domenica 20 marzo 2005

Unità di misura

di Furio Colombo

Una piccola storia vera che forse può servire a far luce su certi vicoli della politica berlusconiana. Ricordate Donald Trump, il leggendario miliardario americano? Un tempo non era così ricco. Possedeva solo un po’ di appartamenti a New York. Erano il lascito di suo padre, tutti affittati. Ma Trump voleva valorizzare in fretta le sue proprietà, non aveva tempo per le noiose procedure di sfratto. Come fare? Semplice. Assumeva bande di giovani teppisti che cominciavano a prendere di mira una famiglia, una coppia, un anziano solo. Sporcavano e imbrattavano davanti alla porta, urlavano insulti ogni volta che la persona presa di mira entrava o usciva, gli rovesciavano la borsa della spesa, rompevano bottiglie contro la sua porta, sempre con grande baccano, magari anche di notte. Veniva il momento in cui il perseguitato decideva di andarsene. Infatti gli altri inquilini attribuivano a lui, non alla gang, tutto quel disordine. In questo modo nel giro di pochi mesi ben organizzati, Trump è riuscito a liberarsi degli inquilini che riducevano, con la loro presenza, il valore dei suoi appartamenti. È una storia rimasta celebre a New York. Tanto che ha impedito al miliardario di lanciarsi in una avventura politica: sindaco di New York o presidente degli Stati Uniti.

Ma ci sono dei dettagli interessanti che Donald Trump racconta nella sua biografia. In ogni edificio da conquistare, con i metodi rozzi ma efficaci che abbiamo descritto, Trump sceglieva una famiglia modello. Ad essa non accadeva nulla, a patto che si prestasse a rendere vana e poco credibile la denuncia dei vicini. Ogni volta i membri di quella famiglia erano pronti a testimoniare in cambio di sicurezza e affitto condonato: «Qui? Non è accaduto nulla. Siamo liberi di difendere i nostri diritti di inquilini e il proprietario ci rispetta». In ogni edificio, alla fine, anche la famiglia modello veniva sfrattata.

Bisogna ammettere però che è una bella lezione sul modo di esercitare il potere politico ai nostri giorni. Anche in Italia. Primo, identificare l’avversario che non sta al gioco. Secondo, farne l’oggetto di tutto il peso della tua aggressività, non importa come. Terzo, fare in modo che gli altri percepiscano lui (o lei) come il portatore del disordine. Si starebbe così bene in un caseggiato armonioso, niente scontri e niente grida nell’androne, senza di lui.

Quarto, insieme a tutti coloro che si associano per amore di pace, liberarsene. Quinto, dedicarsi agli altri che restano da espellere, uno alla volta, sempre con lo stesso metodo.

Giornali e giornalisti disponibili per questo gioco si trovano. È una questione di mercato. Come per l’appartamento modello di Trump, a proteggere la loro reputazione provvede il sistema di potere.

Questo sistema di potere garantisce: a) la presenza in tv con tutta la sua credibilità e i suoi onori. b) La contiguità con i “grandi” della tv stessa. Chi sta loro accanto non può che essere meritevole. c) Il silenzio o benevolo o forzato degli altri giornali che si terranno alla larga per non trovarsi coinvolti nelle scenate dei teppisti appositamente organizzate in programmi tv di prima serata, ormai quasi tutti - come le case da svuotare di Trump - sotto attento controllo. d) cambiare la scena della vita politica, utilizzando il controllo totale dei mezzi di comunicazione.

In questo modo impongono ai cittadini un paesaggio costruito sulle esigenze di chi conduce il potere. In quel paesaggio la sinistra è una riserva fuori dalla quale sei “radicale” o meglio “estremista”, il centro coincide con la difesa più stretta di una neo-teologia implacabile o con la pacata accettazione di tutto. Alla destra viene assegnato uno spazio di scorrimento senza limiti, dal razzismo aperto della Lega alle scorrerie di An verso il recupero del fascismo. È certo un modo conveniente e abile di governare. Da un lato si realizza col metodo esemplare di togliere credibilità, reputazione, rispetto a chi si oppone. Per farlo, occorre il silenzio di molti che devono fare finta di non sapere. Se alzi un po’ la voce per attrarre attenzione, ti ammoniscono a non demonizzare l’avversario e a non fare giornalismo “urlato”. Urlato è tutto ciò che non fa comodo a chi conduce il gioco.

