sabato 3 settembre 2005

"E' gay, non può donare il sangue" respinto da policlinico milanese

Un uomo di 39 anni denuncia il suo caso: "Ma non mi arrendo"
Dal 2000 nessun divieto ai prelievi per gli omosessuali
La decisione del medico nonostante l'ok della legge
"Rapporti tra maschi a rischio, con le lesbiche nessun problema"
di PAOLO BERIZZI


MILANO - Se volete donare il sangue e siete omosessuali, badate bene: potreste essere scartati. "In Italia non si può". Anzi sì, ma dipende dai punti di vista (del medico). In pratica: non è che la legge lo vieti - un tempo era così, oggi non più - al contrario. E' che può succedere che qualcuno vi dica "no, se lei è gay allora niente prelievo". Proprio questo si è sentito rispondere, al Policlinico di Milano, Paolo Pedote, 39 anni, alla sua prima, mancata, donazione di sangue. E' il 16 agosto.

Pedote, che - ironizza - "nonostante l'omosessualità" è sano come un pesce, vede in giro uno slogan pubblicitario: "Se hai sangue nelle vene, dimostralo!". E' lo spot scelto dal Policlinico per incentivare la donazione. "Donare il sangue - si legge - è un gesto di altruismo e di responsabilità civile. Basta avere tra i 18 e i 60 anni, un peso superiore ai 50 kg, un buono stato di salute e avere fatto una colazione leggera...". "Ma soprattutto - aggiunge Paolo con un sorriso amaro - è indispensabile non essere omosessuali".

Lui di sangue nelle vene ne ha da vendere. E non può certo immaginare che i suoi gusti sessuali siano, per i medici, una discriminante. Così si presenta al Policlinico. Reparto trasfusioni e immunologia dei trapianti. "Alla reception - racconta - ti chiedono di leggere un modulo sul quale è indicato tutto ciò che presuppone la sospensione temporanea o definitiva dalla donazione: dai vaccini agli antibiotici, dai tatuaggi all'assunzione di droghe leggere; fino alle malattie infettive, sifilide, Aids, epatite".

Poi il punto più importante: "I rapporti sessuali, anche protetti, con persone a rischio, prevedono la sospensione permanente". "Giusto - dice Paolo - la discriminante infatti deve essere questa, i rapporti a rischio, di qualsiasi tipo. Non l'omosessualità". Che infatti, nel vademecum, non viene mai menzionata.

Il veto per chi ha rapporti omosessuali (maggio '91, decreto dell'allora ministro alla Sanità De Lorenzo) è stato abolito (nel 2000 dal governo Amato) dopo anni di lotte gay. Ma tant'è. "Avendo escluso tutti i motivi elencati - continua - mi sento del tutto idoneo come donatore. La dottoressa Elena Coluccio mi sottopone a una visita medica. Inizia una serie di domande considerate di routine per i neofiti della donazione. Lavoro, stile di vita, biografia sanitaria, via via fino alla mia vita sessuale: mi chiede se ho rapporti con una partner fissa o con partner femminili occasionali non protetti. Rispondo di no, i miei rapporti sono sempre protetti e mai a rischio, ma aggiungo che i miei partner non sono donne ma uomini perché sono gay".

Sul volto della dottoressa c'è un misto di panico e imbarazzo: "Allora, il problema è questo - mi dice - So che la legge permette anche agli omosessuali di donare il sangue, ma noi come nostra politica interna del Centro abbiamo deciso di non accettarli". Pedote reagisce indignandosi. "Lei mi porta dal dottor Maurizio Marconi. Il quale, dopo una cordiale stretta di mano, mi spiega il problema: "Io applico le leggi dello Stato"".

Segue contraddittorio sulle leggi dello Stato. "Mi dice: "Non è il suo orientamento sessuale a escluderla dalla donazione. Il punto è che i rapporti gay tra maschi sono sempre a rischio". Solo quelli. Infatti le lesbiche, mi spiega, vengono accettate. E comunque, conclude, "qui si fa così. Ognuno sceglie secondo coscienza. Mi dispiace". E se ne va". La direzione sanitaria, interpellata, rifiuta di commentare quanto accaduto.

Paolo Pedote esce umiliato e amareggiato dall'ospedale. Dice di non essersi mai sentito così offeso. Per di più, in barba alla legge. "Ma non mi arrendo, io il sangue voglio donarlo. E le norme me lo consentono". Piccolo particolare: di mestiere Paolo fa lo scrittore (collabora con la rivista Pride). Il suo ultimo libro si intitola "Omofobia". Ma questo i medici non potevano saperlo.

