giovedì 18 agosto 2005

Il codice politico

di ANTONIO TABUCCHI


L'Italia sembra stupirsi perché si dice che Berlusconi attraverso amici suoi stia comprando il Corriere della Sera. Lui nega. Forse non è lui, è una P3, chissà. Comunque stupisce tanto stupore, come se si trattasse di un fatto inaudito. Berlusconi ha un conflitto d'interessi grosso come il Titanic, possiede quasi tutta l'informazione italiana: rientra nella sua logica che cerchi di eliminare il «quasi». Il suo sistema consiste in un regime mediatico e di affari esteso su tutta l'Italia che serve a due scopi: diffondere il pensiero di Berlusconi (perché Berlusconi ha un pensiero, per quanto unico ed elementare) e aumentare in maniera faraonica le sue casseforti (in quattro anni di governo è diventato uno degli uomini più ricchi del pianeta). Il problema dunque non è tanto l'eventuale acquisto del Corriere da parte sua o di un'ipotetica organizzazione, il problema è perché si è arrivati a questo punto. A un punto tale che in una lettera al direttore di Repubblica, dopo essersi rammaricato che De Benedetti non sia entrato in affari con lui a causa del «massacro mediatico, e tutto politico, che investe immediatamente chiunque osi entrare in rapporto con Silvio Berlusconi» (Berlusconi non dice mai «con me», si chiama sempre Silvio Berlusconi, come se fosse un altro) e dopo avere affermato che lui tale massacro lo soffre quotidianamente sulla sua pelle da quando ha «osato togliere il potere a una sinistra illusa di avere già vinto», Berlusconi così conclude: «Non vorrei, signor direttore, che questa stessa sinistra e che molte persone che la pensano come Lei si illudessero ancora una volta». Che sembrerebbe una frase sempliciotta, e che invece è abbastanza complessa, perché è una sorta di messaggio in codice, che tradotto ai profani suona: lasciamo perdere il Corriere, che di quello mi occupo io; a voi di Repubblica stavolta è andata bene, ma vedremo alla prossima, perché gli affari sono affari, e chi in Italia è in affari, prima o poi, volente o nolente, gli affari li deve fare con Silvio Berlusconi, visto che i miei soldi sono dappertutto.

Ma è opportuno ricordare, a questo punto, che quando la società civile italiana (cioè quei cittadini che non credono alle televendite e ai telecontratti berlusconiani) si accorse che Berlusconi stava instaurando in Italia un regime totalizzante (non totalitario, totalizzante - cioè basato sul controllo di tutto ciò che acquistiamo, che leggiamo, che vediamo e che sentiamo) e cominciò a manifestare la sua forte preoccupazione (grandi scioperi sindacali, Palavobis, girotondi, interventi di intellettuali sulla stampa ancora libera, eccetera), dall'opposizione, in specie da quel pezzo dei Ds detti «riformisti» (che non si capisce cosa mai debbano ancora riformare, essendo tutto già riformato da tempo) e da coloro che si dicono progressisti ma chissà perché «sospettano» delle socialdemocrazie scandinave come se fossero rivoluzionarie, si alzò un severo monito, «Non si deve demonizzare l'avversario!».

