di Furio Colombo
Parliamo ancora di elezioni americane? Sì, perché il ritorno di Bush alla Casa Bianca è, per tutto il mondo, un importante evento degli Stati Uniti, difficile da giudicare, con molti aspetti e attese e previsioni che riguardano, interessano (o preoccupano) tutti, e comunque rispecchiano di un profondo cambiamento americano, forse il suo futuro.
Per l’Italia è un’altra cosa. Qui la vittoria di una metà dell’America sull’altra viene vista con lo stesso occhio con cui i marajà indiani fedeli alla Corona inglese studiavano e si comunicavano le vicende di Londra nel secolo scorso. Allora, all’epoca dell’impero inglese, la domanda era: in che senso questa o quella decisione della Corona inglese ci giova, allarga la nostra ricchezza e il nostro potere?
L’Italia coloniale di Berlusconi - esperienza nuova per un Paese non privo di orgoglio, come si è visto negli anni della Resistenza - ha seguito le elezioni e accolto il risultato con lo stesso spirito di Bombay e Calcutta ai tempi d’oro degli inglesi. E la stessa domanda: sarà questo il momento giusto per liquidare i nostri nemici, dichiarandoli nemici dell’impero?
Cito come evidenza il manifesto di Alleanza Nazionale che ha coperto i muri di Roma in questi giorni. Dice testualmente: «Bush vince in America, l’Ulivo fallisce nel mondo. Lasciamoli alla opposizione in Italia e nel Lazio».
In altre parole milioni di farmer dell’America profonda che credevano di avere scelto Dio e la Bibbia dando il loro voto per George Bush, hanno in realtà votato per riportare Francesco Storace alla presidenza della Regione Lazio.
E poi c’è, in esclusiva, la notizia che l’Ulivo fallisce nel mondo. An immagina di avere bisogno del fallimento mondiale dell’Ulivo (una visione drammatica che evoca l’esercito giapponese che incalza le masse cinesi in fuga) per tenere saldo il controllo del Lazio. E intende usare lo scudo di Bush e della sua rinnovata potenza per proteggere il marajà della Regione contro il perfido candidato dell’Ulivo che certamente porta guerra di civiltà.
Il manifesto che annuncia l’asse Bush-Storace e il fallimento mondiale dell’Ulivo, non è isolato, nel nuovo spirito di vittoria dei notabili coloniali di An. Un altro manifesto, questa volta sui muri dell’intera colonia, reca questa strana dicitura sovraimpressa - senza il minimo rispetto - a una bandiera italiana: «Ogni giorno 9.000 italiani non fanno girotondi ma difendono davvero la pace. Sono i nostri soldati in missione di pace nel mondo». Un partito di governo che si richiama al sentimento del patriottismo, rivela in un solo messaggio le seguenti tre fobie: contro la partecipazione alla vita pubblica di cittadini spontaneamente organizzati, contro vastissime e legittime manifestazioni per la pace (un modo serio e nobile, come hanno insegnato gli americani che si opponevano alla guerra in Vietnam, per riportare a casa i soldati vivi) e contro l’unirsi dei sentimenti di tutti gli italiani nel giorno del ricordo dei morti di Nassiriya. Qui c’è la volontà esplicita di un’Italia divisa che proclama nemici coloro che non si sono dichiarati subito e per sempre sudditi fedeli.
Trascuriamo la penosa mancanza di senso del rispetto ma anche dell’umorismo nel farci sapere che i soldati, che in Iraq sono stati mandati a una guerra feroce chiamata “missione di pace”, non fanno girotondi. Si tenga conto che i due penosi manifesti di cui abbiamo appena parlato sono del partito che sta per dare all’Italia il suo quarto ministro degli Esteri (vera celebrazione della continuità della maggioranza Berlusconi) dopo Renato Ruggiero, cacciato per competenza, dopo Silvio Berlusconi, che ha lasciato il posto dopo un anno, quando si è accorto che la sua immagine non era esportabile, dopo Franco Frattini, che ha dovuto essere inviato d’urgenza in Europa, quando l’Europa ha dichiarato inaccettabile un altro ministro di questo governo, nel corso del famoso e memorabile “caso Buttiglione”, triste capitoletto della storia italiana.
Viene a questo punto - i lettori lo sanno - la frase triste, ripetuta e vera, secondo cui certe cose possono accadere solo in questa Italia, mal vista da fuori, e senza finestre o feritoie per vedere la nostra vita da dentro, a causa del controllo totale del sistema delle informazioni, possedute o intimidite da una sola persona, che presiede anche il governo.
Per avere una conferma della solitudine italiana - che non pone un problema di destra e di sinistra ma descrive un isolato autoritarismo locale che purtroppo è malattia ricorrente nel nostro Paese - basterà prestare attenzione alla lettera aperta che il ministro degli Esteri francese Michel Barnier, ha inviato “a un amico americano” subito dopo la rielezione di Bush (Le Monde, 10 novembre). Si tenga conto, nel leggere i passi qui trascritti della lettera, che Barnier è ministro di un governo di destra, votato dagli elettori di destra (che però non vogliono avere niente a che fare con il loro Bossi, Jean-Marie Le Pen, che la destra, a causa della sua xenofobia, respinge fuori dal sistema di governo).
