giovedì 21 aprile 2005

Le illusioni dello sconfitto

di MASSIMO GIANNINI

È finita. La parabola eroica del "leader vincitore", stavolta, si è chiusa senza altre sorprese. A Silvio Berlusconi, che ieri si è dimesso dopo 1.409 giorni di "regno democratico", va reso almeno un merito: ha svestito i panni del "monarca" in tono minore e dimesso. E dunque, per un autocrate mediatico cresciuto nel culto della personalità, in modo "quasi" responsabile. Lui, che aveva forgiato la sua immagine sul mito della legittimazione popolare e populista piuttosto che sulla mediazione politica e politicante, si è sottoposto a tutte le "stazioni" imposte dalla via crucis istituzionale che regola da mezzo secolo le crisi di governo di questo Paese.

Basterebbe già questo, a sancire la fine di un ciclo. Ieri, prima al Senato e poi al Quirinale, abbiamo assistito alla definitiva de-sacralizzazione dell'unto del Signore. Il Cavaliere "è sceso dal piedistallo", come ha detto con qualche malcelata soddisfazione uno dei suoi forse ex-alleati. Berlusconi non è più il padre-padrone della Casa delle Libertà. Se tutto va bene, sarà ancora giusto per un anno il presidente del Consiglio di un governicchio quadri-partito. Tenuto insieme solo dal gioco dei ricatti incrociati, e dalla mutua impossibilità delle singole forze che lo compongono di andarsene ciascuna per proprio conto. Ma da ieri, e a dispetto di tutte le convinte asserzioni formulate dal premier nell'aula di Palazzo Madama, il vincolo che ha retto il centrodestra in questi anni si è sciolto. Il Cavaliere riuscirà pure a rimettere in piedi un Berlusconi-bis.

Tenterà pure di far credere, attraverso un rimescolamento di poltrone ministeriali, che l'asse Forza Italia-Lega sarà riequilibrato a vantaggio del fronte An-Udc. Proverà pure a dimostrare, attraverso qualche altra trovata propagandistica, che un nuovo programma politico è ancora possibile, e che un altro miracolo economico per le famiglie, le imprese e il Sud è ancora probabile.

Ma sarà pura inerzia "resistenziale". Farà male allo stesso premier, che senza più un euro di tasse da restituire si esporrà al lento declino del suo strampalato modello di Berlusconomics. Farà male ai suoi alleati, che continueranno a litigarsi le spoglie di un'alleanza in calo progressivo di appeal elettorale. Farà male all'Italia, che con un deficit pubblico lanciato al 4,6% del Pil e una crescita inchiodata all'1% avrebbe bisogno nel frattempo di un vero elettrochoc per rimettersi in piedi. A questo punto le elezioni anticipate sarebbero la soluzione più equa e conveniente. Ma anche se nulla si può escludere, nessuno sembra disposto a rischiarle.

Il centrodestra consuma se stesso e il Paese in una doppia "condanna". È condannato a tenersi ancora per un anno questo leader: non ne ha altri capaci e coraggiosi al punto di accettare la sfida per il comando. È condannato a stare insieme chissà ancora per quanto: in base a una simulazione di Roberto D'Alimonte sulle politiche del 2001, nel maggioritario la Cdl senza la Lega perderebbe 52 seggi, senza l'Udc ne perderebbe 49, senza An ne perderebbe 159.
Come ha scritto mestamente ma lucidamente Giuliano Ferrara: "Non so come finirà, ma so che è finita".

Eppure, anche nella fine malinconica e quasi burocratica di ieri al Senato, Berlusconi ha trovato il modo per azzardare l'ultima forzatura. Da un lato, finalmente ha riconosciuto che la "coalizione attraversa una fase di difficoltà", e che la crisi di governo si innesca sul "segnale di disagio" trasmesso dagli elettori con il voto regionale. Meglio tardi che mai, per scoprire i fallimenti del progetto politico berlusconiano. Dall'altro lato, sorprendentemente ha collegato la crisi di governo non a quelle "difficoltà" a quei "segnali di disagio", ma ha detto sono "costretto a dimettermi da questa Costituzione". Non è mai troppo tardi, per verificare i fermenti della vena antipolitica berlusconiana.

