lunedì 28 febbraio 2005

Domani "liberi tutti" su l'Unità, ricordati di comprarne una copia

La pagina di liberi tutti del primo marzo riprende il tema dei gay nelle forze armate sollevato dalle dichiarazioni di Martino per il quale non ci sarebbe alcun ostacolo preconcetto alla presenza gay in quanto in sede di arruolamento non viene chiesto nulla dell'orientamento sessuale

Martino viene 'smentito' dalla storia che pubblichiamo: un ragazzo gay che sta facendo il concorso per fare i primi tre anni nell'esercito e quindi scegliere se andare nell'Arma dice che continua ad esserci una investigazione indiretta che porta a scartare coloro che si dichiarano gay Il ragazzo racconta la sua storia, il sogno di portare la divisa, il rapporto con gli altri ragazzi e con i militari gay che ha conosciuto in Internet

In pagina pubblichiamo anche un pezzo di reazioni de Gli Argonauti gruppo italiano di gay in uniforme anonimi che fa capo alla rete Europea dei gay in divisa i quali smentiscono Martino, citando il regolamento delle Forze armate

in pagina anche l'agenda fitta di appuntamenti e il tam tam con le spigolature dall'Italia e dal mondo tra cui i cartoon Simpson dove per soldi il personaggio Homer celebra a Springfield tanti matrimoni gay

Ciampi e Berlusconi, una crisi istituzionale

di EZIO MAURO

Siamo dunque al punto in cui il Capo dello Stato, che rappresenta tutte le istituzioni della Repubblica, deve intervenire pubblicamente per difendere il suo ruolo, i suoi poteri di garanzia, la sua indipendenza e la correttezza del suo operato da uno sfondamento del Capo del governo. Carlo Azeglio Ciampi ha dovuto reagire - con "sorpresa", dice la nota del Quirinale - per tutelare non tanto se stesso quanto l'istituto della Presidenza della Repubblica, attaccato nella sua simbologia repubblicana di indipendenza e nella sua funzione suprema di garanzia da Silvio Berlusconi: convinto che sul giudizio del Capo dello Stato prima della promulgazione delle leggi pesino "le sirene della sinistra".

Com'è evidente si tratta di una accusa gravissima, lanciata in forma plateale e gratuita, senza giustificazioni o prove, e non da un esponente politico di secondo piano ma direttamente dal Presidente del Consiglio, che ha la responsabilità di reggere l'esecutivo, indirizzare la politica nazionale e guidare la maggioranza parlamentare, rispondendo così al consenso ottenuto dai cittadini nelle elezioni.

Ora, dopo tre anni di legislatura, Silvio Berlusconi indirizza questo consenso e quel potere politico contro il Presidente della Repubblica, sollevando il sospetto che possa essere soggettivamente un arbitro di parte, dunque scorretto e ingiusto, e istituzionalmente ancor peggio: un Capo dello Stato senza autonomia, soggetto a pressioni, incapace di difendere e garantire l'indipendenza propria della sua funzione.

Siamo ad una vera e propria crisi istituzionale che contrappone i due vertici della nostra vita pubblica, e poco conta la correzione tardiva di Palazzo Chigi. Dalla collaborazione repubblicana eravamo passati da tempo ad una inedita coabitazione fredda, con il Capo dello Stato che aveva di fatto rinunciato alla cooperazione attiva della sua moral suasion per l'impermeabilità di una cultura politica - esecutivo e maggioranza - chiusa in sé, convinta di essere autosufficiente, insofferente perciò ad ogni regola, ogni concerto, ogni controllo.

Oggi si va oltre, nel territorio delicatissimo e inesplorato di un Quirinale attaccato nei comizi di propaganda di un Premier in difficoltà. Ogni spirito istituzionale è bruciato dalla mossa di Berlusconi, ogni senso dello Stato, qualsiasi spazio civico o almeno di responsabilità civile. O meglio, tutto questo è travolto e trasformato in qualcosa che non è un'incultura, ma la forza primitiva e durevole di un sentimento, com'è nei fondamenti di ogni populismo.

È quel sentimento berlusconiano di estraneità alle istituzioni e allo Stato, quel senso di "alienità" che lo fa abitare il vertice della Repubblica come un altrove, sentendosene insieme dominatore ed estraneo, occupante più che rappresentante, possessore esclusivo ma straniero, con tutti i diritti della leadership ma mai nessun dovere. È una concezione che già altre volte ho definito tecnicamente rivoluzionaria, perché vive le elezioni come un'ordalia, il consenso dei cittadini come un'unzione perenne, la conquista del governo come una presa del potere.

