venerdì 24 febbraio 2006

Quanto ci è costato Silvio Berlusconi

Il premier dice di aver onorato il Contratto con gli italiani. E di aver fatto miracoli. Ma le fonti e gli indici più autorevoli lo smentiscono. Ecco la fotografia del flop del governo di centro-destra

di Stefano Livadiotti



GRAFICI ANIMATI
L'Italia prima e dopo Berlusconi
Dal Pil all'occupazione



L'Italia ha fatto un salto enorme..., ha scolpito giovedì 9 febbraio nel salotto televisivo di 'Matrix'. "Abbiamo mantenuto tutte le promesse, ma la gente non se n'è accorta", aveva garantito tutto serio due giorni prima dai microfoni di 'Radio anch'io'. "I giornali tacciono su quel che questo governo ha realizzato", s'era lagnato all'inizio dell'anno in una comparsata a 'Otto e mezzo'.

È il Silvio Berlusconi di sempre. Quello che nella primavera del 2001 s'era presentato festoso alle assise di Parma della Confindustria di Antonio D'Amato, sottolineando la perfetta coincidenza del suo programma di governo con le richieste degli imprenditori. Lo stesso che l'8 maggio sempre del 2001, officiante Bruno Vespa, seduto davanti a una scrivania di ciliegio, aveva letto in diretta tv il 'Contratto con gli italiani', dove si era solennemente impegnato a ridurre tasse e reati, aumentare pensioni e posti di lavoro e far decollare le grandi opere pubbliche.

Sono passati cinque anni. Berlusconi ha continuato ad approfittare di ogni palco e qualunque gazzetta per spargere ottimismo a piene mani. Malcelando la propria irritazione davanti ai moniti del Quirinale come dell'Europa o della Corte dei Conti. Nel frattempo sono caduti 12 dei suoi ministri (il primo fu il titolare del Commercio con l'Estero Renato Ruggiero e Gianni Agnelli parlò di "paese dei fichi d'India"). È stato rispedito al paesello natìo di Alvito l'ex governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio, che gli aveva offerto una sponda parlando di miracolo economico a portata di mano. Giulio Tremonti, "il nostro genio", il superministro dell'Economia che nel 2001 si era presentato agli italiani con un 'Documento di programmazione economica e finanziaria' da pieno boom, è tornato al suo posto dopo essere stato licenziato con l'accusa (pubblico ministero Gianfranco Fini) di aver truccato i conti.

Indeciso a tutto, strattonato da una maggioranza variopinta e rissosa, Berlusconi ha tirato a campare. Rinvia oggi e rimanda domani, le sue promesse hanno cominciato a perdere credibilità. "I parametri della competitività del nostro sistema industriale sono i più negativi dal dopoguerra a oggi", ha scandito il 17 dicembre del 2005 il presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo. E quando, il 19 dicembre gennaio scorso, il premier s'è ripresentato negli studi tv di Vespa, tentando di leggere il solito elenco delle cose fatte, Diego Della Valle è sbottato: "Non abbiamo bisogno di qualcuno che gira con dei foglietti e pensa che gli italiani siano tutti analfabeti".

Lui è preoccupato, se è vero che nei giorni scorsi ha chiamato il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, per chiedergli consiglio sulla strategia elettorale (sentendosi rispondere: "La Casa delle libertà potrebbe anche vincere: servirebbe un grande attentato internazionale di cui lei rimanesse vittima..."). Così, s'è intestardito ancora di più sulla sua strada ("Tutti, nessuno escluso, dicono che le cose vanno bene", ha proclamato di nuovo il 20 febbraio). Anche perché non ha scelta. Il 'Contratto con gli italiani' si concludeva con una clausola: se non fosse riuscito a mantenere almeno quattro promesse su cinque, nel 2006 Berlusconi avrebbe rinunciato a ricandidarsi alla guida del paese. Nella maratona mediatica delle scorse settimane s'è dunque presentato vestendo di volta in volta i panni di Napoleone e Gesù Cristo. Nessuno s'è preso la briga di contestare le sue sparate. Eppure, dargli del Pinocchio non sarebbe stato difficile. Gli indicatori socio-economici elaborati in questi anni dai più autorevoli centri di ricerca nazionali e internazionali dipingono un quadro ben diverso. 'L'espresso' ne ha utilizzati 34 (vedi tabella in basso), ottenuti consultando 23 fonti diverse, per ricavare le fotografie del paese prima e dopo la cura Berlusconi. Il confronto è devastante. Ecco, cifra per cifra, come si è arrivati al declino.

