domenica 25 settembre 2005

Quel genio che ha messo l'Italia in mutande

di EUGENIO SCALFARI



RICORDO molto bene quella sera del 25 luglio del '43. Avevo diciannove anni e passeggiavo con alcuni amici per il corso di Sanremo quando dagli altoparlanti installati in strada la voce dell'annunciatore scandì con tono ancora mussoliniano la notizia delle dimissioni del Duce e la nomina al suo posto del maresciallo Pietro Badoglio. Fummo tutti presi da un'ondata d'entusiasmo. A un soldatino di leva che passava di lì per rientrare in caserma offrimmo quasi di forza un frappè alla banana.

Solo alcuni anni dopo capii che i gerarchi che avevano votato in Gran Consiglio la sfiducia al Capo e l'appello al Re si aspettavano d'esser loro i protagonisti della transizione dalla dittatura alla democrazia. Dino Grandi pensava che Sua Maestà avrebbe chiamato lui a Villa Savoia per dargli l'incarico. Invece Sua Maestà, detto Sciaboletta, chiamò l'esercito per governare e i carabinieri per arrestare Mussolini. Lungi da me l'idea di confrontare situazioni non paragonabili e personaggi di tutt'altro conio. Ma una ragione c'è per associare alla situazione attuale quella di 62 anni fa: anche Casini e Follini (e in minor misura Fini) hanno operato in questi giorni per mettere fuori gioco Berlusconi pensando di prenderne il posto e portare la Casa delle libertà alla vittoria o almeno ad una decente sconfitta che salvi comunque il centrodestra dalla dissoluzione.

Questo tentativo finora ha partorito, dopo fortissime doglie, soltanto il topolino delle primarie che Berlusconi ha accettato mettendo però subito in chiaro che bisognerà intendersi sulla procedura. Ha anche anticipato che a suo parere si dovrebbero riunire in assemblea tutti gli "eletti" del centrodestra (parlamentari, sindaci, presidenti di Regioni e Province, eccetera) e votare il leader.

Sia questa o un'altra la procedura, poco importa. Lo scontro interno alla Casa delle libertà è stato già derubricato: non più sul nome del leader ma sulle regole con le quali sceglierlo. Gli interessati (Casini e Follini) hanno magnificato questo "topolino" come una vittoria campale della loro tesi.

"Si è passati", hanno detto, "dalla monarchia assoluta alla Repubblica o almeno alla monarchia costituzionale". E gran parte dei "media" hanno fatta propria quest'interpretazione aggiungendo che, quand'anche Berlusconi uscisse vincitore da queste fantomatiche primarie, non sarà più lui ma, appunto, un monarca costituzionale.

Mi permetto di dissentire totalmente.

Quanto al risultato, indipendentemente dalla procedura che sarà scelta, darei la riconferma di Berlusconi al 90 per cento.

Quanto al suo mutamento di immagine lo reputo impossibile al cento per cento. Un Berlusconi riconfermato dopo una competizione con i suoi alleati-avversari sarebbe più forte che mai per regolare i conti all'interno della coalizione.

Penso anche che il centrodestra sia, specie dopo la farsa finale Siniscalco-Tremonti-Fazio, in condizioni disperate, quale che sia l'uomo che ne guiderà le sorti da qui alle elezioni. Il progetto casinian-folliniano di esser loro a guidare la transizione non esiste. Hanno governato insieme, si sono insieme spartiti il potere, hanno votato allineati e coperti le stesse vergognose leggi e quindi - spero - affonderanno insieme. Potrebbe salvarli solo l'uscita immediata dall'alleanza e la presentazione solitaria alle elezioni. Ma questo non lo faranno mai.

* * *

Come non bastasse è tornato in campo Tremonti. Si è fatto perfino pregare.

Figurarsi. Ha posto condizioni. Ha obbligato Fini ad essere il suo principale sostenitore dopo che era stato lo stesso Fini a farlo defenestrare pochi mesi fa. Se la vendetta è un piatto che si mangia freddo, Tremonti l'ha gustato chambré. Forse più gustoso ancora.
Né è mancata l'ambita approvazione del Capo dello Stato, costretto anche lui dall'imminenza della legge finanziaria a fare buon viso a cattivissimo gioco. Perché Tremonti sarà pure un genio, come recita ad ogni cantone Cossiga l'emerito, ma se c'è un responsabile della catastrofe in cui è finita l'economia italiana, questo è lui e non sarà certo la finanziaria 2006 da rattoppare ad alleviare in limine litis le sue responsabilità.