Non solo dunque ogni ipotesi di sconfitta elettorale alla fine del mandato e ogni prospettiva di cambio di maggioranza vengono vissute come un'usurpazione a un diritto esclusivo ed eterno, dunque una sorta di atto sacrilego contro un concetto metapolitico ed extraistituzionale, perché sacro: il destino unito di Berlusconi e dell'Italia. Ma anche nel corso di una normale, fisiologica legislatura repubblicana, ogni controllo e ogni vincolo costituzionale di garanzia, di equilibrio, di salvaguardia e di contrappeso - gli istituti su cui si reggono gli Stati democratici in tutto il mondo civile - viene visto come un limite ingiusto e improprio al libero dispiegarsi del carisma berlusconiano, capace di resuscitare ed esaltare l'Italia se solo le istituzioni si lasciassero ardere dal sacro fuoco del Cavaliere e dal suo spirito politico trasformato in opera sapiente e provvidenziale.

Di fronte a tutto ciò, come può un istituto "tecnico" come la promulgazione che di per sé non ha alcun valore politico, non apparire come un impaccio? È evidente a tutti che dopo la "sanzione regia" dello Statuto Albertino, la promulgazione è una dichiarazione formale della massima carica istituzionale che la legge è regolarmente approvata e dunque vale l'ordine "a chiunque spetti di osservarla e farla osservare". Ma è anche chiaro che la Costituzione prevede per il Capo dello Stato il potere di rinvio della legge alle Camere, con rilievi motivati. Dunque quel passaggio delle leggi al Quirinale è anche un passaggio di garanzia: e Ciampi ha dovuto ricordare che ogni rinvio al Parlamento di una legge è sempre stato motivato "dettagliatamente, convintamente e debitamente", senza dare ascolto a suggerimenti d'ogni tipo. "Convintamente", cioè nella personale, autonoma responsabilità del Capo dello Stato. "Debitamente", e cioè come espressione di un dovere del dubbio, ben più che di un diritto.

Ma è persino umiliante dover difendere istituti fondamentali e neutri dello Stato di diritto dall'antistatualità aliena di un Premier che guida le istituzioni sentendosene nemico, con l'impaziente spirito guerriero di chi vorrebbe cortocircuitare i meccanismi di controllo e di garanzia perché tutto - Costituzione, istituzioni, politica e Paese -potessero aderire alla sua biografia trasfigurando insieme nella mitologia berlusconiana, infine salvati e redenti.

Come in ogni populismo, c'è molto di primitivo ma molto anche di moderno in questa trasfigurazione eroica della politica. E faccio notare che questa retorica vera e non falsa, perché l'ego di Berlusconi non la recita, ma la vive e la indossa come la sua vera natura, è a modo suo capace di parlare al Paese, perché lo sollecita perennemente, lo nutre di promesse mentre giustifica il loro tradimento con colpe altrui, spettacolarizza la politica semplificandola, mentre la deforma in conflitto, si regge su concetti primordiali ma emotivi ed evocativi, indica ogni volta un sogno prigioniero ad un Paese sfibrato, ma anche destrutturato in alcuni fondamentali principi civici. È insomma quella "televisione a colori" che l'improvvido vero alfiere degli interessi berlusconiani al governo, il ministro Gasparri, ha evocato contro il "bianco e nero" dello spirito repubblicano di Ciampi.

Soprattutto, è una sostanza retorica che affiora nei momenti della crisi, prima della probabile sconfitta elettorale del Cavaliere. Che reagisce ancora una volta con il più classico paradigma populista, costruendo nel Capo dello Stato un vero e proprio capro espiatorio della propria incapacità di governare, sperando - come dicono gli studiosi del "sacrificio" - di deviare così i suoi drammi intestini sulla vittima designata, bruciando in quel rogo le sue colpe e le colpe del sistema tutto, condannato perché si oppone ad un destino.

Se è così, siamo agli inizi di una fase delicata e pericolosa. Cosa accadrebbe se dopo una sconfitta alle regionali il Cavaliere si accorgesse di precipitare verso la sconfitta alle politiche? Nella concezione tecnicamente rivoluzionaria che Berlusconi ha della politica, questo non è contemplato, non è permesso, semplicemente non è possibile. Avverto: l'agonia politica del berlusconismo sarà terribile.
(28 febbraio 2005)

http://www.repubblica.it/2005/b/sezioni/politica/rifogiustdue/crisistitu/crisistitu.html

