mercoledì 2 febbraio 2005

Guerra, guerriglia e voto

di Furio Colombo

In Italia si è riformato quello che una volta si chiamava «l'Arco costituzionale» . In tempi di democrazia italiana comprendeva tutti i partiti che avevano lottato contro il fascismo o almeno consideravano base fondante del Paese la Resistenza e la Costituzione. Erano esclusi i neo fascisti. L'arco si è riformato. Include tutti coloro che accettano le graduatorie di fatti stabilite dal governo come «importanti». Il governo stabilisce il fatto che conta. Chi non ci sta è fuori. La parola «radicale» è stata tolta al suo contesto storico (e alla designazione politica italiana che indica i militanti di Marco Pannella) per farne una gabbia. In essa, di volta in volta, vengono messi in mostra e additati, come stravaganti o come nemici, coloro che non riconoscono vincolante l'ordine del giorno del governo.

Esempio: l'altra settimana Panorama nota che l'Unità non ha messo, come tutti, in prima pagina, la notizia che la giudice Forleo stava per rilasciare due islamici (sospetti di pericolosi contatti) per mancanza di indizi. Immediatamente, secondo il modello Castelli, partono gli ispettori. I colleghi di Panorama esigono una spiegazione. La ottengono, lunga, motivata. Con riferimenti precisi (quel giorno l'Unità non voleva ignorare l'ottima vittoria elettorale dell'opposizione in due collegi di ferro berlusconiani). Panorama ha fatto della finta intervista venti righe sarcastiche. Ha esposto la gabbia dei radicali irriducibili, ovvero di coloro che non seguono l'odg del governo.

Esempio: l'Unità, pur sapendo che sul voto iracheno è d'obbligo la celebrazione anche un po' affannata, meglio se accompagnata da un riconoscimento di errore ha notato già dal titolo che quelle elezioni hanno certo un valore.

Hanno votato in tanti. Ma tutti sciiti nelle regioni sciite e tutti curdi nelle regioni curde, mentre i sunniti non hanno quasi votato. Vede il pericolo del voto diviso. Così facendo si mette fuori dal nuovo arco di osservanza e viene subito esposta nella gabbia dei comportamenti pericolosi.

Ecco il titolo del Corriere della Sera del 1° febbraio: «Il partito degli irriducibili». Il pacchetto comprende chi ha avuto dubbi sulla guerra, a causa delle gravi bugie che l'hanno provocata, chi ha avuto dubbi sulla missione italiana perché, sotto bandiera belligerante inglese e americana, non poteva essere missione di pace. Perciò, come dice quell'irriducibile dell'ex Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, viola la Costituzione. E coloro che hanno dubbi sul voto, perché è stato abbastanza grande (certo molto più del previsto) ma diviso lungo linee rigorosamente etniche e religiose. Ce ne è abbastanza per essere esposti nella gabbia degli irriducibili.

Un tempo un redattore si sarebbe domandato «irriducibili» rispetto a cosa? La stampa di tutto il mondo prende atto del sorprendente numero dei votanti, ma non fa finta di non vedere che stanno nascendo tre Iraq, uno sciita, uno curdo, uno sunnita (che non ha votato). Non divide i giudizi in ortodossi e irriducibili perché, altrimenti, si dovrebbe considerare «irriducibile» il giornalista inglese Robert Fisk, l'unico ad andare in giro da solo per le strade di quel Paese e a dire la gravità di ciò che accade ogni giorno. Il giornale di Fisk oggi intitola «Dubbi su Allawi» e «L'altra Iraq aspetta ancora il vento del cambiamento».

E si dovrebbe considerare «irriducibile» il Washington Post che, il 2 febbraio, apre con questo titolo: «Voto in Iraq, vantaggi per Bush , ma persino alla Casa Bianca vi sono dubbi e incertezze».

Washington può avere dubbi e incertezze perché la sua opinione giornalistica non subisce ispezioni dei colleghi ortodossi e ognuno è libero di avere dubbi sulla guerra in Iraq e di avere ansie sul voto in quel Paese e sulle effettive conseguenze di quel voto, senza essere rinchiuso nella gabbia degli irriducibili. Dovunque nei Paesi democratici, le opinioni hanno peso e dignità uguale. Da noi c'è la grande demarcazione: chi sta al gioco unico e si presta (magari con qualche scostamento di punto di vista) a seguire l'ordine del giorno del governo. E chi - evidentemente privo di istinto politico - resta fuori.