(3 settembre 2005)

http://www.repubblica.it/2005/i/sezioni/cronaca/gaymi/gaymi/gaymi.html

venerdì 2 settembre 2005

Il Massachusetts sempre più vicino a mollare i formati Microsoft

di Paolo Attivissimo http://attivissimo.blogspot.com/


Secondo ElectricNews.net, lo stato del Massachusetts ha proposto di imporre a tutti i propri dipendenti l'uso di formati aperti per i documenti elettronici a partire dall'inizio del 2007. L'iniziativa di questo stato USA potrebbe produrre un effetto domino, inducendo altri stati a mollare i formati proprietari (tipicamente quelli di Microsoft).

La scelta di formati aperti deriva principalmente dalle preoccupazioni dello stato per quanto riguarda la futura accessibilità dei documenti scritti oggi. In parole povere, se un governo o un'amministrazione pubblica oggi scrive un documento in un formato proprietario (per esempio un certificato di nascita o una denuncia in formato Word), come può avere la certezza che quel documento sarà ancora leggibile fra venti, cinquanta, cento anni?. Fra vent'anni Word userà chissà quale formato, e l'unica azienda che sa precisamente com'è fatto il formato Word attuale è Microsoft. Fra venti, cinquanta o cent'anni, Microsoft se ne ricorderà? Microsoft esisterà ancora?

Da qui l'idea di usare formati aperti, la cui struttura è pubblicamente documentata. Fra 20-50-100 anni, un documento elettronico in formato aperto sarà ancora leggibile, perché anche se non dovesse più esistere una versione funzionante sui computer futuri del programma che ha scritto il documento, sarà sempre possibile pagare un gruppo di programmatori per scrivere da capo un programma che legga correttamente il formato del documento. Con un formato proprietario segreto, questo non sarà possibile.

C'è anche da considerare la preoccupazione per il ricatto economico. Se un governo scrive un documento in un formato proprietario segreto, sarà per sempre obbligato a usare programmi specifici per leggerlo. Se un governo scrive in Word, dovrà sempre comperare ogni nuova incarnazione di Word per poter leggere la montagna di documenti elettronici che ha scritto: dovrà comperare Word 2020, Word 2050, Word 2100, e tutti i Word intermedi. A che prezzo?

Microsoft queste cose le sa benissimo e ci tiene che i governi continuino a usare i suoi prodotti, visto che sono una delle fonti principali di reddito di zio Bill e soci. Come riassume Electricnews, nel 2003 l'amministrazione pubblica di Monaco minacciò di mollare Office e Windows perché Microsoft le chiedeva 36 milioni di dollari per l'aggiornamento del proprio software. Pensate a quante pensioni o a quante cure mediche si possono pagare con quella cifra.

Si fiondò a Monaco personalmente Steve Ballmer, numero due di Microsoft, per supplicare di ripensarci. Steve offrì uno sconto del 90%, ma Monaco decise di andare avanti lo stesso. Saggia decisione: più presto ci si libera dei formati proprietari, più presto si comincia a risparmiare i soldi dei contribuenti.

Fra l'altro, il Massachusetts non ha improvvisamente scoperto un sentimento anti-Microsoft. Fu l'unico stato che non raggiunse un accordo in una causa antitrust lanciata dal governo federale USA nel 2002, perché -- diceva il governo dello stato -- Microsoft era ancora impegnata attivamente nello strangolare la concorrenza. La Corte d'Appello USA ha respinto l'argomentazione del Massachusetts l'anno scorso, ma un po' di astio dev'essere rimasto.

In sostanza, non ha importanza il sistema operativo che si usa: ha importanza il formato in cui si scrivono i propri dati. Se il formato non è pubblicamente documentato, i nostri dati saranno sempre ostaggio di chi detiene il segreto e i diritti sul formato in cui sono scritti.

Vi siete mai chiesti perché, per esempio, Microsoft Office non integra la possibilità di salvare in formato PDF ma una suite gratuita come OpenOffice.org lo fa? Semplice: perché se diventa facile salvare in formato PDF (e i documenti governativi sono spesso concepiti per essere soltanto letti, una volta scritti), non è più necessario usare programmi Microsoft per leggere i documenti, e questo è male. Per zio Bill, s'intende.

