lunedì 17 gennaio 2005

Piano per scalare il Quirinale: il premier e il rischio Consolato

di MASSIMO GIANNINI

La "scalata al Quirinale" di Silvio Berlusconi è cominciata alla cena di fine d'anno, poco più di due settimane fa. Erano riuniti insieme al Plebiscito, il Cavaliere e i suoi alleati. Lui a metà pasto ha detto: "Allora, prima o poi dovete dirmi cosa volete fare da grandi. Io, per me, un'idea ce l'avrei...". Quasi tutti i presenti l'avevano preso come un scherzo. "Il Quirinale non mi dispiacerebbe affatto. Anche se sarebbe il posto ideale per Gianni Letta. Tu, Pier, cosa ne pensi?".

Casini aveva preferito non scherzare: "Io vorrei continuare a fare il presidente della Camera. Per quanto riguarda il Colle, caro Silvio, sta a te decidere. Quello che ti posso garantire è che, se tu sceglierai di candidarti alla presidenza della Repubblica, noi ti daremo il nostro appoggio, in modo leale..."Per capirci - aveva continuato Casini - non ti faremo scherzetti, tipo quello che Andreotti fece a Forlani nel '92, quando gli garantì l'appoggio della Dc e poi invece lo fece impallinare per due scrutini consecutivi e alla fine votò per Scalfaro".

Aveva ragione il presidente della Camera. Adesso quello che a Fini e Follini era sembrato un gioco di società è diventato un affare serio. La "scalata al Quirinale" di Berlusconi è tutt'altro che fantapolitica. E' un progetto vero. Sconta incognite di varia natura. Personali in primo luogo: gli scarti di umore del personaggio, i suoi continui stop and go, la tenuta della sua leadership. Politici in secondo luogo: l'esito delle prossime regionali, la durata di Ciampi, la composizione del Parlamento che uscirà dal voto del 2006.

Ma il disegno c'è. Il Cavaliere lo coltiva. E non ne fa mistero. Dopo quella cena l'ha anche confermato pubblicamente alla conferenza stampa di fine anno.
E' un disegno che ha una principale, ma anche una subordinata. La principale, che per Berlusconi sarebbe la soluzione migliore e indolore, ruota intorno a una disponibilità dell'attuale inquilino del Colle. Per una delle coincidenze che si verificano raramente nella storia repubblicana, la fine della prossima legislatura cadrà a maggio, nello stesso giorno della conclusione del settennato di Carlo Azeglio Ciampi. Se Ciampi rimanesse al Quirinale fino all'ultimo giorno, il suo successore sarebbe eletto dal nuovo Parlamento, che rifletterebbe i nuovi equilibri decisi dagli italiani con le elezioni generali intervenute nel frattempo.

Il Cavaliere preferirebbe evitare questo rischio. Allo stato attuale non ha alcuna certezza di battere il centrosinistra. Né alle regionali di quest'anno, né tanto meno alle politiche tra due anni. La sua unica possibilità per salire al Quirinale senza rischi, è che Ciampi decida di dimettersi prima della scadenza del suo mandato, che è il 13 maggio 2006. Secondo alcuni consiglieri azzurri, e secondo indiscrezioni riferite sui giornali "cognati" del premier, lui stesso avrebbe avviato una moral suasion sul presidente della Repubblica, per convincerlo a fargli questo favore.

Ma è un'ipotesi che non tiene. Lo stato dei rapporti tra le due istituzioni è già logorato, tanto più dopo il rinvio alle Camere della riforma dell'ordinamento giudiziario. Di più: Ciampi non ha affatto gradito l'autocandidatura del Cavaliere per il Colle, esplicitata proprio il giorno prima del messaggio di Capodanno del Capo dello Stato. L'ha considerata "l'ennesimo atto di scortesia istituzionale". E comunque ha già detto a sua volta ciò che pensa sul tema. Non farà il gesto che fece Francesco Cossiga nell'aprile '92, quando si dimise in pieno semestre bianco, con due mesi d'anticipo. "Ho già confermato tutti i viaggi che ho in programma - ripete Ciampi - fino all'ultimo. E resterò al mio posto, fino all'ultimo giorno del settennato".

Per questo la scalata al Quirinale di Berlusconi dovrà eventualmente passare per una subordinata. E sul piano del galateo istituzionale e della correttezza costituzionale, questa subordinata è anche più discutibile. Lo stesso Cavaliere l'ha illustrata così agli alleati: "Vinciamo le elezioni del 2006, e poi io, sulla scia del consenso popolare che ho ottenuto, decido se tornare a Palazzo Chigi o trasferirmi sul Colle". In quest'ultimo caso, quasi scontato, secondo i giornali "amici" il candidato già scelto per Palazzo Chigi sarebbe Gianni Letta.