«Vorrei ricordare, per prima cosa, che le nostre relazioni politiche non riflettono la nostra interdipendenza economica. Infatti la maggior parte degli investimenti esteri in Europa proviene dagli Stati Uniti ed è vero anche il contrario. E anche: la maggior parte dei profitti delle imprese europee, realizzati all’estro giunge dagli Stati Uniti. E di nuovo è vero anche il contrario. Sì, dipendiamo gli uni dagli altri. Sì, la crescita americana traina la crescita europea. Sì, ma quando ogni giorno l’economia americana deve rifinanziare il suo enorme deficit della bilancia dei pagamenti, trova il credito e gli investimenti degli imprenditori europei. Ripeto la domanda: il dialogo politico fra Europa e America rispecchia o nega la nostra interdipendenza economica? Ci dite che il destino degli Stati Uniti nel mondo è quello di promuovere la democrazia. Vi rendete conto che la progressiva costruzione di un’Europa più forte e più unita, l’Unione Europea, attira a sé e ai suoi valori democratici un numero sempre più grande di Paesi che circonda la Ue? Rendetevi conto che l’America ha bisogno di una Europa capace e responsabile. E l’Europa ha bisogno di un’America impegnata negli affari del mondo. Parlo di un’America fedele al multilateralismo, dell’America che ha contribuito a far nascere le Nazioni Unite, un’America convinta che il mondo ha bisogno di regole, ma queste regole devono essere uguali per tutti».
Il confronto è facile e umiliante. Il ministro degli Esteri francese prende atto della vittoria di Bush e invece di dichiarare servizio e sottomissione, propone una alleanza alla pari, facendo notare la rete di nodi economici che impediscono a uno dei protagonisti di dichiararsi padrone della scena. Si rivolge al vincitore delle elezioni americane per chiedere realismo. Ricorda la parte più importante di un’alleanza pur motivata da tante ragioni morali e politiche: l’immenso contributo degli investimenti europei per riequilibrare e rendere meno drammatico il debito americano. Gianfranco Fini, che fra poco sarà il ministro degli Esteri italiano, autorizza il suo partito a trasformare due grandi fatti internazionali - la vittoria di Bush e la tragedia di Nassiriya - in due macchine di astio e disprezzo, pensato per dividere e contrapporre gli italiani, suscitare sentimenti velenosi dentro il Paese, senza alcuna nozione di ciò che è avvenuto nel mondo, senza alcuna visione del rapporto fra Italia e Europa, fra Europa e Stati Uniti, e con il resto del mondo.
È evidente che questa coalizione di governo non ha altro collante che l’aggressività verso i propri avversari politici. Per mantenere quell’unico legame ed evitare il rischio continuamente imminente di sfascio, la coalizione di Berlusconi è costretta a tenersi in un continuo stato di attacco, utilizzando - e facendo uguale - qualunque vicenda, dalla impossibilità a mantenere promesse continuamente ripetute e continuamente negate dai fatti, ai morti di Nassiriya, dalle umilianti brutte figure europee alla interpretazione da circo delle elezioni americane, dalla guerra contro le coppie di fatto e la procreazione assistita alla guerra in Iraq, dal dissesto dei conti pubblici allo scontro di civiltà. In tutti questi casi e negli infiniti altri che sono l’elenco di attività di governo in Italia, l’intento è sempre lo stesso: dividere, incattivire, mettere una parte del Paese contro l’altra, rendere impossibile ogni pausa di rasserenamento e di buon senso che dia spazio a momenti di vero governo e vero e normale lavoro politico. Ma per la coalizione di Berlusconi c’è un pericolo che essi vogliono evitare a tutti i costi. Interrompere l’aggressione e la rissa vuol dire obbligare ciascuna delle parti che formano la strana aggregazione a guardarsi in faccia e dirsi le ragioni per stare insieme. Non ne hanno che una, la sopravvivenza. La sopravvivenza richiede l’attacco. E poiché all’attacco (che deve essere rozzo e offensivo e continuo) devono partecipare tutti, diventa impossibile, sul campo, distinguere Udc e Lega, Follini e Calderoli, i Le Pen italiani e coloro che sono semplicemente persone di destra, chi è in politica per fare politica, chi è stato assegnato alla politica come a un ramo d’azienda. Comunque l’attacco, l’allarme, lo stato di emergenza, il clima di guerra, il sospetto di tradimento, l’accusa sanguinosa, la calunnia costante sono necessari per coprire il disastro clamoroso di tre anni di governo. Perciò i “guardiani della rivoluzione” (che quando non sono abbastanza guardiani, nelle Tv e nei giornali, vengono prontamente rimossi) non smettono mai il loro lavoro: tormentare con sempre nuovi pretesti di emergenza, di divisione, di attacco. Un giorno sono questioni di religione, un giorno sono rivelazioni strategiche, un giorno si sbandiera la finta economia o il finto amore americano. Poiché hanno il controllo totale, e sono capaci di una severa intimidazione di tutte le fonti di comunicazione, non c’è problema. La scelta, il capriccio, toccano a loro.
È un peccato, perché il quadro di ciò che accade diventa sgradevole e scostante. Non resta che lavorare nel modo più rigoroso e più coerente possibile per un ritorno a casa di Berlusconi. Riporterà l’Italia, all’istante, al livello di un Paese normale. Tutto il resto, per quanto grave e pesante e immerso in un mondo difficile, tornerà a diventare il lavoro di tutti i giorni. Senza la tassa di umiliazione, di ridicolo,di pericolo che Berlusconi impone da tre anni all’Italia.
Tratto da l'Unità del 14 novembre 2004
domenica 14 novembre 2004
Usa, Europa Italia
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