Il formato PDF, fra l'altro, è proprietario ma pubblicamente documentato, per cui chiunque può scrivere programmi che leggono e scrivono PDF. E infatti non è necessario rivolgersi ad Adobe, proprietaria del formato, per procurarsi un programma che gestisca i PDF.

Meditate, governi e aziende, meditate :-)

Mostra del cinema di Venezia: L'amore fra due cowboy gay, una storia forte e tenera

Il regista: "Quando ho letto questo racconto, mi è venuto un nodo alla gola. Ma a quelli del marketing ho detto..."

foto
dal nostro inviato CLAUDIA MORGOGLIONE


Finalmente un vero film d'amore. Una di quelle love story forti, tradizionali (in senso buono), che parlano di una comunione totale tra due corpi e due anime. Ci voleva, in questa Mostra del cinema, un po' di sentimento: a portarlo qui sul Lido, in concorso, è Ang Lee, col suo "Brokeback mountain". Che racconta il legame impossibile, eppure inevitabile, tra due cowboy (segretamente) gay: Heath Ledger e Jake Gyllenhall.

Due giovani attori popolarissimi, negli Stati Uniti, un po' meno da noi. Ma anche qui in Italia i loro volti sono molto noti: Ledger ha già interpretato film come "Destino di un cavaliere" e "Le quattro piume", oltre al kolssal "Casanova" che proprio domani sbarca qui a Venezia; ed è anche considerato un sex-symbol, dalle ragazzine di mezzo mondo. Quanto a Gyllenhall, è stato protagonista, tra gli altri, del cult giovanile "Donnie Darko", oltre che di filmoni hollywoodiani come "L'alba del giorno dopo".

E così non sorprende che oggi, qui al Lido, gli eroi della mattinata siano proprio loro, Heath e Jake. Applauditissimi e vezzeggiatissimi dagli addetti ai lavori, accolti come due veri divi al loro arrivo nei luoghi della Mostra. E anche coraggiosi, a Hollywood, nell'accettare ruoli che prevedono, come ovvio, scene di sesso omosex. Una scelta che Ledger rivendica con forza: "E' una storia bellissima - racconta oggi, qui al Lido - una splendida rappresentazione dell'amore. Tutte le cose che parlano d'amore di solito mi sembrano piuttosto stanche, questa invece mi è parsa subito fresca. E poi finalmente ho potuto girare una vera love -story, cosa che finora non mi era capitato di fare". Altrettanto convinto Gyllenhall: "Sapevo che per Ang Lee il tema forte era l'amore, non un cliché. Per questo ho immediatamente accettato di fare il film".

Tratto dall'omonimo racconto di Annie Proulx (vincitore di un Pulitzer), accolto con favore dal pubblico della Mostra, "Brokeback Mountain" comincia nel '63, in Wyoming, e va avanti per circa vent'anni. I due protagonisti, Ennis (Ledger) e Jack (Gyllenhall) si incontrano già nella prima scena: entrambi cercano lavoro da un allevatore di pecore. Che li spedisce entrambi sulla Brokeback Mountain, a guardare il bestiame. Nel corso dell'estate che i due trascorrono insieme, nasce prima un'amicizia, poi un'intimità sempre più profonda e alla fine, inevitabile, la passione fisica.

Ma nel mondo dei mandriani del West, all'inizio degli anni Sessanta, certo non c'è spazio per un sentimento del genere; così i due si separano, si sposano, hanno figli. Si incontrano solo quattro anni dopo, e il loro sentimento riesplode. Continuano a incontrarsi (anche se raramente) nel corso degli anni: Ennis più deciso a mantenere la facciata di "normalità", Jack disposto a rischiare una convivenza tra uomini. Ma si tratta di un sogno difficile, se non impossibile, da realizzare.

Insomma una vicenda a tinte forti, una sorta di "Ponti di Madison County" in salsa gay. Una storia che ha conquistato il cuore del regista, Ang Lee, autore di successi come "La tigre e il dragone": "Quando ho letto il racconto - dichiara, a bordo della piscina del lussuoso hotel Des Bains - mi è venuto un nodo alla gola. Io credo che sia una grande love story romantica. E poi credo che ognuno di noi, a modo suo, abbia la sua Brokeback Mountain: qualcosa che ha il sapore, il gusto dell'amore. Qualcosa di privato, di intimo. E il fatto che in questo caso tutto accada nel West dell'epoca rende tutto più interessante: maggiore è l'ostacolo, più appassionante è la storia".