Crescita zero Nel 2001 il prodotto interno lordo italiano viaggiava al passo dell'1,7 per cento. Esattamente al pari dell'Europa a 15. E al di sopra della media del mondo, inchiodato all'1,4 per cento. I numeri del Consensus Forecast (che si basa su dati di istituti come Jp Morgan e Goldman Sachs, Confindustria e Prometeia, Eni e Morgan Stanley) dicono che il 2005 s'è chiuso a quota 0,2 per cento. In pratica, a crescita zero.

La politica fiscale del governo, un mix di tagli a livello nazionale e aumenti di prelievo su base locale, accompagnato da una raffica di condoni, ha avuto un effetto perverso. La somma delle imposte dirette e di quelle indirette è passata dai 359 miliardi del 2001 ai 399 del 2005, con un aumento (dal 49,13 per cento al 51 tondo) dell'incidenza delle seconde, a tutto vantaggio dei redditi più alti. E solo l'incremento dell'evasione, come documentano i dati del centro-studi Nens, ha portato a una riduzione della pressione fiscale (mezzo punto, secondo l'Istat, tra il 2001 e il 2004). Pressione che è invece tornata a crescere sul mondo delle imprese: il 'Tax misery index' calcolato da 'Forbes' era sceso dai 153,9 punti del 2002 a 144 nel 2004. Lo scorso anno è risalito a 146. Sul fronte opposto, nello stesso tempo è decollata la spesa pubblica. Così, l'avanzo primario è praticamente scomparso, crollando dal 3,4 allo 0,6 per cento.

Il deficit pubblico, che era pari al 3,2 per cento nel 2001, è salito a quota 4,3. E il rapporto tra debito pubblico e Pil, che dal 2001 era in costante discesa, è ripartito a razzo: quest'anno arriverà al 108,5 per cento, due punti in più rispetto al 2004. Nel luglio di due anni fa l'agenzia di rating Standard&Poor's ha declassato il nostro debito, portandolo da 'AA' a 'AA-'. Lo scorso 8 febbraio gli uomini di S&P hanno fatto sapere che se i conti non verranno rimessi in carreggiata al più presto, potrebbe arrivare una nuova revisione al ribasso. Sarebbe una mazzata formidabile sulla spesa per gli interessi, il cui tasso medio s'è ridotto di soli 1,2 punti tra il 2001 e il 2004 (tra il 1996 e il 2000 era calato di 3,7 punti).

Promesse da marinaio L'aumento della spesa pubblica che ha mandato in tilt i conti dello Stato non è certo servito a far fronte alle priorità per il rilancio dell'Azienda Italia. I pochi dati aggiornati disponibili sul fronte Ricerca & Sviluppo sono da mettersi le mani nei capelli. Gli investimenti della pubblica amministrazione nel 2001 crescevano del 5,8 per cento. Nel 2005 il loro incremento s'è fermato all'1,6 per cento. Sempre nel 2001 si erano registrati (dati del ministero) 182 interventi per la creazione di nuove aziende high tech, con uno stanziamento pari a 266 milioni di euro. Nel 2005 le iniziative sono precipitate a 31, per un valore di 14 milioni. Su scuola e università, poi, è meglio stendere un velo pietoso. Con buona pace dei proclami del premier sulle 'tre i' (Internet, inglese, impresa), il Censis rileva che la percentuale di italiani in grado di sostenere una conversazione in una lingua diversa da quella di casa s'è ridotta dal 46 per cento del 2001 al 36 del 2005. Dieci punti in meno in cinque anni. E perfino il tormentone sulle infrastrutture s'è rivelato solo un maldestro bluff. Secondo i ricercatori del Cresme, ad aprile scorso era stato ultimato appena lo 0,01 per cento delle grandi opere strategiche indicate nella cosiddetta legge obiettivo del 2002 (dal ponte sullo Stretto di Messina alla Salerno-Reggio Calabria, passando per il Mose di Venezia). Vuol dire che Berlusconi & C. hanno mantenuto molto meno dell'1 per diecimila di quanto avevano promesso. Che si trattasse di parole in libertà, del resto, i primi a saperlo erano proprio gli uomini del governo. Lo dimostrano i dati del rapporto dell'associazione tra i costruttori, secondo i quali gli stanziamenti nel bilancio dello Stato per nuove infrastrutture sono diminuiti dai 22.500 milioni del 2001 ai 18.188 del 2005.