Vorrei brevemente enumerarle affinché i nostri concittadini non dimentichino.
1. Ispirò e avallò la politica del taglio delle aliquote Irpef (puntando soprattutto sullo sgravio dei redditi medio-alti) in una fase recessiva dell'economia mondiale, europea, italiana. Finì come sappiamo: quasi 20 miliardi di euro buttati al vento senza alcun effetto sull'economia.
2. Ingannò fin dall'inizio gli italiani accreditando cifre false sulla pubblica finanza e sul trend della spesa, dell'entrata e soprattutto del Pil, scommettendo su una ripresa data per certa fin dal 2002 e ancora mai avvenuta e non prevedibile neppure nel 2006. Così mentì al Paese e al Parlamento consapevolmente e ripetutamente.
3. Per colmare i disavanzi e il deficit si prodigò nella finanza creativa e nei provvedimenti-tampone una tantum: prestiti bancari concessi da enti e banche pubbliche camuffate da società per azioni e quindi sottratte alla contabilità dello Stato (Ferrovie, Poste, Cassa Depositi e Prestiti).
4. Tentò (ma senza riuscirci) di mettere le mani sulle fondazioni bancarie e quindi sulle banche da poco privatizzate, per ricondurle al potere del governo. Per fortuna Fazio in quell'occasione impedì che il progetto andasse in porto, una delle poche buone cause sostenute dal governatore.
5. Indebolì fortemente l'autorità della Commissione europea sui deficit degli Stati membri con l'obiettivo di riconquistare la sovranità nazionale in materia, causa non ultima dell'impasse in cui si trova l'Unione europea.
6. Fu l'artefice massimo dei condoni d'ogni genere e tipo e quindi degli effetti perversi che essi hanno esercitato sui comportamenti dei contribuenti e sull'andamento delle entrate.

Ci vorrebbe un volume per raccontare i guasti di questo malgoverno dell'economia e della finanza. Se Tremonti è un genio, alla larga da questi geni.

* * *

Dopo di lui, immolato sull'altare della pacificazione con Fini, Berlusconi chiamò Siniscalco. Un tecnico ben preparato, non inviso all'opposizione e tantomeno al mondo accademico e desideroso di tenersi lontano dalle beghe politiche. Sembrò di respirare, ma durò molto poco. Ci si dimenticava che Siniscalco era stato per quattro anni il direttore generale del Tesoro e che tutte le gabole di Tremonti erano nate nella sua mente e transitate dalla sua scrivania.

Non starò a ricordare gli errori compiuti da Siniscalco: le pagine di questo giornale che li hanno di volta in volta analizzati sono ancora fresche d'inchiostro. Ma ne indicherò uno solo, il più macroscopico e il più "doroteo" nel senso che fu adottato nella Finanziaria 2005 perché era il solo modo per far quadrare i conti sulla carta senza dispiacere a nessuno: il tetto del 2 per cento imposto a tutta la spesa pubblica rispetto a
quella dell'anno precedente.

Questa una tantum macroscopica, prevista ora anche per la Finanziaria 2006, non poteva funzionare in mancanza di un monitoraggio capillare e immediato di cui il Tesoro non dispone e la Ragioneria generale neppure.

Infatti non ha funzionato. La Corte dei Conti pochi giorni fa ha reso pubblico lo stato dei fatti. La spesa di quasi tutti i ministeri e i settori ha ampiamente bucato il tetto, sia per la competenza sia per la cassa, con la conseguenza che il debito pubblico è arrivato già al 110 per cento rispetto al Pil e supererà il 111 nel 2006, mentre l'avanzo primario, già falcidiato da Tremonti, è ormai di segno negativo.
Siniscalco merita elogio per le dimissioni di pochi giorni fa. Meglio sarebbe stato se fosse caduto difendendo la sua finanziaria in Parlamento.
Date in anticipo quelle dimissioni hanno piuttosto il sapore d'una fuga.

Comunque, onore al suo (unico) merito.

* * *

Quanto a Fazio, lui sta lì, patella attaccata allo scoglio come ha scritto il Financial Times. Ora ha invocato il Trattato di Maastricht che vieta ai governi e soprattutto al Consiglio dei ministri europeo, d'intervenire sulle decisioni della Banca Centrale Europea.

Questo è semplicemente il gioco delle tre carte. Quel divieto esiste per fortuna ma riguarda appunto il Consiglio dei ministri europeo e i governi nazionali da un lato e la Bce dall'altro. Nessun governo infatti potrebbe censurare Fazio (o qualunque altro membro del direttorio della Bce) per decisioni prese nella Banca ed emesse dalla Banca. Ma non riguarda affatto l'operato di Fazio nella sfera d'autonomia riservata alle banche centrali nazionali. Cioè nella vigilanza sul sistema bancario nazionale che la Bce ha delegato alle banche centrali nazionali.

Fazio comunque se ne andrà dopo aver dato vita ad una sceneggiata di stampo eversivo, incoraggiata dalla complicità del presidente del Consiglio, dalla corrività del Direttorio della Banca e dall'impianto a dir poco barocco delle procedure con le quali è regolata la nomina e la revoca dei governatori.

