di EUGENIO SCALFARI
ANCORA per un po' il circo politico vivrà di sondaggi, poi arriverà finalmente il giorno del voto e si vedrà se la realtà effettiva sarà eguale o diversa da quella virtuale.
L'ultimo della serie, pubblicato ieri da Repubblica, è stato effettuato da Demos-Eurisko su un campione di 1500 persone nel periodo 27 febbraio-1 marzo e vede in testa di cinque punti il centrosinistra. Confrontato con il precedente del 14-15 febbraio, il vantaggio della coalizione guidata da Prodi è cresciuto dello 0,7 per cento. In quindici giorni non è poco, anche se le cifre non scontano ancora i possibili effetti del viaggio americano di Berlusconi (ma neppure i dati Istat sulla crescita zero del Pil e la perdita di oltre centomila posti di lavoro). Chi vivrà vedrà. Ma intanto ci sono alcuni aspetti del sondaggio che si prestano a qualche considerazione.
Alla domanda "chi dia maggiori garanzie di lavorare nell'interesse di tutti" il 41,3 per cento degli intervistati indica Prodi e il 28,3 Berlusconi.
Ancora più schiacciante è il divario nella successiva domanda "chi tutela di più le persone deboli e bisognose": Prodi registra il consenso del 44,2 mentre Berlusconi incassa uno striminzito 26 per cento.
Altre domande danno esiti opposti. "Chi tiene più unita la propria coalizione?": Berlusconi 42,4 Prodi 27,9; "chi sa parlare meglio alla gente?": Berlusconi 54,3 Prodi 25,9. Un record, anche se viene fatto di pensare che se il metro di giudizio decisivo fosse fondato su questo quesito Benigni darebbe forfait a tutti e forse Bonolis e Baudo supererebbero il presidente del Consiglio. Ma gli italiani non hanno bisogno di comici o di presentatori, il 9 aprile sceglieranno il capo del governo e sanno che un Paese non si governa con le battute.
La domanda su chi dei due riuscirà a rilanciare l'economia dà un risultato alla pari; l'altra su chi ha meglio affermato la presenza dell'Italia nel mondo vede Berlusconi in vantaggio. Esaminiamo queste due risposte che ci fanno entrare nel merito della discussione. E cominciamo dall'ultima.
Quando Berlusconi formò il suo governo nel giugno del 2001 ereditò in politica estera una situazione di notevole prestigio in Europa - dovuta anche all'ingresso dell'Italia nella zona Euro - e ottimi rapporti con gli Stati Uniti dell'era clintoniana e con la Comunità internazionale rappresentata dall'Onu. Eravamo presenti in Bosnia sotto la bandiera delle Nazioni Unite e in Kosovo sotto quella della Nato.
In Medio Oriente in amichevole equilibrio con Israele e con l'Autorità palestinese. In cinque anni molte cose sono cambiate. Il terrorismo ha fatto la sua cruenta comparsa sulla scena mondiale, Bush ha lanciato la terza guerra mondiale per debellarlo, ha sgominato con l'appoggio compatto del mondo intero il regime dei talebani in Afghanistan. Poi, un anno dopo, lanciò la guerra preventiva contro l'Iraq dividendo la Comunità internazionale e l'Europa e cavalcando la contrapposizione tra Occidente e Islam radicale.
Berlusconi scelse di slancio di fiancheggiare Bush insieme a Blair e ad Aznar. Si creò la coalizione dei volenterosi.
L'Onu si spaccò. L'Europa si spaccò. A tre anni e mezzo da quelle vicende e da quella scelta quali sono i risultati? In positivo una forte amicizia con Bush e con l'America conservatrice. In negativo una perdita secca d'influenza in Europa aggravata dal fatto che per cinque anni il governo italiano non ha fatto altro che picconare poteri e autorità della Commissione europea puntando su una sempre maggiore libertà di movimento dei governi nazionali a danno dell'unità economica e politica dell'Europa. Salvo accorgersi proprio in queste ultime settimane che l'Europa è il solo scudo per noi, vaso di coccio, sia in economia, sia rispetto alle crisi del Medio Oriente, sia nella questione dell'immigrazione.
L'alleanza tra Europa e Usa è certamente un punto fermo e imprescindibile, ma la marginalizzazione italiana in Europa è il risultato negativo della politica estera berlusconiana. Dell'Europa siamo parte integrante, tra i sei paesi che la fondarono. Quella è la piattaforma sulla quale dobbiamo muoverci e farci valere. In economia e in politica. Da questo punto di vista l'azione italiana è stata un fallimento che neppure la vittoria della Merkel in Germania ha migliorato.
Se poi consideriamo la posizione italiana in Medio Oriente, il quadro diventa ancora più fosco. Siamo in Iraq da tre anni e mezzo. Per aiuti umanitari? Briciole. Per istruire la polizia irachena e la guardia nazionale?
Il comandante in capo americano in Iraq ha dichiarato pochi giorni fa: "Non esiste un solo battaglione iracheno che sia in grado di opporsi efficacemente alla guerriglia se non fosse aiutato dalle truppe della coalizione. Allo stato dei fatti le cose stanno così".
