ricatto continuo e minaccioso della Lega che l’onorevole Berlusconi e la destra hanno dato il via a un progetto simile. È esclusivamente, cioè, per il proprio immediato tornaconto politico che il presidente del Consiglio e altre forze della sua maggioranza, che al pari di lui non hanno mai manifestato alcun interesse per il federalismo, e anzi sono ideologicamente ai suoi antipodi come Alleanza nazionale, lo hanno improvvisamente abbracciato, accettando così cinicamente di mettere mano al disfacimento del Paese. Perché di questo si tratta: la riforma della Costituzione voluta dal governo e dalla sua maggioranza costituisce forse il più grave pericolo che l’unità italiana si trova a correre dopo quello terribile corso sessant’anni orsono nel periodo seguito all’armistizio dell’8 settembre. Mentre in misura altrettanto forte sono in pericolo la funzionalità e l’efficienza della direzione politica dello Stato da un lato, e dall’altro alcuni valori di fondo della nostra convivenza, non più garantiti da una tutela pubblica affidabile. Di fronte a questa prospettiva inquietante, non ci sembra che abbia molto senso unire la nostra voce al coro di quelli che, sia pure con qualche ragione, mettono sotto accusa le responsabilità anche della sinistra per aver aperto la porta al disastro attuale approvando, con una ristrettissima maggioranza, le modifiche del Titolo V della Costituzione nella scorsa legislatura. Anche nelle responsabilità c’è una gerarchia, e oggi quello che appare in modo indiscutibile è il primo posto guadagnato dalla destra e dal suo capo nella corsa a fare il male del Paese. Per realizzare il misfatto hanno bisogno però del consenso dei cittadini nel referendum confermativo da qui ad un anno o quando sarà: vedremo allora se gli italiani sono davvero stanchi di avere una Costituzione e una patria.
24 marzo 2005
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2005/03_Marzo/24/patria.shtml
lunedì 21 marzo 2005
Riforme....
Hanno riformato anche la lingua italiana. «Le funzioni del Presidente della Repubblica in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato federale della Repubblica».
Testuale dall'Art. 25 della nuova Costituzione redatta dal governo Berlusconi-Bossi-Fini-Follini
domenica 20 marzo 2005
Unità di misura
di Furio Colombo
Una piccola storia vera che forse può servire a far luce su certi vicoli della politica berlusconiana. Ricordate Donald Trump, il leggendario miliardario americano? Un tempo non era così ricco. Possedeva solo un po’ di appartamenti a New York. Erano il lascito di suo padre, tutti affittati. Ma Trump voleva valorizzare in fretta le sue proprietà, non aveva tempo per le noiose procedure di sfratto. Come fare? Semplice. Assumeva bande di giovani teppisti che cominciavano a prendere di mira una famiglia, una coppia, un anziano solo. Sporcavano e imbrattavano davanti alla porta, urlavano insulti ogni volta che la persona presa di mira entrava o usciva, gli rovesciavano la borsa della spesa, rompevano bottiglie contro la sua porta, sempre con grande baccano, magari anche di notte. Veniva il momento in cui il perseguitato decideva di andarsene. Infatti gli altri inquilini attribuivano a lui, non alla gang, tutto quel disordine. In questo modo nel giro di pochi mesi ben organizzati, Trump è riuscito a liberarsi degli inquilini che riducevano, con la loro presenza, il valore dei suoi appartamenti. È una storia rimasta celebre a New York. Tanto che ha impedito al miliardario di lanciarsi in una avventura politica: sindaco di New York o presidente degli Stati Uniti.
Ma ci sono dei dettagli interessanti che Donald Trump racconta nella sua biografia. In ogni edificio da conquistare, con i metodi rozzi ma efficaci che abbiamo descritto, Trump sceglieva una famiglia modello. Ad essa non accadeva nulla, a patto che si prestasse a rendere vana e poco credibile la denuncia dei vicini. Ogni volta i membri di quella famiglia erano pronti a testimoniare in cambio di sicurezza e affitto condonato: «Qui? Non è accaduto nulla. Siamo liberi di difendere i nostri diritti di inquilini e il proprietario ci rispetta». In ogni edificio, alla fine, anche la famiglia modello veniva sfrattata.
Bisogna ammettere però che è una bella lezione sul modo di esercitare il potere politico ai nostri giorni. Anche in Italia. Primo, identificare l’avversario che non sta al gioco. Secondo, farne l’oggetto di tutto il peso della tua aggressività, non importa come. Terzo, fare in modo che gli altri percepiscano lui (o lei) come il portatore del disordine. Si starebbe così bene in un caseggiato armonioso, niente scontri e niente grida nell’androne, senza di lui.
Quarto, insieme a tutti coloro che si associano per amore di pace, liberarsene. Quinto, dedicarsi agli altri che restano da espellere, uno alla volta, sempre con lo stesso metodo.
Giornali e giornalisti disponibili per questo gioco si trovano. È una questione di mercato. Come per l’appartamento modello di Trump, a proteggere la loro reputazione provvede il sistema di potere.