Siamo al cuore del problema. Al nucleo involutivo del berlusconismo, che sovverte il ciclo evolutivo del parlamentarismo. Nessuno può contestare il diritto elettivo del Cavaliere ad ambire alla carica di presidente della Repubblica. Possono farlo tutti i cittadini. A maggior ragione può farlo lui. Ma non in questo modo. Non con l'ennesima e la più estrema torsione delle regole. Non con questa pretesa ulteriore di far coincidere la biografia collettiva della nazione con la sua biografia personale.

Berlusconi non può, senza manomettere i principi della democrazia rappresentativa, affrontare una campagna elettorale chiedendo una delega in bianco agli italiani. Votate per me, poi vedrò io come e dove esercitare il mandato che mi avete affidato. Non può chiedere agli elettori di aderire al suo modello istituzionale, una forma di governo che prevede formalmente l'elezione diretta del presidente del Consiglio, con tanto di indicazione del nome sulla scheda, e poi declinarlo a suo piacimento, sostanzialmente come un'elezione diretta del presidente della Repubblica.

Questo cambia la natura della contesa politica. La cambia a tal punto che la mossa del Cavaliere sul Quirinale ha aperto un dibattito speculare, e altrettanto pericoloso, sul fronte opposto. Anche nell'Ulivo c'è chi ha cominciato a chiedersi se non sia il caso di lanciare subito un nuovo ticket tra Quirinale e Palazzo Chigi, da contrapporre a quello lanciato da Berlusconi.

Anche nell'Ulivo c'è chi ha cominciato a chiedersi se non sia il caso, vinte le elezioni, di traslocare Romano Prodi al Quirinale, e di designare un altro leader alla guida del governo. Stavolta non ha torto Massimo D'Alema quando dice che "se il principale leader di uno dei due schieramenti si candida al Quirinale, si rompe con un metodo che è quello della ricerca del massimo consenso, che noi seguimmo per l'elezione di Ciampi, e si dà alle elezioni politiche un contenuto del tutto nuovo, in senso presidenzialista".

Quando stava all'opposizione, il Cavaliere parlava tutt'altro linguaggio. "Noi non accettiamo che le regole del gioco vengano cambiate mentre si sta giocando", disse alla Camera il 16 marzo 1995, nel discorso con il quale annunciava il voto contrario alla fiducia al governo Dini. Oggi, con la scalata al Quirinale, Berlusconi stravolge le regole del gioco mentre la partita è in pieno corso. Altrove esiste un presidenzialismo costituzionale. Da noi si va verso un presidenzialismo fattuale. Il cambiamento avviene senza che si riscriva la Costituzione in senso formale. Basta forzarla in senso materiale.

La settimana scorsa, in un editoriale su Libération, Alain Duhamel poneva la questione della pericolosa metamorfosi della Quinta Repubblica in Francia. "Jacques Chirac - scriveva - ormai incarna una Repubblica Consolare. Ricorda il Consolato del generale Bonaparte", quello che tra il 1799 e il 1804 vide Napoleone assumere poteri "para-militari" incontrastati. Oggi come allora, secondo molti osservatori francesi, Chirac, "presidente simbolo della nazione e garante delle istituzioni, non si accontenta di dirigere la politica estera e i principali orientamenti di politica interna, come i suoi predecessori. Esercita invece una sorta di "presidenza assoluta". Ma in uno stato di diritto - era la conclusione dell'editoriale - nessun potere può sfuggire al controllo di altri poteri".

Questo è il dibattito attuale in Francia, dove esiste comunque un regime codificato e democraticamente collaudato di semi-presidenzialismo. Dove i principi scolpiti nella Costituzione del 1958 attestano chiaramente che questo, per esistere e funzionare, è e deve essere sempre e comunque un regime "ad autorità duale".

Viene da chiedersi quale dibattito si dovrebbe allora sviluppare in Italia, dove tra due anni potremmo ritrovarci, di fatto anche se non di diritto, con un leader assai più "assoluto" di quello francese. Un regime non duale, non diarchico, ma dove invece comanda una sola "testa". Un capo che si autocandida alla presidenza della Repubblica, guida il più grande partito di maggioranza, dirige in pratica la coalizione di governo, possiede il più grande impero mediatico del Paese e per di più, senza nessun contrappeso istituzionale, sceglie e nomina premier uno dei suoi alleati più fedeli.

Così anche l'Italia, senza saperlo e senza averlo deciso, rischia di trasformarsi. Prima di Berlusconi era una Repubblica parlamentare. Con Berlusconi può diventare molto più che una Repubblica Consolare.
(17 gennaio 2005)

http://www.repubblica.it/2005/a/sezioni/politica/dibacdldue/colle/colle.html

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