di MASSIMO GIANNINI
SFIANCATO da un'endemica crisi di credibilità pubblica, sfibrato da una drammatica caduta di leadership personale, Silvio Berlusconi rifiuta per l'ennesima volta il gesto che qualunque medico pietoso, al posto suo, avrebbe già compiuto da un pezzo: staccare la spina. Accertare l'avvenuto trapasso politico del suo governo. Non c'era occasione più opportuna e doverosa. Le dimissioni del ministro dell'Economia, alla vigilia del Fondo Monetario Internazionale e del varo della Legge Finanziaria. Un trauma troppo grave, e forse senza precedenti nella storia recente. E invece l'ultima soluzione inventata per tenere ancora in vita questo centrodestra supera i confini dell'accanimento terapeutico. Esce Siniscalco, rientra Tremonti. Come se niente fosse. Senza un passaggio istituzionale e un dibattito parlamentare.
Senza che il premier si presenti davanti alle Camere, a spiegare al Paese quello che è successo. E magari a chiedere anche un nuovo voto di fiducia per una squadra scassata che cambia formazione per la tredicesima volta in quattro anni.
L'orologio della vicenda politica italiana, così, torna indietro di quindici mesi. Allora gli alleati della Cdl imposero al governo e siglarono con Fazio il loro patto scellerato: salvare il governatore e scaricare Tremonti. Oggi, quegli stessi alleati rompono il patto con Fazio e ne sovvertono i termini: defenestrare il governatore e riabilitare Tremonti. Nell'illusione irresponsabile che tutto possa tornare come prima. E invece non è così. Il successore di Siniscalco, adesso, può legittimamente cantare vittoria. E godersi un risarcimento politico postumo ma assai rilevante, che gli deriva dal riconoscimento di un torto subito e dal richiamo collegiale da parte degli stessi "congiurati" che a suo tempo lo tradirono. Ma in mezzo a questi quindici mesi c'è un altro anno buttato via. C'è una maggioranza dilaniata, che ha sacrificato al conflitto di coalizione tempo e risorse utili alla crescita della nazione. C'è un'economia affannata, che avrebbe avuto bisogno di riforme e invece ha conosciuto solo immobilismo. C'è un'opinione pubblica stanca, che chiedeva stabilità e sicurezze e ha ottenuto in cambio solo rissosità e nefandezze.
Può darsi che dal punto di vista del Polo (o di quel che ne rimane) la "riassunzione" di Tremonti al ministero dell'Economia sia la scelta meno rischiosa. L'uomo capisce fin troppo di economia, essendo stato l'inventore della finanza creativa. Ha un indubbio spessore politico sul piano interno. Gode di uno standing riconosciuto sul piano internazionale. Offre anche, sulla carta, garanzie al presidente della Repubblica Ciampi, preoccupato come non mai dal destino incerto di una delle manovre economiche più complesse degli ultimi dieci anni. Ma per compiere questa scelta, Berlusconi ha dovuto pagare almeno due prezzi. Uno più salato dell'altro.
Il primo prezzo riguarda proprio Fazio. Dopo aver biascicato parole vuote alternate a imbarazzanti silenzi, alla fine il premier è stato costretto ad esprimere quel concetto elementare che, per tre lunghi mesi e per ragioni insondabili, si è sempre rifiutato di pronunciare: il governatore della Banca d'Italia non gode più della fiducia del governo. Era quello che gli aveva chiesto inutilmente Tremonti un anno fa. Era quello che gli ha ripetuto inutilmente Siniscalco in queste ultime settimane. Berlusconi lo ha negato a entrambi, sfiduciando loro invece che Fazio. Oggi, sotto il ricatto incrociato di An e dell'Udc, glielo concede. Ma lo fa nelle condizioni peggiori.
Questo è esattamente l'aut aut che gli ha posto lo stesso Tremonti, stavolta con il supporto incrociato di Fini e Follini: l'ex ministro può rientrare, ma solo a costo di una sconfessione pubblica del governatore. Così la mossa del Cavaliere risulta anche tardiva. Se l'avesse fatta un mese fa, avrebbe risparmiato questa nuova, drammatica convulsione alla sua maggioranza.
