di ALESSANDRO ROBECCHI
Ero davvero pronto a tutto. A tutto, tranne che a sentirmi dire che «non siamo pronti». Eppure, stringi stringi, tra l'attesa delle primarie e l'attesa delle elezioni, è questo che, in sostanza, sta dicendo l'opposizione-futura-maggioranza: non siamo pronti alla spallata finale, non vogliamo elezioni anticipate, nemmeno di cinque minuti. Il programma arriverà mentre ci stiamo facendo la barba per andare al seggio, perché «nessuno presenta un programma dieci mesi prima delle elezioni». Meglio dieci minuti prima, così non ci sarà troppo tempo per litigarci sopra. Persino dalle chiacchiere tra i compagni, dai microfoni aperti di Radio Popolare, dai commenti dei dirigenti e pensatori della sinistra sui giornali, si apprende alla fine questo: vinceremo, probabile, ma adesso, ora, in questo preciso istante, «non siamo pronti». Ecco. Io ero pronto a tutto, ma non a non essere pronto. Mi aspetto ancora furibonde giravolte, carpiati e capriole, centristi che si accentrano, Rutelli che rutellano, persino un paso doble di Casini, condito con qualche sberlone tra ds e margherita, tra margherita e ds, rinfacci e accuse su banche e banchieri, don Gallo che fa gli scherzi da prete a Bertinotti. E magari anche qualche «lei non sa chi sono io» e un paio di fraterni «vaffanculo», insomma, la tipica dialettica interna del centrosinistra ai tempi del colera, che attraversiamo ormai da qualche decennio senza aver scoperto il vaccino.
Io so tutte queste cose e le considero un po' patrimonio genetico della sinistra. Ma non essere pronti, una volta tanto, non è possibile, non è perdonabile e ancor meno è comprensibile. E' quasi una provocazione, come se il Cnl nell'aprile del '45 avesse tuonato dalle colline: non siamo pronti, si potrebbe rimandare al 25 maggio? Al 25 giugno? Dateci ancora un po' di tempo. Proprio così: dopo quattro anni abbondanti di scorrerie e ruberie, di calpestamento della costituzione, di arricchimento dei ricchi, di impoverimento dei poveri, di voti di fiducia, di leggi fatte apposta per salvare il culo a questo e a quello, di pasticci, di patti vergognosi con la Muti leghista, di leggi razziali come la Bossi-Fini (e potrei andare avanti per un paio di paginette), non si può dire «non siamo pronti». Eppure ogni volta eravamo lì, a strapparci i capelli e a protestare. A dire «all'erta sto», a gridare al regime, e a litigare tra noi se c'è il regime, se non c'è, se solo gli somiglia, se è da operetta o da ospedale psichiatrico. Ma intanto il regime o chi per lui andava avanti, risolveva il problema dei precari precarizzandoli a vita, normalizzava l'informazione, faceva i soldi. Praticava - dal calcio alle assicurazioni che si mangeranno i tfr, dalla tivù alla finanza - il suo elefantiaco conflitto di interessi, quel peccato originale che tutti i tromboni del grandi giornali denunciarono da subito: si risolva il problema in cento giorni! In un anno! E poi, oblio e silenzio. E ogni volta che passava una legge, una politica neoliberista, un restringimento dei diritti - dalle legge 30 alla legge 40 - o addirittura una guerra, tutta l'opposizione che tuonava: noi faremo, noi diremo, noi cambieremo tutto questo. E dunque ti veniva da pensare, gattino cieco che sei, che eccolo qui il programma, è già fatto: ogni cosa loro la dovremo ribaltare, abrogare, ridiscutere. Eccolo qui il programma, una ricostruzione nazionale, un rendere ai derubati dal mercato quello che si sono presi gli squali dei dividendi e delle plusvalenze. Un restituire dignità e «normalità» (e soldi) al paese, un bastonare il falso in bilancio anziché benedirlo e incentivarlo. Insomma, uno scendere e sciamare dalle colline verso le città e liberarle, e dire chiaro e forte che adesso si cambia musica. Magari con qualche ingenuità, o eccesso di entusiasmo, magari dicendo che l'ha fatto Zapatero, facciamolo pure noi. E invece guardo ai discorsi della sinistra e vedo che Zapatero praticamente non esiste: non solo non è un esempio, ma rompe le scatole, è un cattivo maestro. Meglio farlo dimenticare, che sennò si spaventano i centristi, al Riformista appendono l'aglio alle porte della redazione, a Rutelli gli viene l'orticaria; seri e ponderosi, i ds dicono: non esageriamo!
Ecco qui, non siamo pronti, dobbiamo ancora sistemare tante cose, Ds, Margherita, terzo polo, Mastella, i post-it di Bertinotti, la sindrome da accerchiamento, la questione morale, le banche e le cooperative. Quattro anni di salita, e ora che comincia la discesa, tutti contro tutti, a sputarsi e tirarsi i capelli. Coraggio, per il programma è presto, non vedete che abbiamo da fare? Non siamo pronti.
Incredibile.
da il manifesto del 21/08/2005
martedì 23 agosto 2005
Non siamo pronti
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