lunedì 28 febbraio 2005

Ciampi e Berlusconi, una crisi istituzionale

di EZIO MAURO

Siamo dunque al punto in cui il Capo dello Stato, che rappresenta tutte le istituzioni della Repubblica, deve intervenire pubblicamente per difendere il suo ruolo, i suoi poteri di garanzia, la sua indipendenza e la correttezza del suo operato da uno sfondamento del Capo del governo. Carlo Azeglio Ciampi ha dovuto reagire - con "sorpresa", dice la nota del Quirinale - per tutelare non tanto se stesso quanto l'istituto della Presidenza della Repubblica, attaccato nella sua simbologia repubblicana di indipendenza e nella sua funzione suprema di garanzia da Silvio Berlusconi: convinto che sul giudizio del Capo dello Stato prima della promulgazione delle leggi pesino "le sirene della sinistra".

Com'è evidente si tratta di una accusa gravissima, lanciata in forma plateale e gratuita, senza giustificazioni o prove, e non da un esponente politico di secondo piano ma direttamente dal Presidente del Consiglio, che ha la responsabilità di reggere l'esecutivo, indirizzare la politica nazionale e guidare la maggioranza parlamentare, rispondendo così al consenso ottenuto dai cittadini nelle elezioni.

Ora, dopo tre anni di legislatura, Silvio Berlusconi indirizza questo consenso e quel potere politico contro il Presidente della Repubblica, sollevando il sospetto che possa essere soggettivamente un arbitro di parte, dunque scorretto e ingiusto, e istituzionalmente ancor peggio: un Capo dello Stato senza autonomia, soggetto a pressioni, incapace di difendere e garantire l'indipendenza propria della sua funzione.

Siamo ad una vera e propria crisi istituzionale che contrappone i due vertici della nostra vita pubblica, e poco conta la correzione tardiva di Palazzo Chigi. Dalla collaborazione repubblicana eravamo passati da tempo ad una inedita coabitazione fredda, con il Capo dello Stato che aveva di fatto rinunciato alla cooperazione attiva della sua moral suasion per l'impermeabilità di una cultura politica - esecutivo e maggioranza - chiusa in sé, convinta di essere autosufficiente, insofferente perciò ad ogni regola, ogni concerto, ogni controllo.

Oggi si va oltre, nel territorio delicatissimo e inesplorato di un Quirinale attaccato nei comizi di propaganda di un Premier in difficoltà. Ogni spirito istituzionale è bruciato dalla mossa di Berlusconi, ogni senso dello Stato, qualsiasi spazio civico o almeno di responsabilità civile. O meglio, tutto questo è travolto e trasformato in qualcosa che non è un'incultura, ma la forza primitiva e durevole di un sentimento, com'è nei fondamenti di ogni populismo.

È quel sentimento berlusconiano di estraneità alle istituzioni e allo Stato, quel senso di "alienità" che lo fa abitare il vertice della Repubblica come un altrove, sentendosene insieme dominatore ed estraneo, occupante più che rappresentante, possessore esclusivo ma straniero, con tutti i diritti della leadership ma mai nessun dovere. È una concezione che già altre volte ho definito tecnicamente rivoluzionaria, perché vive le elezioni come un'ordalia, il consenso dei cittadini come un'unzione perenne, la conquista del governo come una presa del potere.

Non solo dunque ogni ipotesi di sconfitta elettorale alla fine del mandato e ogni prospettiva di cambio di maggioranza vengono vissute come un'usurpazione a un diritto esclusivo ed eterno, dunque una sorta di atto sacrilego contro un concetto metapolitico ed extraistituzionale, perché sacro: il destino unito di Berlusconi e dell'Italia. Ma anche nel corso di una normale, fisiologica legislatura repubblicana, ogni controllo e ogni vincolo costituzionale di garanzia, di equilibrio, di salvaguardia e di contrappeso - gli istituti su cui si reggono gli Stati democratici in tutto il mondo civile - viene visto come un limite ingiusto e improprio al libero dispiegarsi del carisma berlusconiano, capace di resuscitare ed esaltare l'Italia se solo le istituzioni si lasciassero ardere dal sacro fuoco del Cavaliere e dal suo spirito politico trasformato in opera sapiente e provvidenziale.