Lee nega, però, che ad attrarlo sia stato specificamente il lato omosex della faccenda: "Girando questo film - prosegue - non ho pensato alla comunità gay, a come lo avrebbe accolto. Mi interessava il tipo di affetto che lega i due protagonisti, al di là del fatto che fossero due uomini".

L'autore nega anche di aver ripreso sequenze di sesso più esplicite tra Ledger e Gyllenhall, rispetto a quelle - tutto sommato sobrie - che vediamo nel film: "Tutto cio' che ho girato lo vedete sul grande schermo", assicura.

Un po' di preoccupazione, anche se condita dall'ironia, traspare quando invece quando l'autore parla di come un'altra comunità - quella dei cowboy e dei frequentatori dei rodeo, ancora presente in molte zone degli Usa - accoglierà la pellicola. "Ho detto al marketing, scherzando - conclude Lee - che voglio distribuire il film solo negli stati democratici, nelle città con oltre 50 mila abitanti, e dove tutti hanno votato John Kerry... così almeno posso stare tranquillo!".
(2 settembre 2005)

http://www.repubblica.it/2005/i/sezioni/spettacoli_e_cultura/cinema/venezia/anglee/anglee/anglee.html

giovedì 1 settembre 2005

Non c'è pace senza giustizia

di ROSA CALIPARI*


3 Marzo 1983 - 4 marzo 2005 due date che segnano l'inizio e la fine di un progetto di vita condiviso. Ventidue anni sono pochi per chi ha programmi, ideali e valori comuni; sono pochi per chi rimane ed è travolto in poche decine di secondi da un incubo senza fine. Non è possibile dimenticare la sera del 4 marzo quando al rientro a casa ho trovato ad attendermi alcun colleghi e amici di Nicola. Una scena che si affaccia spesso alla mente di chi ha vissuto con un funzionario di polizia «operativo» ma che si tende a rimuovere per difesa e per non farsi sopraffare da un'angoscia paralizzante. Con orrore ho urlato il mio «No!» di fronte a ciò che intuivo essere la verità ma che nessuno dei presenti era in grado di confermarmi. E poi: «Ucciso dagli americani, un incidente.... Non si sa cosa è successo».

Attonita da quella sera continuo a pormi sempre la stessa domanda «Perché?» ancor più dopo gli esiti contrastanti raggiunti dal Gruppo investigativo congiunto italo-statunitense, incaricato di esaminare la dinamica dei fatti accaduti il 4 marzo.

Un indagine che se negli intenti doveva svolgersi congiuntamente di fatto ha portato alla pubblicazione di due relazioni. Molti i limiti e le restrizioni incontrati dai rappresentanti italiani. Vincoli allo svolgimento delle indagini sono, innanzitutto, derivati dall'esclusiva applicazione della normativa statunitense, Army Regulation 16-6, che disciplina le procedure e le modalità per le inchieste nell'ambito dell'esercito Usa, e che, come risulta dal rapporto italiano, ha posto dei limiti non trascurabili rispetto a quanto previsto dall'ordinamento italiano per analoghe attività. Per quanto attiene, ad esempio, alle modalità di acquisizione delle testimonianze, non potevano essere reiterate le domande ai testimoni già sentiti e non sono stati possibili confronti diretti, per non voler sottolineare che le domande dei rappresentanti italiani potevano essere poste ai testimoni solo tramite il Generale Vangjel, l'Ufficiale statunitense incaricato, già prima dell'arrivo della delegazione italiana, di svolgere indagini.

Ulteriore elemento di rilevante limitazione per l'indagine congiunta è stato il mancato «congelamento» del luogo nell'immediatezza della sparatoria che, come dichiarato dagli stessi militari Usa, è stato completamente ripulito e alterato mentre non si consentiva agli italiani, presenti a Baghdad quella sera del 4 marzo, di arrivare sul posto. Ma neanche successivamente durante i lavori della Commissione congiunta, è stato possibile ricostruire la scena del «crimine», poiché le Autorità militari Usa hanno ritenuto inopportuno, in ragione del luogo dell'«evento», anche il sopralluogo notturno. Pertanto manca la certezza sulla ricostruzione della dinamica dei fatti. Tutto ciò non ha, inoltre, consentito di svolgere un'analisi approfondita sul posto, per cui quanto risultato dalla perizia effettuata in Iraq sulla vettura -come emerge dal rapporto italiano - non sembra avere quella decisiva rilevanza probatoria. E ancora: la rimozione ed eliminazione dei bossoli, la non preservazione delle armi e delle munizioni del reparto coinvolto nel fatto.... e, ancora il rientro dell'autovettura, ormai di proprietà dello Stato italiano, solo dopo due mesi...

