mercoledì 20 ottobre 2004

Leader lesbica uccisa nella sua Africa

di Delia Vaccarello

«Mi chiamo Fanny Ann, faccio parte dell'Associazione Gay e Lesbica della Sierra Leone.
Vorrei fare conoscere a voi, Membri della Commissione Onu per i diritti umani, i pericoli che affrontano le organizzazioni e le persone vulnerabili, non solo nel mio amato paese, ma in tutta l'Africa.
Il mio tema di interesse è la comunità gay, lesbica, bisessuale e transgender, un tema che la maggioranza dei leader africani cerca di evitare».
Si è fatto buio ormai da ore, il caldo umido africano le si appiccica sulla pelle. E' la notte tra il 28 e il 29 settembre.
Il palazzo dove sta lavorando è deserto. Non è la prima notte che trascorre curva sui pc dell'associazione da lei fondata nel 2002. Una scrivania e un palazzo che scottano, quasi fossero piazzati sul fronte di una guerra che vede scontrarsi da una parte l'esercito di chi viola i diritti umani e dall'altra un manipolo di coraggiosi, armati solo della strenua volontà di «rompere il silenzio». «To break the silence» come dicono gli inglesi, come dice lei nel discorso tenuto a Ginevra questo aprile, presso la Commissione per i diritti umani dell'Onu, per caldeggiare il voto sulla risoluzione proposta l'anno prima dal Brasile e tesa ad alzare la guardia su discriminazioni, aggressioni, stupri e omicidi ai danni di omosex e trans che si commettono ogni giorno ovunque nel mondo e in Africa con maggiore licenza.
Una risoluzione che non è passata anche per l'influenza esercitata in sede Onu dal Vaticano e dai paesi fondamentalisti.
Quando non infrange il silenzio, Fanny lavora nel silenzio, di notte, dopo aver trascorso la giornata a tendere le mani come liane perché il suo aiuto arrivi il più lontano possibile. Sa che la libertà per le donne, in particolare per le lesbiche, è imprescindibile dalla capacità di mantenersi.
Investe il suo denaro per comperare tessuti, li porta alle giovani lesbiche affinché provvedano a confezionare vestiti per sopravvivere. Uno dei suoi motti: fare grandi azioni, come recarsi a
Ginevra a parlare dell'Africa, superando ogni difficoltà per ottenere il visto, e piccole azioni.
Acquistare un rotolo di stoffe in più, andare spesso nelle scuole per insegnare ai ragazzi il rispetto dei diritti umani.
Un altro suo motto è: «perseveranza». Ci vuole perseveranza per affrontare, giorno dopo giorno, la paura. «Signori della Commissione, noi viviamo nel timore che la nostra famiglia ci ripudi, perché spesso avviene che le lesbiche, i gay, i bisessuali e i trans vengano cacciati di casa quando i familiari conoscono la loro vera identità.
Questi giovani non sanno dove andare, finiscono nella strada, e sono obbligati a ricorrere alla prostituzione. Viviamo nella paura anche all'interno delle nostre comunità. Il fatto che gli attacchi omofobici non siano puniti dalle autorità stimola ancora di più i comportamenti violenti e discriminatori».
Le parole del discorso pronunciato davanti ai rappresentanti di 52 paesi del mondo sono la sua forza in questa notte.
È sola. Potrebbe succedere di tutto. Il segreto non è ignorare la paura, ma darsi coraggio.
Fanny Ann ha trovato il coraggio di andare nello Zwimbabwe a cercare aiuto presso un gruppo di gay e lesbiche per fondare la prima associazione in Sierra Leone. La presenza di un'associazione dice al mondo che omosex e trans esistono. «Signori della Commissione, noi esistiamo, ma poichè si accaniscono a negare la nostra esistenza, viviamo in una paura permanente.
Abbiamo paura anche della polizia e dei funzionari che possono arrestarci e incarcerarci solo per il nostro orientamento sessuale. Hanno arrestato un giovane a Freetowm perchè si vestiva da donna. È in prigione senza che ci sia un'accusa nei suoi confronti».
Chiunque abbia cercato di minacciarla perché lesbica, dai poliziotti agli impiegati di banca, non è riuscito a fermarla. In banca quando versa o preleva per conto dell'associazione, l'impiegato la costringe a dire il nome del gruppo per esteso, non basta che pronunci il numero del conto. Così tutti i clienti sanno che è lesbica.
Qualcuno per strada potrebbe seguirla. A casa ci sono Esther, la sua compagna, e Valentine, il figlio di nove anni. Spesso fa lunghi giri prima di rientrare. Una cautela inutile quando va in ufficio, la sede dell'associazione è nota.
Avrebbe potuto emigrare in Sudafrica, unico paese del continente che vieta le discriminazioni sulla base dell'orientamento sessuale. Ma Fanny ha un inguaribile difetto: ama la sua terra, la sua Freetown dove è nata trent'anni fa. Conosce l'inglese, il francese, il krio e lo swahili. Ama la libertà, non la fuga.
Ha un sogno: «Vedere sempre più donne che si liberano e che lottano per ciò in cui credono, vedere un universo libero da discriminazione, tortura e violenza». Sa che con le sue abilità e le sue passioni può fare molto, anche in quanto educatrice, amministratrice ed esperta di marketing.
Il lavoro qualificato le ha procurato i guadagni per svolgere l'attività politica in difesa di gay e lesbiche e creare una rete con contatti in dodici stati africani. La sua famiglia d'origine «sopporta» il suo lesbismo, piegata da tanta tenacia. L'istinto di libertà ce l'ha nel sangue.
Fanny è creola, discende dagli schiavi. La sua mamma biologica è rimasta incinta di lei a 12 anni. Poi Fanny è stata adottata. Ha superato le difficoltà da bambina, ha affrontato le resistenze in famiglia. È diventata forte abbastanza per iniziare a rompere il
silenzio. Per trovare le parole giuste e urlare al mondo i crimini ai danni degli omosex.
Parole che suonano premonitrici mentre lavora in associazione, nella notte tra il 28 e il 29 settembre. Intorno a lei il buio e la solitudine. «Il silenzio crea vulnerabilità. E voi, membri della Commissione per i Diritti Umani, potete rompere il silenzio.
Voi potete riconoscere che esistiamo, in Africa e dappertutto, e potete riconoscere che ogni giorno vengono violati i nostri diritti umani, ogni giorno ci sono aggressioni e omicidi, ogni giorno restano vittime lesbiche, gay, persone trans».
La porta si apre. Si volta di scatto. L'urlo le resta in gola. Sono in tanti. Non perdono tempo. L’aggrediscono uno dopo l'altro. La pugnalano. Le afferrano la testa, le spezzano il collo.
È notte fonda Signori della Commissione. Il silenzio è rimasto intatto.Gli omicidi non sono stati ancora identificati.
L'associazione Human rights watch chiede che anche questo delitto non resti impunito.
(Per sostenere il figlio di Fanny Ann e la Sierra Leone Lesbian and Gay Association scrivere a Daniel@mask.org.za)

http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=LIBE&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=38607

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