di Antonio Padellaro
Primo. Carlo Azeglio Ciampi è il presidente della Repubblica italiana e, come tale, è anche il presidente del Consiglio superiore della magistratura. Come presidente di tutti i magistrati Ciampi ha giudicato gravemente incostituzionali, cioè in aperta violazione della Costituzione della Repubblica italiana, non uno ma sette punti cruciali e nevralgici nella legge Castelli sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. Legge che ha rinviato alle Camere. Come presidente di tutti gli italiani Ciampi ha colto lo smarrimento dei cittadini e ha risposto con il senso istituzionale che tutti gli riconoscono di fronte al tentativo palese e violento di sottomettere il potere giudiziario e porlo alla mercé del potere esecutivo.
Potere esecutivo oggi rappresentato da Berlusconi, premier prescritto per il reato di corruzione di un giudice, e dal suo clan di imputati pluricondannati per corruzione di giudici e reati di mafia. Sottomissione tentata dal capo e dal clan in aperta violazione della Costituzione che sommamente garantisce l’equilibrio dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.
Secondo. Nel messaggio al Parlamento il capo dello Stato vivamente deplora l’andazzo governativo che consiste nel costringere i deputati e i senatori a gettone ad approvare le leggi a colpi di maxiemendamenti. Ciò per evitare il rischio delle troppe votazioni nel caso i gettoni non bastassero. La cosiddetta riforma Castelli, per esempio, è stata compressa sotto vuoto spinto in due soli articoli. Il secondo dei quali, osserva indignato Ciampi «consta di 49 commi ed occupa 38 delle 40 pagine di cui si compone il messaggio legislativo; e ciò in aperto spregio dell’articolo 72 della Costituzione, secondo cui ogni legge deve essere approvata «articolo per articolo e con votazione finale».
Terzo. Di fronte a una simile eclatante figuraccia il capoclan e ministri del clan sorridono, minimizzano e fanno gesti per segnalare ad amici e complici di non temere che poi qualche aggiustamento si trova. L’irresistibile ministro Castelli si dice addirittura soddisfatto e sospira un «poteva andare peggio» che la dice lunga sull’opera di scasso costituzionale alla quale si è diligentemente applicato con il consiglio dei giuristi dello studio Previti.
Davvero infaticabile e diuturno il lavorìo del clan per sfuggire ai rigori della legge. Di giorno vengono condannati o prescritti nelle aule di giustizia. Di notte studiano un ingegnoso “pacchetto anticrimine” per consentire la non punibilità del braccio destro, Previti, due condanne per corruzione, e restituito con la legge personale alla più incontaminata innocenza. Poi toccherà al braccio sinistro, Dell’Utri, la cui salvezza dalle patrie galere (nove anni) prevede l’abolizione di un intero blocco, o giù di lì, del codice penale: quello sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
La banda del buco scassina e sfonda e non importa se nello sforzo di aprire un varco ai compari si deformi lo Stato di diritto e cadano interi muri maestri di legalità. Per amnistiare Previti riducono la prescrizione per il reato criminale di associazione mafiosa. Per amnistiare Previti riducono la prescrizione per l’usura. Per amnistiare Previti riducono la prescrizione per l’incendio doloso. Per amnistiare Previti riducono la prescrizione per la corruzione e per la corruzione in atto giudiziari. «Voi», gli ha detto in faccia alla Camera il segretario dei ds Piero Fassino, «riducete la prescrizione per reati che vengono commessi dalla criminalità organizzata, che inducono un allarme sociale gravissimo e che producono una lacerazione del tessuto sociale del paese». Uno scempio tale che perfino il direttore di «Libero» Vittorio Feltri, che con il premier non è certo maldisposto, si è detto un po’ schifato: rivolto a Berlusconi gli ha spiegato che tutti ma proprio tutti gli italiani hanno capito che certi aggiustamenti del Codice «sono volti a parare le terga di due signori a lei molto vicini». Silenzio di tomba invece dalle parti del «Corriere della Sera» dove Paolo Mieli tace ancora sgomento per l’incredibile vulnus inferto alla giustizia italiana dall’intervento di Dario Fo al congresso di Magistratura Democratica.
Stanco di confezionare leggi ad personam, e discredito delle istituzioni in quantità industriale, il clan ha pensato di risolvere il problema alla base con l’apposita legge Castelli. Attraverso, cioè, l’intimidazione dei magistrati, l’indebolimento del Csm (l’organo di autogoverno dei giudici) e il potere del ministro di Giustizia di decidere carriere, promozioni e punizioni. Gli è andata male perché Ciampi li ha fermati. Ci riproveranno di sicuro. E se gli servirà, faranno anche di peggio. Almeno per oggi, però, la giustizia non è cosa loro.
apadellaro@unita.it
da l'Unità del 17/12/2004
venerdì 17 dicembre 2004
La Giustizia non è cosa loro
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