giovedì 25 agosto 2005

Primo, colpire i privilegi

di Gian Giacomo Migone


Chiunque si accinga a governare il Paese - le elezioni politiche per fortuna non sono lontane - deve assumere un impegno di ricostruzione con ciò che di morale e materiale questa parola storicamente evoca. Non è solo una questione di conti pubblici. C'entra la qualità della vita pubblica come dimostrano le cronache solitamente più tranquille del mese di agosto. Persino la funzione e la credibilità della Banca d'Italia sono compromesse.

Un'istituzione che, senza essere perfetta, in passato aveva superato molte prove in un Paese giovane - solo 150 anni, non dimentichiamolo - e perciò povero di tradizione statuale.

L'impegno di ricostruzione non può solo riguardare la sfera pubblica ma deve investire un'economia e una società fortemente bisognosi di una trasformazione che le collochi all'altezza delle sfide europee e globali, non è solo questione di Parmalat da cui quasi nessuno sembra avere imparato nulla. Basti riflettere su un'economia, fino a pochi anni fa per dimensione la quinta del mondo, che ha liquidato gran parte del proprio patrimonio industriale (cfr. Gallino) e che, per difendere le proprie banche da acquisizioni straniere di per sé potenzialmente salutari, debba ricorrere ai cosiddetti immobiliaristi e ai loro veri o presunti padrini politici. Sono fenomeni la cui entità non certo assolve il governo in carica ma lo riduce a un epifenomeno: l'esasperazione grottesca di mali antichi cui non può e non vuole mettere mano.
Il grande sforzo per l'ingresso dell'euro fu qualche cosa di simile a ciò che un nuovo governo dovrà mettere in atto. Se non vi fosse stato, la partita sarebbe già chiusa. Tuttavia, per riaprirla, per sottrarre il Paese alla propria autoesclusione, oggi non basterà affrontare la sfida non solo contabile dei conti pubblici. Nessuna coalizione di governo potrà vincere le elezioni ma nemmeno governare chiedendo ancora una volta solo o soprattutto sacrifici, eventualmente alleviati da una congiuntura più favorevole, se questi non fossero sostenuti da almeno tre ferme convinzioni: che quei sacrifici siano necessari, che contengano elementi di risanamento duraturi e che siano equamente distribuiti.

Cosa significa equità? Quando ero poco più che ragazzo, Donato Menichella ci spiegava che, dopo la seconda guerra mondiale, gli inglesi avevano evitato la borsa nera e conservavano il razionamento mentre noi, che la guerra non l'avevamo vinta, «mangiavamo le pasta alla crema da Caflish. E sapete come avveniva questo miracolo?», chiedeva il successore di Einaudi alla Banca d'Italia. «Gli inglesi erano certi che le due principessine disponevano di 50 grammi di zucchero al mese, esattamente come i loro figli».

In altre parole, lo sforzo dovrà essere equamente distribuito più di quanto non lo fosse nella ricostruzione del dopoguerra. Con buona pace di Menichella, non tutti mangiavano le paste da Caflish. Ma una ricostruzione non è equa soltanto perché i sacrifici sono equamente distribuiti, affinché non siano i soliti a pagare.

Anche, ma non solo: l'apologo di Menichella contiene un ulteriore elemento, quello del buon esempio da parte di chi sta al vertice della piramide. I sacrifici della principessa Margaret e della futura regina, Elisabetta II, non cambiavano nulla di materiale nella politica di approvvigionamento del governo laburista, ma costituivano la condizione etica politica per costruire un consenso intorno a quella politica. Non sono convinto che tutti o anche i principali mali dell'Italia risiedano esclusivamente nella sfera pubblica. Basterebbe valutare la moralità delle liquidazioni di certi manager in fuga da grandi imprese private in crisi.

Ma il punto, come si dice ormai, è un altro. Proprio perché gli amministratori pubblici hanno poteri relativamente scarsi rispetto alla società nel suo insieme (e che tali poteri sono ulteriormente erosi dai cosiddetti processi di globalizzazione), non possono permettersi di rinunciare a quello essenziale per esercitare qualsiasi forma di indirizzo o leadership: quello dell'esempio che si traduce anche, banalmente, in uno stile di governo.

Un'auto blu soppressa, una scorta spostata ad altri incarichi, hanno sicuramente un'incidenza limitata ai fini del risanamento dei conti pubblici o della prevenzione antiterrorista, ma se diventano atti ripetuti ed estesi a settori più significativi potrebbero generare qualcosa che, salvo in rarissime occasioni nel nostro Paese, non c'è mai stato: fiducia in chi governa, fiducia nella sua volontà e capacità di autodisciplinarsi in nome di un interesse collettivo e non per estendere i privilegi della classe politica.

Poiché ogni buona predica non è tale se non si conclude con almeno un'indicazione operativa, eccola! Chiunque voglia governare con questi intenti, compia un atto preliminare indispensabile: la costituzione di una commissione parlamentare con i necessari poteri e tempi stretti che abbia il compito di esplorare e «mappare» la selva selvaggia delle retribuzioni reali - insisto reali: gettoni di presenza, fuoribusta, fringe benefits ecc. - di tutto il settore pubblico, compresi i più inesplorati sancta sanctorum del potere istituzionale, ma anche di quello meno aulico e forse più concreto (come la Rai). Ne emergerà, per l'appunto, una giungla piena di paradossi e pericolose assurdità, oltreché sprechi.

Perché chi non conosce la realtà, chi non la vuole conoscere, nemmeno intende trasformarla. È un discorso lungo, anche affascinante, che vale la pena riprendere.

g.gmigone@libero.it

Tratto da l'Unità del 25/08/2005

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