di EUGENIO SCALFARI
Bush e Blair hanno sintetizzato i contenuti del loro primo incontro dopo la vittoria elettorale (di Bush) con due affermazioni destinate a rassicurare i loro rispettivi popoli e anche il resto del mondo: in Iraq si sono fatti sostanziali progressi verso la pace e la democrazia anche se probabilmente la violenza nei prossimi mesi aumenterà ancora; in Medio Oriente, dopo la morte di Arafat, riprenderà il negoziato tra Israele e i palestinesi con l'obiettivo di far nascere lo Stato di Palestina nel 2008.
La prima affermazione è menzognera, la seconda è possibile ma non probabile. Il nuovo Stato palestinese, stando alla road map varata nel 2002 e arenatasi dopo pochi mesi, avrebbe dovuto veder la luce nel 2005.
L'obiettivo è stato spostato in avanti di tre anni. L'ostacolo Arafat è stato rimosso dalla natura (salvo eventuali risultati dell'autopsia, semmai si farà, che dovessero provare che la natura è stata "aiutata") ma si tratta ora di vedere se la successione alla guida dell'Autorità palestinese sarà sufficientemente flessibile e riuscirà a far cessare l'intifada e gli attentati, come chiede Sharon prima di riaprire le trattative, oppure no.
E fino a che punto Bush potrà e vorrà moderare la linea dura del premier israeliano. Ricordo a questo proposito che subito dopo l'attentato alle Torri gemelle, l'11 settembre del 2001, il presidente americano e il suo fedele alleato britannico posero al primo posto della loro agenda antiterroristica la soluzione del conflitto palestinese. Ma pochi mesi dopo l'agenda era già cambiata: al primo posto balzò la guerra afgana e subito dopo quella irachena mentre la road map finì nel cestino dei rifiuti. Oggi si riparte da zero, con il sollievo dell'assenza forzosa di Arafat, tre anni perduti, un carico innumerevole di vittime, un deposito di odio e di violenza centuplicato. E la guerra irachena ancora e sempre più drammaticamente in corso.
In queste condizioni non c'è alcun rapporto tra le ottimistiche dichiarazioni di Bush e di Blair e la cruda realtà dei fatti.
* * *
La battaglia di Falluja è praticamente finita ieri sera, dopo cinque giorni di furiosi combattimenti preceduti da bombardamenti "mirati" effettuati da bombardieri B52, da cacciabombardieri e da folte squadre di elicotteri, sei dei quali sono stati abbattuti dagli insurgents (il termine è quello usato correttamente dai comandi Usa).
Stando ai predetti comandi i caduti americani sarebbero una trentina, i feriti più di un centinaio, gli insurgents rimasti sul terreno circa mille.
I capi nemici insieme al grosso degli insorti sono sfuggiti per tempo fin dal primo giorno di battaglia.
Di vittime civili non si parla. Nessuna? Centinaia? Migliaia? Non se ne sa nulla perché i comandi Usa su questo delicatissimo tema hanno calato fin dall'inizio una coltre di assoluto silenzio. Giornalisti in campo non ce n'era nessuno. Pochissimi embedded, cioè affidati alle cure degli uffici stampa militari nelle retrovie e strettamente diffidati di inoltrarsi e verificare direttamente i dati e i fatti.
Osservatori dell'Onu totalmente assenti. Altrettanto assenti la Croce Rossa internazionale e Amnesty. Verità sigillata. Eppure il tema è essenziale e dovrà in qualche modo venire alla luce: quante sono state le vittime civili nella battaglia di Falluja e quante in tutto l'Iraq dall'inizio della guerra in poi? È mai possibile che la più grande democrazia del mondo e il suo alleato britannico abbiano sequestrato in modo così totale la verità dei fatti?
Qualche spiraglio è comunque emerso. Lasciamo pure da parte l'inchiesta condotta da due agenzie di analisi demografiche, una americana e l'altra svizzero-inglese, che qualche settimana fa arrivarono alla conclusione di centomila iracheni caduti dall'inizio della guerra. Era frutto di comparazioni statistiche sui dati disponibili dello stato civile del Paese e non di verifiche sul campo.
Ma a Falluja erano rimaste in città da 50 a 80 mila persone, tra cui almeno la metà composta di donne vecchi e bambini. La Mezza Luna Rossa ha lanciato due giorni fa (terzo giorno di battaglia) un appello disperato affermando che cinquantamila civili erano a rischio di vita a causa degli stenti, mancanza d'acqua, di medicine, blocco totale degli ospedali e dei posti di pronto soccorso. Impossibile prestare cura alle centinaia di feriti. Impossibile far affluire cibo, medicine ed équipe mediche poiché i cordoni militari attorno alla città impedivano l'entrata dei soccorsi.