Competitività bye bye In questo quadro, l'Italia ha continuato a perdere terreno nei confronti del resto del mondo. Nella classifica sulla competitività dell'International institute for management development nel 2001 occupava il trentaduesimo posto su 49 paesi. Nel 2005 è finita al cinquantatreesimo (su 60), alle spalle di Brasile, Filippine, Turchia e Colombia. Uno scivolone causato dai pessimi voti ottenuti, in particolare, su due capitoli: la capacità del governo di creare competitività (cinquattottesimo posto) e la sua politica fiscale (sessantesimo e ultimo posto). Il giudizio sull'evoluzione negativa conosciuta dal paese negli ultimi anni è pienamente confermato dalla graduatoria del World economic forum: ventiquattresima su 75 nel 2001, l'Italia è scivolata oggi al quarantasettesimo posto su 117, dietro a Corea, Qatar, Cile e Thailandia.

Tutti i principali indicatori testimoniano la perdita di competitività italiana. La produzione industriale ha fatto registrare una vera e propria débâcle. Se nel 2001 era diminuita dello 0,6 per cento, lo scorso anno ha lasciato sul campo 1,8 punti, record negativo dal 1993. L'export è letteralmente tracollato. La quota sul mercato mondiale dell'Italia, che all'arrivo di Berlusconi stazionava a quota 4 per cento, s'è assottigliata fino al 2,9 per cento. Con il risultato che la bilancia commerciale s'è ribaltata: nel 2001 vantava un attivo di 9.233 milioni; ora è in rosso per 10.368 (peggior risultato dagli anni Ottanta).

Che l'Italia oggi sia considerata un paese dal quale è molto meglio girare alla larga lo dicono con chiarezza anche i dati sugli investimenti esteri diretti: nel 2001 erano arrivati, secondo i tecnici di via Nazionale, a 17.787 milioni di euro; nel 2004 non sono andati oltre i 13.542. Fa meno 23,9 per cento. L'osservatorio sulle acquisizioni di aziende della Kpmg conferma la tendenza: nel primo anno della legislatura gli stranieri avevano messo mano al portafoglio per entrare nel capitale di 111 aziende italiane. Lo scorso anno si sono fermati a 95. E che l'Italia non convenga più lo pensano anche i turisti: nel 2001 erano sbarcati 35 milioni e 767 mila stranieri; nel 2005, secondo le prime stime dell'United Nations World Tourism, sono stati 34 milioni e 429 mila.

Far West Italia Del resto, anche la situazione dell'ordine pubblico, che soprattutto al Sud condiziona pesantamente ogni attività economica, con buona pace di Berlusconi presenta un bilancio drammatico. L'Istat dice che tra il 2001 e il 2004 il totale dei delitti denunciati è passato da 2 milioni 163 mila e 826 a 2 milioni 415 mila e 023. Secondo i calcoli di Luca Ricolfi, che ha elaborato dati dell'Istituto di statistica e del Viminale, nel primo triennio di questo governo il totale dei delitti ha conosciuto un'impennata del 17,5 per cento ('Tempo scaduto', il Mulino).

Il piatto piange Sostiene Berlusconi che il suo governo ha fatto il miracolo di creare un milione di nuovi posti di lavoro. Il premier dimentica di aggiungere che oltre la metà del risultato è dovuto alla regolarizzazione di immigrati già da tempo presenti in Italia. E comunque i dati ufficiali di Eurostat dicono che quella sull'occupazione è un'altra delle battaglie perse dal suo governo: all'inizio della legislatura cresceva del 2 per cento l'anno; nel 2004 solo dello 0,9. E un andamento altrettanto mesto si rileva nel Sud: più 2,3 nel 2001 e meno 0,3 nel 2004 (Nicola Rossi, 'Mediterraneo del Nord', Editori Laterza). Quello che cresce, semmai, è il lavoro irregolare: dal 26 per cento del totale nel 2001 al 27,9 nel 2005, almeno secondo il Censis.