Se ne andrà con il vanto d'aver difeso l'indipendenza dell'Istituto, ottenuta trascinando l'Istituto stesso in una contestazione irresponsabile che avrà conseguenze proprio su quell'indipendenza che sta a cuore di tutti e che ha rappresentato uno dei pochi punti di forza italiani nell'era inaugurata da Luigi Einaudi e conclusasi con Carlo Azeglio Ciampi. E sarà un'altra partita perduta per il buon nome del nostro Paese in Europa e nel mondo.

Mentre scrivo queste righe arriva la notizia d'una ulteriore dichiarazione di Berlusconi contro Follini e contro le primarie. Se ci volevano altre conferme della friabilità dell'accordo tra i Quattro del governo in carica, essa è puntualmente arrivata. Non è necessaria la preveggenza della Sibilla per capire che la situazione è sfuggita di mano e che il governo galleggia senza bussola e senza stelle.

Meglio, molto meglio, sarebbe stato cogliere l'occasione delle dimissioni di Siniscalco e andare a votare subito.

Meglio per Berlusconi, meglio per la sinistra ma soprattutto meglio per la povera Italia, più che mai "nave senza nocchiero in gran tempesta".

Post scriptum. Le recenti esternazioni del cardinal Ruini hanno provocato a Siena, in occasione d'un forum di parte al quale il presidente della Cei era intervenuto come ospite d'onore, chiassose contestazioni d'un gruppo di studenti favorevoli al "Pacs" (Patto di solidarietà per i conviventi non sposati). Il cardinale ha definito quelle contestazioni una "piacevole interruzione" dimostrando in quest'occasione una buona dose di umorismo di cui gli va dato merito.

Non altrettanto umorismo ha visitato le menti di quanti, naturalmente del centrodestra ma anche del centrosinistra, si sono affrettati a biasimare i chiassosi studenti e hanno porto le loro (non richieste) scuse al cardinale.

Dispiace che tra di essi ci sia stato anche Romano Prodi. Di che cosa si doveva scusare Prodi e tutto il centrosinistra con lui? Il cardinale fa il dover suo quando esprime l'opinione dei vescovi, confortata da quella del Papa, sulla dottrina della Chiesa, sull'etica, sulla famiglia, sulla catechesi, sulla liturgia. Invade invece terreno altrui quando prescrive i comportamenti specifici che non solo i cattolici e gli "uomini di buona volontà" dovrebbero assumere, ma anche le istituzioni dello Stato in occasioni politiche rilevanti: il modo di compilare le leggi, il modo di votare nei referendum, l'esercizio della giurisdizione.
(Vedi a quest'ultimo proposito le critiche che Ruini ha rivolto alle intercettazioni giudiziarie disposte dalle procure italiane).

Di invasioni di campo di questo genere è piena la recente biografia del presidente della Cei. Esse creano inevitabili reazioni non solo dei laici non credenti ma anche nel laicato cattolico più avvertito, che vorrebbe dai propri vescovi più religiosità e meno politica. Ne ha parlato esplicitamente Pietro Scoppola in un'intervista sul Sole 24 Ore che dovrebbe essere attentamente letta e meditata in Vaticano e in Laterano.

Ruini dimentica troppo spesso, mi pare, la differenza profonda che passa tra una Chiesa libera da ogni vincolo e da ogni beneficio e una Chiesa concordataria come quella italiana. È ovvio che i preti e i vescovi abbiano piena libertà di parola ma non è vero che essi siano cittadini italiani come tutti gli altri. Essi godono di vari privilegi tutt'altro che marginali: celebrano matrimoni in qualità di ufficiali di stato civile, hanno insegnanti di religione nelle scuole pubbliche pagati dallo Stato ma scelti e revocabili da loro, ricevono un contributo dell'8 per mille sul reddito dichiarato dai contribuenti e calcolato con modalità che vanno assai oltre alla crocetta apposta dal singolo dichiarante sull'apposito spazio modulistico, ricevono ampio sostegno finanziario e urbanistico per le opere d'arte allocate nelle chiese.

In compenso di questi e di molti altri benefici hanno accettato di lasciare interamente all'autorità civile l'organizzazione politica e legislativa della società, alla quale possono certo far giungere la loro parola d'orientamento ma non la loro precettistica e la loro casistica.

Ai commentatori che suggeriscono di non regalare la Chiesa alla destra mi permetto di far osservare due cose: la Chiesa è pienamente capace di intendere e di volere; se va a destra è lei che lo decide e non qualcuno che gliela regala. E poi, la sinistra dovrebbe scegliere i propri temi e fare le proprie proposte solo dopo aver scrutato il sopracciglio di Ruini, di Sodano e di Fischella?

Forse sarò ottocentesco ma questi ragionamenti non mi piacciono.

(25 settembre 2005)

http://www.repubblica.it/2005/i/sezioni/economia/finanziaria3/geniomut/geniomut.html

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