La maggioranza intende cambiare la legge elettorale a pochi mesi dal voto perché ritiene di poter conseguire risultati migliori con il sistema proporzionale che con quello maggioritario. In effetti, con il presente sistema "misto", il centro-destra ottiene risultati sistematicamente migliori nella quota proporzionale che in quella maggioritaria. Anche le simulazioni degli effetti della riforma sulle intenzioni di voto espresse nei sondaggi sembrano fornire risultati più favorevoli al centro-destra, che riuscirebbe così a ridurre il suo distacco nei confronti di un centro-sinistra oggi accreditato della maggioranza dei consensi.
Ma è fuorviante pensare che la legge elettorale intervenga semplicemente cambiando l'esito, in termini di seggi, di una data distribuzione dei voti fra e all'interno degli schieramenti; le scelte di voto vengono in realtà esse stesse influenzate dalla riforma. L'esperienza storica indica che chi cambia la legge elettorale in genere perde voti. E come ci insegna la Francia, gli elettori possono punire ancora di più i Governi che unilateralmente cambiano le regole a proprio vantaggio poco prima del voto.
Se per i partiti è difficile prevedere l'effetto delle riforme sui loro risultati alle elezioni successive, questo compito è ancora più difficile per i singoli parlamentari. I precedenti storici dimostrano che i deputati e i senatori che approvano il cambiamento della legge elettorale hanno una probabilità più bassa di essere rieletti dei predecessori o di chi è loro succeduto in legislature successive.
La riforma proposta dalla Casa delle libertà in questo fine di legislatura in Italia aggiunge a questa incertezza ulteriori incognite: i) la competizione tra i partiti all'interno dello schieramento, ii) la possibilità che (dopo le elezioni) nascano nuove aggregazioni o nuovi partiti e iii) la complessità nei meccanismi di attribuzione del premio di maggioranza, in particolare al Senato. I parlamentari che voteranno a favore della nuova legge elettorale implicitamente voteranno per una maggiore flessibilità del loro lavoro. È bene che comincino a cercarsi una valida alternativa fin da subito.
Vediamo dunque in maggiore dettaglio cosa è successo in tutte le riforme di sistemi elettorali varate nei paesi Ocse dal 1960 in poi, procedendo in ordine cronologico.
Francia
Il 10 luglio 1985 il Parlamento francese approvò una riforma del sistema elettorale che ripristinava il sistema proporzionale (in vigore fino al 1958). La riforma serviva, nelle intenzioni di François Mitterrand, a indebolire il centro-destra, dato in vantaggio nelle intenzioni di voto per il rinnovo dell'Assemblée Nationale. Grazie alla riforma, le elezioni del 16 marzo 1986 "regalarono" al Fronte Nazionale una pattuglia di 35 deputati (prima non era rappresentato in Parlamento). Ma ciò non impedì la vittoria del centro-destra che, appena tornato al Governo, ripristinò il sistema maggioritario, nel luglio 1986.
Nuova Zelanda
La legge elettorale è stata modificata, passando da un sistema maggioritario a uno misto, nel 1993. La riforma è stata approvata su iniziativa dei due partiti di maggioranza relativa, il National Party e il Labour Party. Alle elezioni successive (1996) i due partiti sono scesi dal 96 per cento al 67 per cento dei seggi in Parlamento. E solo il 56 per cento dei parlamentari del 1993 ha mantenuto il proprio posto dopo le elezioni mentre in elezioni precedenti e successive il tasso di riconferma dei parlamentari uscenti è stato mediamente superiore al 70 per cento.
Giappone
La riforma elettorale è stata varata nel 1994, per iniziativa del Governo in carica, anche qui passando da un sistema maggioritario a uno misto. L'intenzione era quella di indebolire il partito che aveva egemonizzato la scena politica nel Dopoguerra, il Liberal Democratic Party (Ldp), per favorire una maggiore alternanza. Ma le elezioni del 1996 riportarono al potere il Ldp e attuarono un ricambio maggiore che in passato dei deputati uscenti. I parlamentari giapponesi erano, infatti, tradizionalmente deputati a vita. Prima della riforma, i deputati Ldp avevano in media 58 anni e cinque legislature alle spalle. Dopo la riforma, il ricambio dei parlamentari eletti nelle zone urbane fu molto più pronunciato. Nelle zone non urbane l'organizzazione di sostegno del singolo candidato è infatti molto forte, spesso molto più forte di quella del partito di appartenenza.
Italia
Non c'è bisogno di andare lontano per documentare gli effetti paradossali delle riforme della legge elettorale e l'incertezza che comportano per il futuro di chi le approva. Basta comparare le proiezioni svolte al momento del cambiamento della legge elettorale nell'estate 1993 con l'esito delle elezioni del 27 marzo 1994 per rendersi conto che la riforma portò a risultati molto diversi da quelli auspicati da chi l'aveva sponsorizzata. La Democrazia Cristiana aveva votato compatta a favore della riforma sia alla Camera che al Senato sulla base di studi che la accreditavano di una pattuglia tra gli 80 e i 180 deputati alla Camera. Ma pochi mesi dopo la Dc ottenne, assieme a reduci del Psi e del Pri, nel Patto per l'Italia, solo quattro deputati e grazie allo scorporo. Appena il 25 per cento dei senatori venne riconfermato. Nelle elezioni immediatamente precedenti e in quelle successive ne fu invece rieletto il 45 per cento. Alla Camera il tasso di riconferma fu del 30 per cento contro il 45 per cento delle elezioni successive e una media del 60-70 per cento in quelle precedenti. Certo, eravamo in piena tangentopoli, ma il ricambio di tre senatori su quattro e di due deputati su tre, non può essere solo il frutto dell'offensiva giudiziaria di quegli anni.
Un ultimo dato su cui riflettere
Dunque, le riforme del sistema elettorale possono riservare sgradite sorprese a chi le realizza.
Il disinteresse in genere manifestato dai cittadini nei confronti delle legge elettorali non significa che questi rimarranno passivi di fronte a una eventuale riforma, soprattutto se viene varata in extremis e con palesi finalità di alterare l'esito elettorale. Anche in Giappone, all'atto della riforma del 1994, solo il 15 per cento degli elettori riteneva che la riforma della legge elettorale fosse molto importante. Eppure, la riforma ottenne risultati opposti a quelli auspicati da chi la proponeva. Forse perché gli elettori sembrano pronti a punire chi cambia le regole intervenendo sul loro esercizio del diritto di selezionare la classe politica. E i sondaggi disponibili suggeriscono che la riforma oggi non è popolare in Italia, neppure tra gli elettori di centro-destra.
Non è un caso che di riforme dei sistemi elettorali se ne facciano così poche: anche prendendo in considerazione i paesi al di fuori dell'area Ocse, dal 1960 a oggi meno di un paese su quattro ha cambiato il sistema elettorale.
Noi ne abbiamo appena fatta una e i partiti e gli elettori si stanno ancora adattando al cambiamento. Vale davvero la pena di farne un'altra?
Tito Boeri
La Voce.info
mercoledì 12 ottobre 2005
Cosa accade a chi cambia la legge elettorale
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