* * *

Questo è il caso dell'Unità, quotidiano malvisto perché - pur essendo vicino all'Indipendente al Guardian di Londra e a buona parte dei principali quotidiani americani - non sta al gioco di squadra che in questo periodo tormenta il giornalismo italiano. Un giorno se ne parlerà nelle scuole di giornalismo. Per ora, consci di essere, come dicono i nostri colleghi, «irriducibili» , solo perché condividiamo i dubbi di Arthur Schlesinger e le ansie di Ted Kennedy (e dell'ultimo numero di Newsweek che intitola in copertina: «Chi sono gli insorti e perché le elezioni non li fermeranno?») ci limitiamo a un breve riassunto. Sui tre punti in cui si finge di credere che una diversa e motivata opinione (condivisa da mezzo mondo) sia prova di imperdonabile estraneità alla condivisa causa della lotta contro il terrorismo.

1. La guerra. Insieme a metà dell'America e a quasi tutta l'Europa, abbiamo avuto paura dell'idea (fare una guerra a uno Stato per combattere il terrorismo che non è uno Stato) del disastro (le decine di migliaia di morti iracheni non sono mai state contate ma ci resta - esemplare e straziante - l'immagine del bambino senza braccia) e delle conseguenze che abbiamo temuto e che si sono rivelate spaventose. Infine, mentre infuriava e infuria il più spaventoso "dopoguerra" che si sia mai visto, insieme a tutto il mondo abbiamo appreso che le ragioni per scatenare la guerra erano false. Avete qualche ripensamento da suggerirci?

2. La guerriglia. Si è scatenata in modi, forme e fenomeni che hanno messo a dura prova il linguaggio giornalistico del mondo. Incuranti del fatto che il governo americano definisce senz'altro ed esclusivamente «terrorista» chiunque si opponga all'occupazione eppure, alcune settimane fa, proprio George Bush ha dichiarato: «Se fossi iracheno anch'io mi batterei per scacciare gli invasori dal mio Paese») i giornalisti americani usano tre termini diversi: «insurgents», «guerrilla groups» e «terrorists».

S'intende che neppure l'intelligence americana sa se e come e in che modo queste tre realtà diverse possono incrociarsi o dividersi. Ma almeno, azione per azione, appaiono «insorti» gli abitanti di Sadr City (la periferia povera di Baghdad) di Najaf, di Falluja, di Mossul, nel momento e nelle fasi di rivolta. Sono considerati «guerriglieri» quella parte degli insorti che si danno strutture militari e sembrano capaci di organizzarsi con una certa stabilità. E vengono definiti terroristi coloro che compiono atti terroristici, a volte tremendi e selvaggi per i quali, a differenza degli insorti e dei guerriglieri, non sembrano avere appoggio popolare di nessun tipo, anche per il gran numero di vittime civili che deliberatamente provocano.

Per quanto sia dato di sapere, l'Italia è l'unico Paese nell'arco dei Paesi democratici e anche fra coloro che fanno parte della cosiddetta «Coalizione dei volenterosi», in cui il governo impone - pena reazioni furiose anche verso magistrati - che siano considerati terroristi tutti coloro che si oppongono, in qualsiasi modo e forma, all'occupazione militare. E tendono ad assimilare ai terroristi coloro che, scrivendo articoli e sentenze, cercano una distinzione e una diversa valutazione di comportamenti all'interno della tragedia Iraq, proprio come si fa negli Stati Uniti.

3. Il voto. C'è evidentemente da parte di tutti una risposta di sorpresa favorevole e di apprezzamento per il coraggio degli iracheni che - in numero così grande - sono andati a votare. È altrettanto inevitabile notare che il voto, diviso rigorosamente lungo linee religiose e secondo frontiere etniche, non può essere e non sarà la nascita di un nuovo Iraq ma solo una rischiosissima fase transitoria in cui è possibile una forma di accordo ma anche conflitti spaventosi, ovvero (sarebbe facile citare vari autorevoli studi americani) la guerra civile tanto temuta. Coloro che esigono adesso e subito la festa e dichiarano «irriducibili» (irriducibili a cosa?) coloro che non ci credono potranno tornare a rivisitare il doloroso e scottante argomento fra tre o quattro mesi.

Potranno dirci allora se «irriducibile» è il comportamento di chi resta vicino alla constatazione dei fatti o quello di coloro che - avendo voluto la guerra - ne raccomandano adesso l'ottimo esito. Noi abbiamo temuto la guerra, continuiamo a fare l'inventario di morti, feriti e orrore, continuiamo ad avere paura, come tanti americani, che tutto ciò non finirà col voto diviso e non finirà tanto presto. Per questo, non in nome del pacifismo ma del buon senso, vorremmo che i soldati italiani tornassero a casa subito. Esattamente come lo desiderano e chiedono padri e madri e mogli e figli bambini di tanti soldati americani.

da l'Unità del 02/02/2005

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