Questo sistema di potere garantisce: a) la presenza in tv con tutta la sua credibilità e i suoi onori. b) La contiguità con i “grandi” della tv stessa. Chi sta loro accanto non può che essere meritevole. c) Il silenzio o benevolo o forzato degli altri giornali che si terranno alla larga per non trovarsi coinvolti nelle scenate dei teppisti appositamente organizzate in programmi tv di prima serata, ormai quasi tutti - come le case da svuotare di Trump - sotto attento controllo. d) cambiare la scena della vita politica, utilizzando il controllo totale dei mezzi di comunicazione.
In questo modo impongono ai cittadini un paesaggio costruito sulle esigenze di chi conduce il potere. In quel paesaggio la sinistra è una riserva fuori dalla quale sei “radicale” o meglio “estremista”, il centro coincide con la difesa più stretta di una neo-teologia implacabile o con la pacata accettazione di tutto. Alla destra viene assegnato uno spazio di scorrimento senza limiti, dal razzismo aperto della Lega alle scorrerie di An verso il recupero del fascismo. È certo un modo conveniente e abile di governare. Da un lato si realizza col metodo esemplare di togliere credibilità, reputazione, rispetto a chi si oppone. Per farlo, occorre il silenzio di molti che devono fare finta di non sapere. Se alzi un po’ la voce per attrarre attenzione, ti ammoniscono a non demonizzare l’avversario e a non fare giornalismo “urlato”. Urlato è tutto ciò che non fa comodo a chi conduce il gioco.
Dall’altra si perfeziona la ridefinizione del paesaggio politico, una specie di Truman Show in cui tutto è finto, tranne gli enormi interessi dell’impresario dello spettacolo e dei suoi più immediati consociati. Tutto ciò disorienta al punto che molti, in buona fede, cominciano a credere che quel paesaggio sia vero, che sia una buona cosa adattarsi. Tanto più che ogni sera vere persone, magari ancora attive su giornali di sinistra, attraversano tutta la scena e vanno a sedersi a destra, accanto ai simboli più vistosi del sistema di potere, in uno spettacolo a cui nessun Pinter, Genet o Jonesco avevano mai pensato.
Si può arrivare al punto che - in un simile spettacolo - ci si sente autorizzati a montare un processo di quelli che - nel gergo americano - si chiamano “kangaroo court”. Vuol dire “processo organizzato con la forza” (in questo caso il controllo esclusivo dei media) da parte di chi non ha alcun titolo per montare un processo, se non altro perché è parte in causa.
Una kangaroo court si è dedicata a un “processo” contro l’Unità, processo organizzato dalla stesse persone che avevano definito questa testata “omicida”. Per capire bene che cosa è una kangaroo court (o tribunale dei canguri, espressione popolare americana) ci si deve riferire al testo di Eugenio Scalfari “La furia del processo a Furio” (l’Espresso, 4 marzo, ripubblicato su l’Unità del giorno successivo) che è l’unica cronaca e l’unico commento all’evento accaduto nella rete televisiva La 7 la sera del 25 febbraio. Il fondatore di la Repubblica è l’unico giornalista a esprimere meraviglia per ciò che può accadere nelle proprietà di Berlusconi: usare la televisione per processare il giornale sgradito a Berlusconi e affidare l’incarico a una corte di dipendenti di Berlusconi, o di dipendenti dei dipendenti di Berlusconi.
È giusto dire che il direttore di questo giornale era stato invitato dalla corte dei canguri ad essere presente. Nella storia di quei processi falsi non si conosce nessuna partecipazione spontanea. Simili eventi non sono uno scherzo quando si fanno dalla parte del potere, sommando una immensa forza economica a una immensa forza mediatica a una immensa forza politica. È giusto ricordare che Piero Sansonetti e Bruno Gravagnuolo hanno difeso questo giornale, nei limiti in cui è possibile farlo nei processi-canguro, fra effusivi incoraggiamenti al peggio, accorti silenzi, e le dichiarazioni di Filippo Facci (che sembrava una comparsa dell’indimenticabile film di Spielberg) e che è stato prontamente querelato per avere ripetutamente definito l’Unità “giornale criminale” nel silenzio attento degli organizzatori del processo.
Tutto ciò accade secondo il modello di sfratto spregiudicatamente narrato da Donald Trump: la colpa deve ricadere sullo sfrattato. Ciò che gli organizzatori di processi-canguro cercano è la solitudine di chi riescono a trasformare in imputato. In questo caso l’Unità ha ricevuto migliaia e migliaia di lettere, di e-mail, di telegrammi. Solo una piccola parte di essi è stata pubblicata, come testimonianza di sostegno e affetto per tutto il giornale. L’organizzatore del processo-canguro è sùbito apparso costernato, anzi offeso. Contava sul silenzio calato sul Paese (non scherzano, sono vendicativi, se ti opponi rischi reputazione e posto) per calunniare la vittima appositamente isolata. Gli è andata male, al punto da provocare un rigurgito d’ira fuori controllo (Panorama, 5 marzo, pag. 23) a causa delle lettere di solidarietà che hanno fatto barriera intorno a Unità.
Gli sta andando male anche nella costruzione dello scenario finto sull’Italia. Il fatto è che Romano Prodi, come nel finale del film “Truman Show”, ha aperto la porta nel finto cielo di Berlusconi e sta conducendo l’Unione fuori dalla mistificazione, lontano dalla fiction in cui chiunque partecipi al gioco rischia di diventare o suddito o cortigiano o comparsa di squallide sceneggiate.
da l'Unità del 20/03/2005