E' un percorso difficile doloroso e straziante per chiunque dover affrontare la tragica perdita del proprio compagno ma diventa ancor più arduo se questa avviene in tale contesto e con questa modalità.

Nicola era un dirigente del Sismi, un Servizio alleato degli americani, e ha agito in nome e per conto dello Stato italiano. Non era un Rambo né uno 007 con licenza di uccidere ma un uomo che in altre delicate operazioni aveva dimostrato di possedere le qualità per negoziare anche con gli elementi più integralisti del contesto mediorientale. Dotato di notevole intuito, riflessivo e osservatore affrontava le situazioni con lucidità razionalità, con notevole self-control e con forte determinazione. Consapevole dei rischi insiti nei diversi incarichi ricoperti consigliava la prudenza ai suoi collaboratori e vagliava i costi e i benefici di ogni opzione. Nicola, anche nella sua precedente carriera in Polizia, ha sempre improntato il suo stile al confronto con gli altri e non allo scontro, «prevenire, e non reprimere», diceva. Anche nel rapporto con i suoi collaboratori prediligeva la politica del «consenso» piuttosto che dell'«ordine impartito», dell'affermazione pacata ma «autorevole» della sua opinione e non «autoritaria» anche se si assumeva sempre la piena responsabilità delle proprie decisioni. Uno stile che, spesso, spiazzava gli avversari ma che creava coesione e rafforzava l'identità di gruppo in coloro che lavoravano al suo fianco. Un particolare pensiero va con affetto alla «squadra di Nicola», ai Calipariani, come qualcuno li definisce all'interno del Servizio forse proprio a voler differenziarne lo stile umano e di lavoro.

Era certamente nota agli americani la sua partecipazione e collaborazione anche ad altre vicende di sequestri avvenute sul territorio iracheno e anche in questo caso della giornalista italiana rapita, pur in assenza di una espressa comunicazione formale ai Comandi militari Usa del motivo della missione, Nicola e la sua squadra, come molte altre volte, hanno richiesto l'autorizzazione per atterrare all'aeroporto di Baghdad, per poter alloggiare a Camp Victory e, muniti di tesserini identificativi e di armi, per i loro successivi spostamenti nella capitale irachena.

Nicola ha non solo condotto a termine la sua missione, la liberazione di Giuliana Sgrena, ma ha anche sacrificato la sua vita per proteggerla dal «fuoco amico» e, proprio per rispettare quella bandiera nella quale è tornato avvolto da Baghdad, continuo a chiedere con forza e determinazione la verità su quanto è realmente successo e di far luce sulle responsabilità di coloro che direttamente o indirettamente ne hanno causato la morte.

Non è possibile avere pace se non c'è giustizia.


* Testo tratto dal volume «Nicola Calipari ucciso dal fuoco amico», che sarà distribuito sabato con «l'Unità»

mercoledì 31 agosto 2005

Piccoli passi in Sicilia per l'accettazione dell'omosessualità

Vita di Fulvio nel paese che lo rifiuta
di Rosario Giue


Fulvio è di una persona molto riservata, timida e, insieme, di una dolcezza e sensibilità non comuni. Senza dire che è un tipo generoso e con una innata disponibilità verso gli altri. Ma ha una pesante storia alle spalle. Nel suo paese, in Sicilia, da ragazzo frequenta per anni gli scout. Dopo la scuola, è sempre alla sede, puntuale, pronto a fare quello che è stato programmato.