Di fronte a tutto ciò, come può un istituto "tecnico" come la promulgazione che di per sé non ha alcun valore politico, non apparire come un impaccio? È evidente a tutti che dopo la "sanzione regia" dello Statuto Albertino, la promulgazione è una dichiarazione formale della massima carica istituzionale che la legge è regolarmente approvata e dunque vale l'ordine "a chiunque spetti di osservarla e farla osservare". Ma è anche chiaro che la Costituzione prevede per il Capo dello Stato il potere di rinvio della legge alle Camere, con rilievi motivati. Dunque quel passaggio delle leggi al Quirinale è anche un passaggio di garanzia: e Ciampi ha dovuto ricordare che ogni rinvio al Parlamento di una legge è sempre stato motivato "dettagliatamente, convintamente e debitamente", senza dare ascolto a suggerimenti d'ogni tipo. "Convintamente", cioè nella personale, autonoma responsabilità del Capo dello Stato. "Debitamente", e cioè come espressione di un dovere del dubbio, ben più che di un diritto.

Ma è persino umiliante dover difendere istituti fondamentali e neutri dello Stato di diritto dall'antistatualità aliena di un Premier che guida le istituzioni sentendosene nemico, con l'impaziente spirito guerriero di chi vorrebbe cortocircuitare i meccanismi di controllo e di garanzia perché tutto - Costituzione, istituzioni, politica e Paese -potessero aderire alla sua biografia trasfigurando insieme nella mitologia berlusconiana, infine salvati e redenti.

Come in ogni populismo, c'è molto di primitivo ma molto anche di moderno in questa trasfigurazione eroica della politica. E faccio notare che questa retorica vera e non falsa, perché l'ego di Berlusconi non la recita, ma la vive e la indossa come la sua vera natura, è a modo suo capace di parlare al Paese, perché lo sollecita perennemente, lo nutre di promesse mentre giustifica il loro tradimento con colpe altrui, spettacolarizza la politica semplificandola, mentre la deforma in conflitto, si regge su concetti primordiali ma emotivi ed evocativi, indica ogni volta un sogno prigioniero ad un Paese sfibrato, ma anche destrutturato in alcuni fondamentali principi civici. È insomma quella "televisione a colori" che l'improvvido vero alfiere degli interessi berlusconiani al governo, il ministro Gasparri, ha evocato contro il "bianco e nero" dello spirito repubblicano di Ciampi.

Soprattutto, è una sostanza retorica che affiora nei momenti della crisi, prima della probabile sconfitta elettorale del Cavaliere. Che reagisce ancora una volta con il più classico paradigma populista, costruendo nel Capo dello Stato un vero e proprio capro espiatorio della propria incapacità di governare, sperando - come dicono gli studiosi del "sacrificio" - di deviare così i suoi drammi intestini sulla vittima designata, bruciando in quel rogo le sue colpe e le colpe del sistema tutto, condannato perché si oppone ad un destino.

Se è così, siamo agli inizi di una fase delicata e pericolosa. Cosa accadrebbe se dopo una sconfitta alle regionali il Cavaliere si accorgesse di precipitare verso la sconfitta alle politiche? Nella concezione tecnicamente rivoluzionaria che Berlusconi ha della politica, questo non è contemplato, non è permesso, semplicemente non è possibile. Avverto: l'agonia politica del berlusconismo sarà terribile.
(28 febbraio 2005)

http://www.repubblica.it/2005/b/sezioni/politica/rifogiustdue/crisistitu/crisistitu.html

Nessun commento:

Uno straccio di laicità

Sex crimes and the Vatican

Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001.