di Furio Colombo
New York Vi è una interruzione nella vita americana. Da ieri, 1° novembre, tutto si è fermato, come in Florida quando si aspetta il tifone. Persino giornali e televisioni, che finora hanno scrupolosamente diviso spazi e minuti, adesso sono fermi sull’orlo di un vuoto. Un vuoto di cui nessuno sa niente. Quarantotto a quarantotto, i sondaggi di Bush, i sondaggi di Kerry. È diventato come un numero di cabala. Moltiplicandolo o dividendolo, dovrebbe svelare il mistero di questa attesa immobile, ma nessuno conosce la formula.
L’attesa non è neutrale. Per la prima volta, nella mia esperienza americana (dalla elezione di Kennedy a quella di Clinton) chiunque, dal funzionario dell’aeroporto al tassista, dall’incontro casuale alla conversazione fra amici, ti dice il suo voto. Te lo dice con un misto di fierezza, di ostinazione, di rabbia, con l’intenzione esplicita di far sapere: nessuno cambierà il mio voto, per nessuna ragione. E dedica all’altro candidato parole che non avevo mai sentito nella placida, a volte sonnolenta, vigilia di tante altre elezioni.
L’America è un Paese in marcia, diviso, ansioso. È in marcia in due direzioni diverse. Sarà dura, per una delle parti, fare una svolta a U dopo il voto, e mettersi in coda alla colonna vincente.
Se questo fosse uno stadio, le due tifoserie apparirebbero contrapposte in modo irrimediabile, senza alcun punto di contatto. Non un segno della vecchia e bonaria tradizione americana dei dibattiti imparati nella scuola media, fondati sul riconoscimento educato delle ragioni dell’altro e conclusi con la stretta di mano.
C’è sempre il grande valore comune: l’America. Ma questa volta non è il territorio benevolo che ospita la contesa ravvicinando le parti. Qui l’America è il tema stesso delle elezioni, la posta in palio. L’America è in pericolo. O la salva l’uno o la salva l’altro. Solo che il pericolo è descritto in due modi diversi, la soluzione è opposta, uno strappo in direzioni incompatibili.
Se il centro, di cui si è parlato tanto all’inizio di questa campagna elettorale, sopratutto da parte dei democratici, fosse una piazza, quella piazza sarebbe vuota. Nessuno vi offre una calma e tollerante visione sul valore del rito (il votare) che è più importante del risultato. Vi parlano sempre e solo dell’ansia, della incertezza, molte volte dell’angoscia sulla attesa del risultato.
Il giornalismo, che di solito indossa in clima elettorale il costume buono dell'arbitro, adesso ha assunto - almeno nelle grandi televisioni - un tono secco, senza gentilezze e ornamenti. Intervistano, in sequenze diverse, l'uomo di Kerry e l’uomo di Bush, che non si incontrano in video e non si scambiano i classici scherzi da club e da scuola media della politica americana in pubblico.
Il testo integrale del reportage del Direttore si trova sull'edizione cartacea de L'Unità
martedì 2 novembre 2004
Il reportage di Furio Colombo: «Ho visto due Americhe col cuore in gola»
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