Ma proprio lì, dove pensa che dovrebbe essere ben accolto e amato per quello che è, lì si trova a dover fare i conti con gli stessi capi che lo prendono in giro per il suo modo di essere. Sono pronti a giudicarlo senza mai mettersi in ascolto o in discussione. E a Fulvio, che ha una viva capacità di cogliere le sfumature dei sentimenti, del detto e non detto, tutto ciò appare sempre più assurdo. Non basta che deve già sopportare i compagni a scuola? E così, sentendosi calcolato come un "diverso", non gli rimane che uscire dal gruppo. Ormai diplomato, non ha un lavoro fisso, ma ha un mestiere. E in tanti lo chiamano. Ma spostarsi da casa per andare a svolgere un lavoro in un'abitazione privata per lui è una sofferenza immane. Attraversare il corso principale, poi, è il peggio che gli possa capitare, una vera punizione. Mentre cammina, se passa davanti al bar del paese o davanti al circolo dei benpensanti, è costretto a sentire qualcuno che in modo vigliacco gli tira addosso la parola "frocio". Se a volte non la sente quella parola, se la sente addosso lo stesso, perché vede senza guardare che molti occhi sono buttati su di lui e che quella parola gliela stanno dicendo con gli occhi. Perciò, per evitare quella ghigliottina, Fulvio prende le stradine laterali, ma anche lì un "attentato terroristico" fatto di uno sguardo malevolo, di una risatina o di una brutta parola può spuntare da un momento all'altro. Ma come si fa a vivere così? Quasi vorrebbe che nessuno lo chiamasse più per fare i lavori artigianali, pur di non sentirsi addosso quella pressione così "umana". Tanto i genitori a casa non gli fanno mancare il necessario per vivere e cercano di proteggerlo come possono. Ma si può continuare? E allora Fulvio matura il bisogno di andare via dalla Sicilia, dal suo paese che ormai gli sta così stretto. Che gli toglie il respiro, gli fa mancare l'aria, non lo fa essere se stesso. Andare al Nord d'Italia, ecco cosa decide un bel giorno Fulvio. E così una ventina di anni fa lascia la sua casa. Non come Abramo perché il Signore lo chiama verso la terra promessa, ma perché si sente espulso dai suoi compaesani. E come è duro ricominciare. Abita in una cameretta facendo i lavori più umili. Con il tempo trova un lavoro stabile che gli permette di sfruttare appieno il suo diploma. Al Nord dice di sentirsi sereno. Ma anche lì, una media città del Nord, a volte si sente deriso. Anche lì qualche collega fa le sue battute. Ma Fulvio non lo vuole ammettere. Lì si sente realizzato. Vuole mettere radici, compra una casa. In paese sono rimasti i vecchi genitori. E quando questi si ammalando gravemente, torna e se ne prende cura con pazienza. Quando può scappa nella sua città del Nord, anche per quindici o venti giorni, per poi tornare a dedicarsi ai suoi vecchi, fino alla fine. Ma anche ora che i genitori sono morti in estate va in paese. Perché vi ha gli affetti. Ma gli amici e le amiche che lo vogliono bene davvero avverte che si possono contare forse con le sole dita di una sola mano. Con loro si sente protetto, va a mare, in montagna, ma che non lo invitino a fare una passeggiata per la strada principale del paese durante della festa della santa patrona. Ma no, gli dicono loro, sai, il paese è cambiato, sta cambiando. E per incoraggiarlo un'amica gli racconta che in paese vi sono diversi ragazzi con un orientamento omosessuale e che non fanno molto per nasconderlo. Gli racconta che le nuove generazioni sono più aperte. Che, anzi, suo figlio ha un amico omosessuale e che non c'è nessun problema. Che "Gianni" viene a casa del figlio con frequenza, che il figlio va a casa di Gianni senza problemi, che gli altri amici ed amiche cercano Gianni senza pregiudizi. Entrano ed escono, vanno a mare insieme. Il paese, vedi, sta cambiando, gli dicono. E lui, Fulvio, a dire "no". Che non è proprio cambiato il paese se gli hanno raccontato che il sacerdote pubblicamente ha detto che gli omosessuali sono malati e che vanno curati. Loro. Ed è deluso perché pensa che la Chiesa dovrebbe spingere al rispetto di tutti, avere un atteggiamento più in positivo, e non alimentare separazione, condanna ed esclusione. E poi c'è la sua generazione, quella dei quarantenni e dei cinquantenni: quanto è cambiata quella? Certo, sente un po' di nostalgia per le sue antiche radici, pensa alla gioia innocente dei giochi fra bambini. Ma Fulvio non tornerà. Intanto ha deciso di aggiustare la casa paterna. Ogni estate fa qualche rifinitura in più. Forse è un piccolo segno di una flebile speranza che, sì, la Sicilia può cambiare davvero più del Nord e che un giorno, quanto lontano non lo sa, possa tornarvi. rosario giuè.

(laRepubblica del 31/08/2005)

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