Con il solito gioco di specchi, il Cavaliere confonde il suo mondo virtuale con la realtà fattuale. Scarica sulle regole, cioè sul sistema costituzionale, le tensioni tra i partiti, cioè l'assetto coalizionale. "Nei paesi europei dove il sistema istituzionale lo consente - dice - il presidente eletto dal popolo adegua la squadra di governo ogni volta che se ne presenta la necessità, con la sua diretta responsabilità, senza dunque le estenuanti crisi politiche e i passaggi parlamentari... In Italia, invece, per conseguire questo risultato la Costituzione richiede una serie di passaggi formali, a partire dalle dimissioni del governo. La riforma costituzionale di questa maggioranza adeguerà il nostro sistema di governo alle moderne democrazie. Ma ora, dovendo dar vita al nuovo governo, non mi posso sottrarre al passaggio attraverso una formale crisi di governo...".

In queste parole è racchiusa tutta l'anomalia della psico-politica berlusconiana. La possibilità che gli alleati-vassalli non siano d'accordo con il capo supremo non è contemplata. L'ipotesi che gli elettori-sudditi non apprezzino le scelte del sovrano assoluto non è prevista. Se qualcosa non funziona, se l'esercizio della leadership genera conflitti e non carisma, se la pratica di governo produce disaffezione e non consenso, la colpa è sempre di un fattore "esterno". Nel '94, a costringerlo a gettare la spugna furono i "comunisti", che non lo lasciarono "lavorare". Nel 2005 è "questa Costituzione", che lo obbliga alle "estenuanti crisi politiche e ai passaggi parlamentari".

Siamo all'ultima, brutale svalorizzazione della Carta del 1948. È colpa della Costituzione, se dopo quattro anni di legislatura si è sciolto il fragile patto che legava gli inquilini della Casa delle Libertà? È colpa della Costituzione, se Bossi (senza il quale si perde al Nord) ricatta Berlusconi con la devolution, se Follini e Fini (senza i quali si perde al Centro-Sud) ricattano a loro volta Berlusconi sul programma e sulla squadra, e se lo stesso Berlusconi (senza il quale nessun centrodestra vince da nessuna parte) non ha più risorse politiche per pagare tutti questi riscatti? È colpa della Costituzione, se questa formidabile maggioranza che stravinse al voto del 2001 ha perso poi in sequenza ben cinque tornate elettorali consecutive? È colpa della Costituzione, se oggi un blocco sociale ancora in attesa di rappresentanza organica rescinde il "contratto con gli italiani", che ieri aveva sottoscritto come simbolo della modernizzazione pubblica e dell'arricchimento privato?

Il nostro sistema elettorale, l'esecrato Mattarellum, è un ibrido ancora imperfetto, che accresce i poteri di interdizione e di veto delle forze minori. Il nostro sistema istituzionale, e la forma di governo che vi è sottesa, meritano senz'altro qualche correzione, che rafforzi il peso e l'efficienza dell'esecutivo. Eppure l'ingegneria delle Costituzioni e delle coalizioni è solo uno strumento. Lo si può manipolare (o manomettere) quanto si vuole. Ma serve a poco, se non è al "servizio" di un disegno politico comune e condiviso. Il famoso "modello Westminster" sarebbe comunque inutile, se in Gran Bretagna non ci fossero stati due grandi leader come Margareth Thatcher e Tony Blair, che all'interno dei propri schieramenti alternativi e agli occhi dei rispettivi elettori hanno saputo incarnare un progetto riformatore forte, visibile e coeso.

Esattamente quello che è mancato e che ormai irrimediabilmente manca al centrodestra e al Cavaliere. Per questo Berlusconi commette oggi una palese mistificazione: per spiegare la rottura nella sua maggioranza, denuncia la presunta inadeguatezza dello "strumento" (la Costituzione) e nasconde l'imperizia di chi non l'ha saputo usare (la coalizione). Per questo Berlusconi non è credibile, e tradisce la sua endemica inclinazione alle super-semplificazioni demagogiche, e per certi aspetti anche pericolose: per ricercare in altro modo una rilegittimazione tardiva, si illude che cambiare la (nostra) Costituzione sia sufficiente a rifondare la (sua) coalizione.

Non è così. Non sarà così. Per quanto il Cavaliere si sforzi con altre invenzioni di marketing politico, dopo questa crisi il suo "palinsesto" è fallito. Come ha scritto il Censis, in un'indagine diffusa proprio ieri sulle ultime elezioni, "già dalle scorse europee si era registrato un evidente affanno della capacità di traino del leaderismo carismatico". Con le regionali, l'affanno è diventato collasso. E se la terapia è quella ascoltata ieri a Palazzo Madama, un altro anno di Berlusconi bis non salverà il centrodestra.

(21 aprile 2005)

http://www.repubblica.it/2005/d/sezioni/politica/crisigoverno3/illusioni/illusioni.html

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