La Mezza Luna Rossa, diceva quell'appello, aveva comunque organizzato un convoglio di tre camion guidati da un medico iracheno in partenza da Bagdad e diretto a Falluja, che avrebbe tentato di entrare nella città sperando che i comandi Usa l'avrebbero permesso.
L'appello, rilanciato da alcune agenzie di stampa internazionali e ripreso da pochissimi giornali, è stato completamente ignorato dalle nostre emittenti Rai e Mediaset. Comunque dopo l'altro ieri non se n'è più saputo niente né risulta nulla dagli ospedali di Falluja e dai pochi medici rimasti nella città, la quale per altro è in gran parte ridotta ad un cumulo di macerie.
Fino a quando il popolo americano, quello europeo e i Paesi arabi e musulmani tollereranno un così vergognoso sequestro di informazioni e di verità? Fino a quando l'Onu resterà anch'essa inerte e silente? Intanto Bagdad è un inferno, Mosul (la terza città dell'Iraq dopo la capitale e dopo Bassora, con 2 milioni di abitanti) è caduta sotto il controllo degli insurgents, in tutte le città del triangolo sunnita gli attentati si susseguono e la guerriglia infuria soprattutto contro la polizia e la guardia nazionale irachene. Segni di nuova insorgenza emergono anche a Kerbala e a Najaf, la città santa sotto il controllo sciita dell'ayatollah Al Sistani.
Progressi sostanziali? Elezioni a gennaio? Il premier provvisorio, Allawi, ha decretato il coprifuoco di sessanta giorni in tutto il Paese; dovrebbe dunque scadere ai primi di gennaio. Come si potrà organizzare in regime di coprifuoco e in presenza di una guerra civile che miete vittime in tutto l'Iraq centrale, una campagna elettorale? Almeno un simulacro di campagna elettorale? Le liste degli aventi diritto al voto? I seggi e gli scrutatori? I comizi? Le liste dei candidati? Di tutto ciò nessuno parla, ma il grottesco della situazione sta nel fatto che anche su questa delicatissima questione nessuno pone domande. Non c'è un giornale, un'emittente televisiva, un'organizzazione internazionale, Onu, Unione europea, Lega Araba, nessuno che ponga domanda.
L'Italia è potenza occupante a tutti gli effetti, con tremila uomini sul terreno. Ha quindi titolo per porre queste domande al governo provvisorio iracheno. Ma non lo fa. Se ne guarda bene. Allawi ieri è arrivato di sorpresa a Nassiriya per salutare il nostro contingente. Ha comunicato che la nostra presenza è utilissima e indispensabile e che durerà ancora a lungo anche dopo le elezioni. Saluti e baci e se n'è andato. Domande? Naturalmente nessuna.
Martino, Pera, Casini, lo stesso Berlusconi, a intervalli relativamente frequenti a ridosso di elezioni nostrane, arrivano, mangiano il rancio e ripartono. Domande? Alcuna. Delle elezioni irachene, delle vittime irachene, delle città irachene bombardate, della ricostruzione nelle zone passabilmente pacifiche, il Sud sciita, il Nord curdo, nessuno sa nulla. È fantastica questa noncuranza. Questa cinica indifferenza.
Progressi sostanziali. Dunque Bush sa e Blair sa. Ma non vanno al di là del sostantivo "progresso" e dell'aggettivo "sostanziale". Qualche cifra? Qualche cenno geografico? Una specifica dei lavori in corso? Il silenzio è d'oro. Forse le informazioni sono ammassate a Fort Knox, insieme ai lingotti d'oro della Federal Reserve. Evviva la trasparenza, evviva la democrazia.
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Israele. I palestinesi. Il futuro Stato di Palestina.
Sharon è pronto a riprendere i negoziati di pace. Arafat è morto. Ricominciamo. Nel frattempo ritirerà (ci riuscirà?) settemila coloni dagli insediamenti ai bordi della Striscia di Gaza. Unilateralmente, cioè senza discuterne con l'Autorità palestinese. Gaza resterà un immenso campo profughi di oltre duecentomila anime (anime si fa per dire) in mezzo al deserto, con Israele a Est e l'Egitto a Ovest.
In Cisgiordania i coloni di Israele sono oltre duecentomila. In via di ulteriore espansione. L'esercito di Israele vigila, ovviamente, sulla loro sicurezza. Il muro la cui costruzione continua li circonda e li include. A zigzag, come le spire d'un gigantesco pitone.
Quello che resta fuori dal muro dovrebbe essere il territorio del nascente Stato palestinese. Gaza? Sta laggiù, un po' più avanti verso destra. Non comunicante.