Avrebbe evitato questa ulteriore, miserabile figura davanti al mondo. Si sarebbe tenuto stretto il suo ministro dell'Economia, rafforzandolo in vista delle forche caudine della legge di bilancio. Non l'ha fatto, e ha preferito cadere e trascinare tutti in questo abisso. A questo punto viene quasi il sospetto che proprio Siniscalco fosse diventato un inciampo, sulla via disperata e dissipatoria scelta da un centrodestra in declino inarrestabile. Una Finanziaria elettorale, che serve a recuperare consensi molto più che a risanare i conti, non può garantirla un ministro tecnico, abituato a rispondere più ai mercati che ai partiti.
Il secondo prezzo che oggi paga il Cavaliere è probabilmente più caro. E per lui sicuramente più doloroso. Per mettere una pezza a colori sul buco aperto da Siniscalco, e per dare via libera al ripescaggio di Tremonti, Udc e An hanno alzato la posta oltre il limite finora conosciuto, in questo centrodestra rigorosamente costruito sulla biografia dell'uomo di Arcore. Follini ha osato dire in conferenza stampa, seduto a fianco al premier e davanti alle telecamere delle sue tv, che "Berlusconi non è il candidato migliore" per la sfida elettorale del 2006. E insieme a Fini, gli ha estorto l'impegno a lanciare le primarie anche nel centrodestra, per scegliere il futuro leader da contrapporre a Prodi. È un evento storico. Per certi versi epifanico.
Cade l'Impero berlusconiano. Cade la mistica dell'unto del Signore. La sovranità del Cavaliere, attinta in questo decennio dalla fonte esclusiva del suo indiscutibile carisma e del suo inesauribile denaro, torna nelle mani dei cittadini-elettori. Cioè torna là dove deve stare secondo le regole della democrazia popolare, e non dove era stata trasferita in questi cinque anni di autocrazia populista. E così, per cercare di rimettere in piedi le macerie della Casa delle Libertà, Berlusconi è costretto a profanare il suo tabù.
A pensare l'impensabile. Lui, il "monarca rivoluzionario" che scende dal trono di Palazzo Grazioli. Lui, l'"antipolitico modernizzatore" che corre alle primarie, come un politico qualsiasi. In competizione con gli amici-nemici Fini e Casini. Una prospettiva innaturale, per un personaggio abituato a pensarsi sempre come "altro", rispetto alla cultura e alla tradizione repubblicana di questo Paese.
I prossimi giorni ci diranno se questa disperata terapia della sopravvivenza che la Cdl ha somministrato a se stessa funziona. Oppure se è solo un'altra tappa, a questo punto sicuramente l'ultima, verso un epilogo rovinoso. I segnali sono contraddittori, e per nulla confortanti. Se per la maggioranza i passaggi concordati ieri sembrano avere una qualche tenuta dal punto di vista della sua "meccanica", le parole sparse pronunciate dai leader dimostrano che il compromesso non regge dal punto di vista della sua politica.
Lo stesso Berlusconi, nei suoi sfoghi notturni ai microfoni di Porta a porta, mette già le mani avanti, e chiarisce che per lui, le primarie, sono in realtà le "assemblee degli eletti". Un altro trucco, che ha riacceso subito lo scontro con i centristi: se a scegliere il futuro premier del centrodestra fossero solo i parlamentari, i governatori regionali e i sindaci del Polo, l'esito del voto sarebbe già scontato, e sarebbe, di nuovo, un altro plebiscito per il Cavaliere. E per un'An e un'Udc che si accontentano della staffetta al ministero dell'Economia e del downgrading imposto al premier, c'è già una Lega pronta a salire sulle barricate, per difendere Fazio e per affossare le primarie. Altri nove mesi così, e alle elezioni del 2006, insieme alla Cdl, ci arriva morta anche l'Italia.
(23 settembre 2005)
http://www.repubblica.it/2005/i/sezioni/economia/finanziaria2/masgian/masgian.html
venerdì 23 settembre 2005
Il peso dei ricatti
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