domenica 27 febbraio 2005

Se Berlusconi fosse francese

di Elio Veltri

Il ministro francese dell’Economia Hervé Gaymard, quarantaquattrenne, amico di Chirac, padre di 8 figli, è stato costretto alle dimissioni, da un’azione congiunta della stampa, dell’opposizione socialista e del segretario del suo partito. Cosa aveva combinato di tanto grave da essere costretto a lasciare?
Aveva occupato per cinque giorni, a carico dello Stato, un appartamento di 600 metri quadrati e aveva raccontato un paio di bugie, affermando pubblicamente di essere nullatenente, mentre era proprietario di due case, una di 200 metri quadrati a Parigi, fittata ad un amico e l’altra in Bretagna. Insomma, nella Francia governata dal centrodestra, un solo caso simile alle centinaia della affittopoli italiana, ha costretto un ministro giovanissimo e con un grande avvenire, a troncare la carriera politica.
Gli inviati dei nostri giornali, vedi Corriere della sera, hanno trattato l’argomento con grande severità, il che evidenzia ancora di più quanto comunemente avviene nel nostro Paese dove, casi analoghi, moltiplicati per centinaia, riservano a chi li solleva, trattamenti sprezzanti e, comunque, finiscono sempre in gloria e a tarallucci e vino.
Negli stessi giorni, nella stessa Europa, nel Paese fratello e cioè nel nostro, una storia di ben altra portata, coinvolge l’intera famiglia (quella che conta) del capo del governo. I magistrati di Milano che indagano da alcuni anni sull’acquisto di enormi quantità di film americani da parte di Mediaset, scoprono che con una serie di operazioni, utilizzando società off shore collocate nelle isole Vergini, il capo del governo è riuscito a trasferire centinaia di miliardi ai due primogeniti, Marina e Piersilvio, con l’aiuto di Livio Gironi, tesoriere della Fininvest, senza pagare le tasse. I magistrati milanesi, Alfredo Robledo e Fabio De Pasquale, che indagano 14 persone, tra le quali Silvio Berlusconi, Fedele Confalonieri e i due figli maggiori del capo del governo, per i reati di appropriazione indebita, frode fiscale, falso in bilancio e riciclaggio, hanno fatto centro, raccogliendo la testimonianza dell’avvocato inglese David Mackenzie Mills, anch’egli indagato, il quale racconta: «In una villa, che credo fosse la casa di Berlusconi, Gironi mi disse che bisognava fare un’operazione il cui scopo fondamentale era destinare una parte del patrimonio privato di Silvio Berlusconi ai figli del suo primo matrimonio.
Il documento l’ho scritto io - dice Mills - con le indicazioni che mi ha dato Gironi. Fu lui a dirmi che la cosa doveva restare assolutamente riservata e quindi era necessaria una banca fuori d’Italia. Fu sempre Gironi a sottolineare che i figli sarebbero stati i beneficiari ma la gestione pratica doveva essere soggetta al consenso di Silvio Berlusconi, che nel documento viene denominato X». «Mi è stato anche detto - prosegue l’avvocato inglese - che il documento non sarebbe stato firmato da Silvio Berlusconi, ma dai due figli, che così avrebbero assunto il doppio ruolo di costituente e di beneficiario. Inoltre si voleva legare la possibilità di compiere atti di disposizione al consenso di alcune persone di fiducia di Silvio Berlusconi: intendo dire Gironi, Foscale e Confalonieri che rappresentavano la volontà di Berlusconi». La storia ha anche un’appendice: plichi contenenti documenti delle rogatorie aperti dai funzionari del ministero di Castelli prima che li vedessero i magistrati titolari delle indagini; ostacoli alla richiesta di rogatorie alle Bahamas, che poi hanno risposto ugualmente; testimonianze di una dozzina di dipendenti di Mediaset i quali hanno detto ai magistrati che negli anni 80 e 90 era usuale gonfiare i prezzi di acquisto dei film americani per evadere il fisco e costituire fondi neri. Insomma un impero, che nella ipotesi più benevola, è diventato tale falsificando i bilanci ed evadendo le tasse.
Con tutta la buona volontà e le attenuanti possibili, che vanno dalla legittima difesa dell’evasione (come la definisce il Cavaliere) per un fisco troppo esoso, ad un infinito amore per i figli di primo letto, non ce la sentiamo di mettere sullo stesso piano l’affitto di cinque giorni a carico dello Stato, dell’improvvido ministro Gaymard e la Dallas story della famiglia Berlusconi. Eppure, il povero Gaymard è stato costretto a dimettersi nonostante gli otto figli da mantenere e a Berlusconi, nessuno ha osato chiedere le dimissioni.
Quando si dice che tutto il mondo è Paese si dice una gran balla. In realtà, l’ultima storia in ordine di tempo, spiega tutta la contrarietà a ripristinare una sia pur minima sanzione penale efficace per il reato di falso in bilancio e la determinazione con la quale gli uomini di Berlusconi sostengono l’approvazione immediata della legge «Salva-Previti», perché si arrivi alla prescrizione di tutti i reati dei processi in corso.
Naturalmente l’impunità che il capo del governo assicura a se stesso e ai membri della sua famiglia, si estende anche ad altri esponenti della maggioranza. Berlusconi per garantire se stesso deve garantire anche i suoi collaboratori e così tutto si tiene. Sirchia, ad esempio, non si dimette. Eppure i fatti che gli vengono contestati sono certamente più gravi dell’imprudenza commesa dal ministro francese. Ma nel nostro Paese nulla oramai fa scandalo e nessuno pensa seriamente di chiedere conto al capo del governo e ai suoi collaboratori dei loro comportamenti.

http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=EDITO&TOPIC_TIPO=E&TOPIC_ID=41111

Uno straccio di laicità

Sex crimes and the Vatican

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