martedì 25 gennaio 2005

Un eroe di troppo

di Alessandro Robecchi

Il ventesimo eroe italiano della pace in Iraq, mitragliere che mitragliava dall'alto, è morto mitragliato da terra, proprio come se fossimo in guerra. Inevitabile per (quasi) tutti i media l'uso della parola «eroe». Giusto il cordoglio e giusto il dolore: il ventesimo eroe italiano della pace in Iraq lascia una figlia di cinque mesi, che certo sarebbe stato più eroico veder crescere, andare a scuola, affrontare le mille difficoltà della vita. Si dice (ma l'ho letto soltanto su questo giornale) che non ci volesse andare, in Iraq, che l'avesse sfangata un paio di volte e che poi non abbia potuto evitarlo. E' sicuro, invece, che volasse su una carretta poco adatta e non corazzata, datosi che gli elicotteri corazzati non li mandiamo laggiù in Iraq, essendo armi da guerra ed essendo noialtri laggiù a far la pace. Comma 22. Un anno fa alcuni elicotteristi italiani si permisero di far notare che non c'erano le condizioni di sicurezza nelle missioni, nessuna certezza di non morire mitragliati dal basso mentre si vola, e si rifiutarono di volare. Furono presi a pesci in faccia, sbertucciati, sgridati di brutto e trattati come codardi. Non erano eroi. Pussa via, femminucce.

La parola eroe, sparsa ieri dai molti neo-cogl di casa nostra a piene mani tra le pieghe di un cordoglio che suona falso lontano un chilometro, non è però del tutto fuori luogo. Un uomo giovane mandato a combattere una guerra sbagliata e illegale che abbiamo chiamato missione di pace per puro paraculismo, senza nemmeno gli strumenti tecnici più sicuri per farlo, può ben essere un eroe. Uno che lavorava in mezzo alle ovvie menzogne della guerra, quelle che ci dicono quanto siamo amati laggiù, quanto a Nassiriya va tutto bene, quanto siamo umanitari. Uno che si muoveva in una realtà difficile, dove tu spari addosso alla gente e la gente spara addosso a te, circondato da una fiction ufficiale fatta di belle parole, inni, pacche sulle spalle, discorsi su libertà e democrazia, nazionalismo e maschia voglia di menar le mani, ma - si capisce - solo perché Saddam era tanto cattivo, anche se non aveva armi di distruzione di massa.

Non è una cosa facile passare al setaccio la retorica del momento, distinguere nel lutto e nel dolore le frasi di circostanza dalla sostanza vera. Lo faceva per passione. No, per aiutare i bambini (di cui incidentalmente, però, mitragliava i padri). No, per senso del dovere. No (Salvatore Scarpino su Il Giornale) «per distribuire caramelle senza allentare la vigilanza». Si può scegliere fior da fiore, ma sempre si nota l'imbarazzo e il disagio dei sostenitori della guerra, gli stessi che la chiamano pace, gli stessi che sono costretti a chiamare eroi i caduti da loro stessi mandati a cadere. Eroi che vengono celebrati da fiumi limacciosi di retorica e sommersi da messaggi ufficiali, ma che dopo un po' sono ingombranti, ricordano a tutti che sono stati mandati a fare una cosa sbagliata e per di più con mezzi inadeguati, la versione moderna delle vecchie scarpe di cartone con cui si mandarono altri giovani a diventare eroi sul Don e sulla Drina. Avere un eroe può far piacere - fidelizza l'utente, come dicono quelli del marketing, e la guerra ha il suo - ma prima o poi si diffonderà l'idea che era meglio non averlo, che si poteva non averlo, che con qualche accortezza (politica o militare) si poteva avere un eroe in meno e un marito, un padre in più.

Per questo il ventesimo eroe italiano della nostra benemerita pace con l'Iraq sarà celebrato con tutti gli onori e poi frettolosamente dimenticato, archiviato come «casualità», o come incidente nel luminoso percorso della consegna porta a porta della democrazia in Iraq. Secondo le carte dell'inchiesta, sarà soltanto stato vittima di «attentato con finalità di terrorismo», che è un altro bell'esercizio di paraculismo per evitare di dire che stiamo facendo la guerra. Mitraglia alla mano, sorvoli un territorio che hai invaso, ma se per caso ti sparano sono soltanto terroristi. Non è una novità che si neghi agli iracheni la patente di combattenti. Ma è un chiaro effetto collaterale che se quelli non sono combattenti (soltanto terroristi), l'eroe è un po' meno eroe. Ecco che già nelle pratiche della burocrazia e nelle carte bollate la parola eroe trascolora, perde forza, si squaglia un po'. Tra pochi giorni anche i neo-cogl la useranno con più pudore: celebrare troppi eroi fa male alla guerra, è cattiva pubblicità, meglio scordarseli presto e, soprattutto, scaricarseli dalla coscienza. Quelli che oggi usano con tanto ardore la parola eroe sono quelli che l'eroe l'hanno mandato là, usandolo da vivo e poi pure da morto. Grande cordoglio. Ma l'eroe meglio scordarlo in fretta.

da il manifesto del 23/01/2005

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