Così, il portafoglio degli italiani è sempre più asciutto. Nel Sud il tasso di diffusione della povertà relativa tra le famiglie è cresciuto, arrivando al 25 per cento tondo nel 2004 (dopo essere diminuito dal 24,3 del 2001 al 21,6 del 2003). Ma il trend investe l'intero paese. Secondo l'ultima indagine sul risparmio di Bnl e Centro Einaudi, la quota di italiani convinti di poter contare su un reddito "più che sufficiente" è diminuita dal 15,8 per cento (2001) al 13,8 (2005). E la percentuale degli italiani che non hanno risparmiato nel corso dell'anno è salita dal 38 per cento del 2002 al 51,4 dello scorso anno. Dove invece c'è stato il boom è nei prestiti bancari alle famiglie: da 251.964 milioni di euro (2001) a 384.867 (2005).

Se le famiglie se la passano male, le aziende peggio. Uno studio targato Euler Hermes, la società del gruppo Allianz che è leader mondiale nell'assicurazione sui crediti, rivela che nel 2001 in Italia i fallimenti erano diminuiti dell'8 per cento. Dopo cinque anni di cura Berlusconi, nel 2005 hanno fatto un balzo in avanti del 6 per cento. Data la situazione, gli indici di fiducia non potevano che scendere in picchiata. Quello delle imprese da 89,3 a 87,5. Quello delle famiglie addirittura da 122,7 a 104,2.

Il declino Con ben dieci new entry, nel 2001 l'Italia era stata la protagonista assoluta della classifica dei miliardari in dollari di 'Forbes'. "Lo stato della loro economia è vibrante", aveva detto nella conferenza stampa di presentazione la responsabile editoriale della ricerca, Luisa Kroll, per spiegare la performance che aveva portato 17 italiani in lista. Cinque anni dopo la nostra rappresentanza s'è ridotta a dieci mega-miliardari (capitanati, guarda un po', proprio da Berlusconi, passato dal ventinovesimo posto con 10,3 miliardi di dollari al al venticinquesimo con 12 miliardi). E s'è assottigliata pure la pattuglia delle aziende italiane che trovano spazio nella classifica Top-500 del 'Financial Times': 15 nel 2001 e 12 lo scorso anno.

Incapace di competere, l'Italia s'è arroccata. L''Index of economic freedom' elaborato ogni anno dal centro-studi ultra-conservatore di Washington Heritage Foundation in collaborazione con il 'Wall Street Journal', e basato su 50 variabili, dice che siamo un paese sempre più ingessato. Nel 2001 eravamo al trentacinquesimo posto nella classifica guidata da Hong Kong. Nel 2005 siamo scesi al quarantaduesimo, a pari merito con Trinidad e Tobago. Surclassati dal Botswana. E tallonati da Madagascar e Mongolia.

Stessa musica se si guarda all'indice di globalizzazione elaborato dalla società di consulenza A.T. Kearney in collaborazione con 'Foreign Policy' e che misura l'integrazione economica, politica e tecnologica in 62 paesi (insieme fanno l'85 per cento della popolazione e il 96 per cento del Pil mondiale). Nel 2001 l'Italia era al tredicesimo posto, un gradino al di sotto degli Stati Uniti. In cinque anni è sprofondata al ventisettesimo, mentre gli Usa scalavano otto posizioni. Un paese chiuso alla globalizzazione, avevano ammonito cinque anni fa gli autori della ricerca, diventa terreno fertile per la corruzione. E infatti, tra l'inizio e la fine di questa legislatura, l'Italia ha visto peggiorare la propria posizione anche nella classifica basata sul 'Transparency international corruption perception index' e redatta dall'Università tedesca di Passau su incarico di Transparency (un'organizzazione non governativa sostenuta dall'Onu). Nel 2001 eravamo ventinovesimi nella graduatoria guidata dalla Finlandia. Cinque anni di berlusconismo dopo, siamo affondati al quarantesimo posto. Superati dalla Malesia.

"I dati che conosco inducono all'ottimismo", ha giurato lui il 20 febbraio. E vai a sapere dove li ha presi.


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