Bene. Sharon è comunque pronto a riprendere in mano la road map ma, ovviamente, a condizione che l'Autorità palestinese abbia prima disarmato o comunque rese inoffensive la fazioni armate, Hamas, Jihad palestinese e le brigate di Arafat, cioè i terroristi che hanno preso il nome del raìs scomparso, braccio armato di Fatah.
Gli osservatori e i giornalisti embedded (ormai abbondano dovunque e chi non è embedded peste lo colga) sostengono che la transizione da Arafat ai suoi successori è avvenuta con meravigliosa rapidità e generale concordia. Affermano anche che è in crescita Abu Mazen, il moderato che firmò la road map due anni fa ma poi dovette dimettersi per dissensi col raìs ancora vivo e vegeto. Con ogni probabilità sarà lui a guidare il suo popolo, fazioni armate comprese, verso la pace.
Anche noi lo speriamo. Gli israeliani sono stanchi, i palestinesi ancora di più. La pace la vogliono tutti. Forse è la volta buona. Si odiano ancora? Sì, si odiano più che mai. La pancia dei due Paesi odia l'altra. Alcune élite predicano la reciproca fratellanza, ma appunto sono élite.
Certo, se Abu Mazen, Abu Ala, i moderati, i ragionevoli, crescono in prestigio e popolarità, forse ce la faremo. Il primo è il capo dell'Olp, cioè dell'organismo che raccoglie tutti i partiti palestinesi. Il secondo è il primo ministro del governo provvisorio. In teoria hanno già in mano la piena rappresentatività istituzionale; debbono solo vedersela confermata dalle elezioni che si terranno anch'esse - vedi caso - ai primi di gennaio insieme a quelle irachene. Sempre che Sharon consenta che si svolgano, perché adempiere alle procedure pre-elettorali ed elettorali se Israele non lo consentisse è impensabile dato il frazionamento del territorio, i posti di blocco, i coloni, eccetera eccetera.
E il terrorismo e la rappresaglia antiterrorista. Se non fosse drammatico anzi tragico, bisognerebbe qui ricordare l'antica filastrocca: dimmi tu chi è nato prima sarà l'uovo o la gallina? Così tra terrorismo e rappresaglia: l'uno si vendica dell'altra e viceversa, in un ciclo infinito, in un eterno ritorno dell'eguale.
Però, oltre ad Abu Mazen capo dell'Olp, nel nuovo triumvirato istituzionale installato dopo la morte di Arafat c'è anche un terzo personaggio. Si chiama Farouk Kaddumi, cui è stata consegnata (o si è preso) la guida di Fatah.
Kaddumi vive da undici anni a Tunisi, non ha mai approvato gli accordi di Oslo e tutto ciò che ne è seguito e non seguito. È intransigente. Non procederà senza l'accordo di Hamas e della Jihad. D'altra parte, allo stato dei fatti, è il solo che possa convincere questi due gruppi non diciamo a deporre le armi ma a farle tacere per consentire il negoziato. A certe condizioni. Quelle di Kaddumi non sono quelle di Abu Mazen.
Al Fatah è il maggior partito palestinese. Diciamo che rappresenta il 95 per cento dell'Olp. L'Olp senza Fatah è una scatola vuota. Se guardiamo alle cariche istituzionali, l'uomo forte non è Abu Mazen ma Farouk Kaddumi.
È anche quello che ha in mano i soldi di Arafat, a parte i dollari rimasti alla vedova. C'è un quarto personaggio, ancora più popolare di Kaddumi tra i palestinesi arrabbiati, ed è Marwan Barghuti, che sta da un anno nelle prigioni di Israele condannato cinque volte all'ergastolo. Potrebbe anche candidarsi al ruolo di presidente dell'Autorità palestinese. Potrebbe essere eletto. Che succederebbe in quel caso? Il successore di Arafat eletto dal popolo in prigione a vita nelle carceri di Israele? È difficile che avvenga perché i palestinesi sono stanchi. Ma vedete bene che il rebus resta un rebus anche dopo la morte del raìs, anzi è più rebus di prima.
Certo, se Bush batterà il pugno... Se imporrà a Sharon... Se inonderà di dollari Gaza e i sindaci della West Bank... Se minaccerà e magari manderà una forza d'interposizione.... Se le Chiese evangeliche lo sproneranno... Se i neo-con gli suggeriranno... Se Blair...
No, Blair no. Blair non conta più niente. Sta con le sue truppe a Bassora e non se ne può andare se non insieme a Bush. Se se ne andasse prima dovrebbe far fagotto il giorno dopo abbandonando Downing Street.
Perciò Blair è il fox-terrier di Bush o poco più.
(14 novembre 2004)
http://www.repubblica.it/2004/k/sezioni/esteri/iraq37/speranze/speranze.html
domenica 14 novembre 2004
I fantasmi di Falluja le speranze in Palestina
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