L'abbassamento delle tasse sarà poco più che simbolico e non servirà a Silvio Berlusconi, come il precedente, per ottenere nuovi consensi
di Claudio Rinaldi
Il 2004 passerà alla storia come l'anno del grande abbaglio fiscale. Silvio Berlusconi, che per tre anni si era pressoché dimenticato di aver promesso 'meno tasse per tutti', ha riscoperto il tema quando si è reso conto, in marzo, che la sua popolarità era in declino. Che a quel punto si affidasse un po' alla demagogia era ovvio e perdonabile. Ma dopo le sconfitte elettorali di giugno e di ottobre la sua predicazione sulle tasse è diventata ossessiva, asfissiante, totalitaria. Culminando, all'indomani del 2 novembre, in un teorema che perfino il chiarissimo professor Domenico Siniscalco si è rassegnato a ripetere con la diligenza di uno scolaretto: George W. Bush "ha vinto perché ha fatto una politica fiscale espansiva, che ha aumentato il reddito disponibile delle famiglie".
Ebbene, il premier e il suo ministro si illudono se davvero credono che qualche sconticino sulle imposte possa rilanciare le fortune della Casa delle libertà. Si può anzi osservare, parafrasando Winston Churchill, che mai tante parole sono state sprecate così a lungo per così poco.
1. Ai due volenterosi tagliatori di tasse sfugge, innanzitutto, che la riconferma del presidente degli Stati Uniti non ha avuto molto a che fare con quella che in loro appare ormai una fissazione senile. Come risulta da un sondaggio che nessuno ha contestato, soltanto cinque elettori Usa su cento ritenevano che le tasse fossero l'argomento cruciale; per il 21 per cento contavano di più i valori morali, per il 20 l'economia, per il 19 il terrorismo, per il 15 l'Iraq, per l'8 la sanità. Eppure gli americani avevano fama di persone assai sensibili alle ragioni dei loro portafogli. E gli sgravi di Bush erano di una generosità inusitata: 1.350 miliardi di dollari in dieci anni, il 2,5 per cento del prodotto interno lordo.
2. Al confronto, quelle che intende elargire Berlusconi non sono che squallide mance. Nell'insieme equivarranno allo 0,5 del Pil, e il loro impatto sui singoli cittadini sarà trascurabile. La stragrande maggioranza dei contribuenti, il 97 per cento, guadagna infatti non più di 33.500 euro all'anno; per tutti costoro i risparmi generati dalla riforma berlusconiana non supereranno i 500 euro annui, grosso modo il prezzo di un ottimo pullover. Possibile che le masse se ne sentano gratificate al punto da riversare valanghe di voti sul sedicente benefattore? Concluderanno piuttosto che la montagna delle chiacchiere sulle tasse ha finito per partorire un topolino.
3. Se riflettesse sulle sue disavventure recenti, del resto, Berlusconi capirebbe subito che i suoi taglietti fiscali non sono l'arma letale dei suoi sogni. Nel gennaio 2003 ne attuò uno da 6 miliardi di euro circa, simile a quello ora in discussione; purtroppo per lui, non se ne accorse nessuno. Ciò non ha impedito al premier, in vista delle ultime europee, di tappezzare i muri del paese di poster che recavano una scritta trionfalistica, '28 milioni di italiani pagano meno tasse'. Il risultato dell'irritante vanteria è stato il crollo di Forza Italia dal 29 al 21 per cento dei suffragi.
4. Ma a confermare l'irrilevanza economico-politica del 'secondo modulo della riforma fiscale', come pomposamente viene definito, è soprattutto il paragone con gli obiettivi enunciati nel Contratto con gli italiani dell'8 maggio 2001.
In base all'incauto documento, per i redditi fino a 100 mila euro si sarebbe dovuto versare al fisco un modestissimo 23 per cento; dal 1 gennaio 2005 invece questa aliquota di favore si pagherà soltanto fino a 27 mila euro o giù di lì, mentre al di là di tale soglia scatterà un più pesante 33 per cento, che diventerà un 39 a partire dai 35 mila euro.
Quanto ai redditi di oltre 100 mila euro, essi avrebbero dovuto essere assoggettati all'aliquota massima del 33 per cento; invece verranno tassati al 39, senza contare l'ulteriore balzello eufemisticamente detto 'contributo etico'. Ce n'è abbastanza perché quanti tre anni e mezzo fa abboccarono all'amo forzista adesso si sentano presi in giro.
Se proprio vuole fare tesoro della lezione dell'amico George W., dunque, a Berlusconi conviene meditare su altri capitoli. Per esempio sul trattamento inflitto da Bush all'avversario John Kerry, dipinto spregiativamente durante la campagna come "il più liberal di tutti i senatori". Nel campo degli attacchi personali, in fondo, il nostro presidente del Consiglio è stato un pioniere: chi non ricorda le sue invettive contro i presunti comunisti? Non era una tattica particolarmente elegante, ma dava i suoi frutti. E forse era meno volgare della parola d'ordine di oggi, 'Lasciare più soldi nelle tasche degli italiani'.
Tratto da L'espresso
martedì 16 novembre 2004
Tanto rumore per pochi euro
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