Dall’altra si perfeziona la ridefinizione del paesaggio politico, una specie di Truman Show in cui tutto è finto, tranne gli enormi interessi dell’impresario dello spettacolo e dei suoi più immediati consociati. Tutto ciò disorienta al punto che molti, in buona fede, cominciano a credere che quel paesaggio sia vero, che sia una buona cosa adattarsi. Tanto più che ogni sera vere persone, magari ancora attive su giornali di sinistra, attraversano tutta la scena e vanno a sedersi a destra, accanto ai simboli più vistosi del sistema di potere, in uno spettacolo a cui nessun Pinter, Genet o Jonesco avevano mai pensato.

Si può arrivare al punto che - in un simile spettacolo - ci si sente autorizzati a montare un processo di quelli che - nel gergo americano - si chiamano “kangaroo court”. Vuol dire “processo organizzato con la forza” (in questo caso il controllo esclusivo dei media) da parte di chi non ha alcun titolo per montare un processo, se non altro perché è parte in causa.

Una kangaroo court si è dedicata a un “processo” contro l’Unità, processo organizzato dalla stesse persone che avevano definito questa testata “omicida”. Per capire bene che cosa è una kangaroo court (o tribunale dei canguri, espressione popolare americana) ci si deve riferire al testo di Eugenio Scalfari “La furia del processo a Furio” (l’Espresso, 4 marzo, ripubblicato su l’Unità del giorno successivo) che è l’unica cronaca e l’unico commento all’evento accaduto nella rete televisiva La 7 la sera del 25 febbraio. Il fondatore di la Repubblica è l’unico giornalista a esprimere meraviglia per ciò che può accadere nelle proprietà di Berlusconi: usare la televisione per processare il giornale sgradito a Berlusconi e affidare l’incarico a una corte di dipendenti di Berlusconi, o di dipendenti dei dipendenti di Berlusconi.

È giusto dire che il direttore di questo giornale era stato invitato dalla corte dei canguri ad essere presente. Nella storia di quei processi falsi non si conosce nessuna partecipazione spontanea. Simili eventi non sono uno scherzo quando si fanno dalla parte del potere, sommando una immensa forza economica a una immensa forza mediatica a una immensa forza politica. È giusto ricordare che Piero Sansonetti e Bruno Gravagnuolo hanno difeso questo giornale, nei limiti in cui è possibile farlo nei processi-canguro, fra effusivi incoraggiamenti al peggio, accorti silenzi, e le dichiarazioni di Filippo Facci (che sembrava una comparsa dell’indimenticabile film di Spielberg) e che è stato prontamente querelato per avere ripetutamente definito l’Unità “giornale criminale” nel silenzio attento degli organizzatori del processo.

Tutto ciò accade secondo il modello di sfratto spregiudicatamente narrato da Donald Trump: la colpa deve ricadere sullo sfrattato. Ciò che gli organizzatori di processi-canguro cercano è la solitudine di chi riescono a trasformare in imputato. In questo caso l’Unità ha ricevuto migliaia e migliaia di lettere, di e-mail, di telegrammi. Solo una piccola parte di essi è stata pubblicata, come testimonianza di sostegno e affetto per tutto il giornale. L’organizzatore del processo-canguro è sùbito apparso costernato, anzi offeso. Contava sul silenzio calato sul Paese (non scherzano, sono vendicativi, se ti opponi rischi reputazione e posto) per calunniare la vittima appositamente isolata. Gli è andata male, al punto da provocare un rigurgito d’ira fuori controllo (Panorama, 5 marzo, pag. 23) a causa delle lettere di solidarietà che hanno fatto barriera intorno a Unità.

Gli sta andando male anche nella costruzione dello scenario finto sull’Italia. Il fatto è che Romano Prodi, come nel finale del film “Truman Show”, ha aperto la porta nel finto cielo di Berlusconi e sta conducendo l’Unione fuori dalla mistificazione, lontano dalla fiction in cui chiunque partecipi al gioco rischia di diventare o suddito o cortigiano o comparsa di squallide sceneggiate.

da l'Unità del 20/03/2005

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