Cioè: i cittadini che protestavano (peraltro civilissimamente) perché un presidente del consiglio che è al contempo padrone di mezza Italia confezionava a raffica leggi ad personam e licenziava giornalisti della televisione di Stato come se fossero stallieri delle sue ville, per una certa opposizione (la stessa che precedentemente con tale signore era entrata in colloqui istituzionali non andati poi a buon fine) erano dei demonizzatori del povero Berlusconi. E intanto Berlusconi, facendo gli affari suoi e le leggi sue, demonizzava a tutto vapore: tutti comunisti, le toghe rosse, i magistrati mentalmente disturbati, la nostra Costituzione «sovietica», il maggior sindacato italiano «mandante» di omicidi, la commissione Telekom Serbia, e via demonizzando. Con tutti i suoi mazziatori schierati nelle postazioni giornalistiche o televisive, non di rado coadiuvati da qualche gentile rifondatrice del comunismo che infilava la cartuccera nella mitraglia del cecchino (si veda il recente processo instaurato a Cofferati, «reo» soprattutto di aver portato in piazza tre milioni di italiani in pieno berlusconismo: una cosa che in Italia non si perdona a nessuno, né da destra né da sinistra). Questa filantropica «comprensione» dell'avversario parve strana a molti. Così come parve stranissimo che alcuni politici dell'opposizione sembrassero punti da una serpe se qualcuno definiva «regime» il sistema di Berlusconi (che con il sistema economico-mediatico di cui sopra ha ingabbiato l'Italia in una camicia di Nasso che è una forma di regime). Alcuni personaggi dell'opposizione reagivano alla parola come se si parlasse di loro o di un parente stretto, tanto che veniva voglia di tranquillizzarli. E la creazione da parte dello stesso partito di un giornale come Il Riformista (dal colore di giornale economico) che facesse la guardia all'Unità allorché a Berlusconi fa un'opposizione come si deve, cioè senza sconti e comprensioni, non è strana? È stranissima. Attualmente il chiodo fisso del Riformista è Antonio Padellaro, come lo è stato Furio Colombo, fino alle sue «dimissioni». Ma quelle «dimissioni» non sono strane? Lo sono quanto e più di quelle di Ferruccio De Bortoli dal Corriere della Sera. Viene spontaneo pensare che Berlusconi abbia la mano lunga a destra, al centro e a sinistra. E l'elogio di Craxi fatto dal segretario di un partito che dovrebbe rivendicare la questione morale, non è strano? Non solo è strano, è inaccettabile, soprattutto se giustificato dalla curiosa motivazione che Craxi appartiene alla storia di famiglia. Se fosse stato detto: «purtroppo Craxi appartiene alla storia di questa famiglia», il discorso cambiava, perché per le famiglie perbene esiste l'interdizione del parente che ha buttato male. Il sistema politico di Craxi, fatto di corruzione e di intrecci oscuri con la finanza, era un sistema marcio, ragioni per le quali è morto in contumacia con una condanna sulle spalle. Accettarlo in una famiglia come se il legame del sangue fosse più importante dei principi morali, è un fatto strano.

Ma tutte le stranezze, tutte le anomalie, hanno una spiegazione, non sono effetto di fenomeni paranormali. Lungi dal voler attribuire in anticipo qualsivoglia colpevolezza a chicchessia, una cosa è certa: le recenti intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura rivelano allarmanti intrecci fra politica e finanza. Un mondo sottobanco (o sotto-banche) fluido, filamentoso, multiforme e proteiforme, un alien i cui gangli vitali interagiscono e si alimentano a vicenda: una vera «società multicolore». Sorpresa? Non troppo, per chi ricorda quello che già è successo in Italia. Per chi ricorda Sindona, Marcinkus, il Banco Ambrosiano, Calvi. Per chi ricorda il Caf. Per chi ricorda i metodi del craxismo. Per chi ricorda Mani pulite (poi mozzate dalla classe politica tutta).

Ma facciamo finta che l'Italia sia un paese normale. Facciamo finta che certi accoppiamenti poco giudiziosi non siano mai avvenuti, che tutto si svolga in una trasparenza almeno relativa, come si svolge nel resto dei paesi civili europei o nelle temute socialdemocrazie scandinave. Facciamo finta che le accuse di latinoamericanizzazione che giornali come l'Economist lanciano all'Italia siano frutto di pura maldicenza, e spostiamoci davvero in America Latina. El País del 13 agosto, nella sua rassegna stampa internazionale, riporta questo testo apparso sul quotidiano peruviano La República, intitolato Etica, corrupción y política e riferito al governo brasiliano. Traduco le righe finali: «Costa fatica pensare che Lula non fosse al corrente della corruzione. E gli stessi brasiliani sono rimasti di stucco allorché Lula ha assicurato che non sapeva niente dei movimenti del suo compagno e intimo amico José Dirceu. Le stesse persone che rivendicavano un esercizio etico della politica hanno organizzato o tollerato la corruzione degli oppositori con denaro di oscura provenienza. Ora che il vento della sinistra soffia con forza in almeno sette paesi dell'America Latina, è urgente che i suoi leader capiscano che la trasparenza è imprescindibile per chi aspira a essere portavoce delle cause del popolo».

Io non so se sull'Italia soffia un vento di sinistra o di destra, e poco importa in questo caso la direzione da cui proviene. So però che è un vento bolso e sabbioso, uno scirocco malsano che abbatte e demoralizza tutti quei cittadini (sono molti) che cominciano a sospettare che il simbolo che votano sulla scheda elettorale non contenga ideali o progetti, ma mascheri delle azioni bancarie (che ovviamente non hanno colore). Per quanto mi riguarda l'appello per un codice etico che con altri ho indirizzato a Romano Prodi concerne soprattutto questo punto. È vero che un codice etico non basta: certe caratteristiche antropologiche di una classe politica non si cambiano con un codice. Ma può essere un profilattico punto di partenza per evitare brutte sorprese. Ma questo Prodi lo sa meglio di noi, perché sa che stavolta deve evitare ad ogni costo brutte sorprese.

tratto da il manifesto del 17/08/2005

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