di ALESSANDRO ROBECCHI
Forse la statistica non è una scienza esatta, ma qualcosa conta. Per esempio, è statisticamente difficile che uno si faccia truffare due volte allo stesso modo. Potranno fregarlo forse in altri mille modi diversi (e lo fanno!), ma non proprio alla stessa maniera in cui l'hanno già derubato una volta. Eppure, ecco qui: battendosi come leoni contro la statistica (e la logica) pare che gli italiani non siano particolarmente indignati di fronte all'annuncio della nuova priorità nazionale: costruire nuovi stadi. Abbiamo bisogno di nuovi stadi come il pane, in effetti. Vorremmo ospitare gli Europei di calcio del 2012 e quindi è assolutamente prioritario costruire nuovi bestioni in cemento armato. Quelli vecchi non vanno bene, dopotutto li abbiamo rifatti soltanto quindici anni fa. Siamo un paese dalle mille risorse, e ci rifacciamo gli stadi più frequentemente di quanto la signora Pina si rifà il tinello.
Dicono le cronache che il monarca in carica fosse titubante. Dopotutto, a una popolazione che si schianta in treno perché si risparmia sulla sicurezza potrebbe non far piacere di dedicare tanta energia per ricostruire cose che già esistono. Ma pare che Franco Carraro - un grande collezionista di presidenze - abbia sventolato sotto il naso del re un bigliettino con scritto che il Portogallo con gli Europei di pallone ha aumentato di un punto il suo prodotto interno lordo.
Il re, con gli occhi a dollaro, ha dato la sua benedizione. E rieccoci qui a costruire stadi. Il dolce sapore della nostalgia ci pervade se ripensiamo all'ultima volta che ci siamo rifatti gli stadi. Notti magiche. Il pupazzo Ciao... deliziose madeleine di quando eravamo tanto fessi da pensare di essere ricchi.
Qualche imbecille ci disse che per ospitare i Mondiali dovevamo avere stadi coperti. Ed eccoci lì a dannarci l'anima per coprire gli stadi. Nessun mondiale dopo di quello ebbe stadi coperti: fu uno scherzo, insomma. Spendemmo 1.248 miliardi di lire, appena l'84 per cento in più del preventivo iniziale. Alcuni lavori sforarono di oltre il 200 per cento (Torino). Si diede lavoro a molta gente e soprattutto alle procure della Repubblica che per anni hanno indagato su quella nostra inesausta voglia di rifare gli stadi. Alcuni lavoratori edili cascarono dalle impalcature, mi pare il minimo per un paese civile. Alcune mirabolanti realizzazioni come stazioni e infrastrutture si possono ancora osservare mentre marciscono allegramente, inutilizzate e coperte di erbacce.
Fu l'ultimo ballo del craxismo imperante e, a pensarci adesso, proprio molto simile a una serata di gala sul Titanic. Sembra un film in costume, ma sono passati appena quindici anni. Capirete che gli stadi non vanno più bene.
Si dirà che quella classe dirigente fu spazzata via, che dopo tanti guasti siamo ora in grado di ricostruire il Paese e soprattutto, gli stadi. Eppure, scorrendo l'indice dei nomi, ecco molti casi di omonimia. Naturalmente il Franco Carraro che oggi è presidente della Federazione Gioco Calcio (oltre che consigliere di amministrazione di Capitalia) non ha nulla a che vedere con il Franco Carraro di allora, che era sindaco di Roma, presidente dell'organizzazione dei Mondiali. E del resto nemmeno l'attuale monarca è lo stesso Silvio Berlusconi che quindici anni fa era presidente del Milan, palazzinaro (e costruttore di stadi). Si tratta dunque di una classe dirigente completamente nuova e diversa, che chiede giustamente di superare le malefatte del passato e di costruire finalmente dei nuovi stadi, di cui abbiamo tanto bisogno. Come direbbe Biscardi «tutta l'Italia lo vuole!».
Ora basta con i bei ricordi, corriamo tutti a costruire nuovi stadi, presto! Carraro ha lanciato l'idea e Berlusconi l'ha subito accettata e benedetta. Un punto di prodotto interno lordo! Ma ve lo immaginate? Programmazione? Pianificazione e urbanistica? Sono cose da comunisti che certo non hanno nulla a che fare con il gioco del pallone. Quindici anni fa volevamo stadi grandi. Ora vogliamo stadi piccoli con il ristorante, la piscina e la sala da the. E' la normale evoluzione di un paese, il procedere del suo sviluppo culturale. Si fa notare, con gentilezza, che allora furono sperperati denari pubblici, mentre oggi si punta sui privati, garanzia di serietà. Tipo Cirio, tipo Parmalat, per intenderci, quelli che si facevano i conti in banca coi trasferelli. Poche storie, comunque, è un fatto che abbiamo impellente e insopprimibile bisogno di nuovi stadi. E che anche questa volta ci sarà un Franco Carraro a vigilare, attentissimo e severo, che vada tutto bene. Tranquilli.
tratto da il manifesto del 16/01/2005
martedì 18 gennaio 2005
All'ultimo stadio
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