Ho riportato testualmente: non un solo battaglione. Sapete perché? Perché polizia ed esercito iracheni sono stati costituiti inquadrando entro un'apparenza legale le milizie armate dei vari partiti: milizie fedeli all'ayatollah al Sistani, milizie fedeli al mullah Muqtada al Sadr, milizie curde e perfino milizie sunnite. Esse partecipano agli scontri con le bande di guerriglia non già per impedirli ma per alimentarli. Ecco perché una polizia irachena e un esercito iracheno non esistono: sono composti da bande di fazione alle quali non abbiamo un bel niente da insegnare.
Sicché l'Iraq, pur dopo elezioni che hanno registrato notevole affluenza, resta un pantano dal quale non si verrà fuori se non tra cinque anni e forse più a meno di non decidere seguendo il metodo di Zapatero.
Quali vantaggi ha ricavato l'Italia dalla scelta "americana" di Berlusconi (al netto della medaglia "endurance freedom" ricevuta dal "premier" nel salone della portaerei "Intrepid")? Nessun vantaggio. I paesi europei che non hanno mandato truppe in Iraq possono negoziare con l'America con buone chance di successo per i loro interessi. Noi no, abbiamo dato e non ricevuto. Salvo l'appoggio elettorale di Bush a Berlusconi. Ad personam ancora una volta perché questo è il canone berlusconiano di governo e di vita. Saggiamente alla domanda "chi darà maggiori garanzie di tutelare l'interesse di tutti" solo il 28 per cento degli interpellati ha fatto il suo nome.
Ma c'è l'economia e qui le note sono ancor più dolenti. Sono di due giorni fa le cifre consuntive dell'Istat per il 2005. Il Pil non è aumentato neppure di uno 0 virgola, è rimasto immobile come già lo era stato nel 2003. I consumi sono addirittura andati indietro dello 0,1 per cento sull'anno precedente. L'avanzo primario, che il centrosinistra lasciò al 5,6 del Pil, è sceso allo 0,6 e nei primi due mesi dell'anno in corso è andato sotto zero.
La produzione industriale è ferma o recede. L'occupazione stabile è diminuita di centomila unità. La bilancia commerciale registra un vistoso passivo. Il fabbisogno di cassa è in aumento e infatti il debito pubblico cresce per la prima volta dal 1993. Siamo di nuovo al 108 per cento sul Pil e il trend prevede quota 110 per la fine dell'anno.
Aggiungo che questi catastrofici risultati sono stati attenuati spostando al 2007 e al 2008 spese già previste e scritte con apposite leggi: aumento di pensioni, sconti contributivi, passaggio del trattamento di liquidazione ai fondi pensione con relativi compensi alle imprese, bonus di vario tipo a categorie di anziani e di bebè. Il tutto senza alcuna copertura. Ultimo e clamoroso esempio: il decreto sul condono dei contributi previdenziali degli agricoltori, fervorosamente voluto dal ministro Alemanno e respinto dal Quirinale perché avrebbe causato al bilancio una perdita di 5 miliardi di euro. Cinque miliardi, diecimila miliardi di lire, quasi l'entità d'una manovra finanziaria.
Si dirà che anche il programma di centrosinistra prevede costose misure per rilanciare un'economia che non riesce ad intercettare la ripresa di Eurolandia, già in atto nel resto del continente. Ma non è vero. Il programma di Prodi ha indicato le possibili fonti di copertura: taglio di tutti gli incentivi alle imprese a fronte del taglio di 5 punti del cuneo fiscale; revisione degli studi di settore sui redditi provenienti dal terziario commerciale; soprattutto recupero di larghe fasce di lavoro nero e di reddito sommerso.
Generalmente l'opinione pubblica e anche gli specialisti sono scettici sul possibile recupero del sommerso, l'esperienza infatti è stata finora negativa. Ma non perché sia impossibile l'emersione dal nero. Non ci sarebbe niente di più facile, basterebbe servirsi delle pagine gialle degli elenchi telefonici.
In realtà finora quella lotta non si è voluta fare perché avrebbe creato problemi di occupazione e anche di esistenza di imprese.
Problemi seri ma governabili con piani a medio termine guidati da agenzie pubbliche di coordinamento. Questa questione sarà decisiva e può caratterizzare una riforma duratura del fisco, tale da consentire un investimento che abbia le caratteristiche di una scossa sul rilancio della domanda.
Resta il grande tema d'un aumento della produttività e della competitività del sistema Italia, che langue da molti anni. Ne ha parlato ieri il neogovernatore della Banca d'Italia Draghi e ha detto sagge parole. La responsabilità principale incombe sulle imprese, con le innovazioni di prodotto, lo stimolo della concorrenza e un mercato che si liberi dai vincoli e dal protezionismo che ancora lo opprimono.
Ai governi spetta la responsabilità di liberalizzare il sistema e di elevare l'efficienza dei servizi, specie di quelli dei quali le imprese sono gli utenti principali a cominciare dall'energia, dai trasporti e naturalmente dalla scuola. Pubblica soprattutto.
Ce la possiamo fare, ha detto Draghi, ma ha aggiunto: "Il tempo è breve" e si riferiva all'aumento dei tassi da parte della Banca centrale europea. Per gli altri paesi di Eurolandia, già in corsa per la ripresa, un aumento dei tassi nominali che li porti a misura dell'inflazione corrente mantenendo così i tassi reali intorno allo zero, non rappresenta alcun handicap. Ma non per l'Italia, dove l'assenza di un avanzo primario rende il bilancio estremamente vulnerabile e il peso degli interessi sul debito schiacciante.
Il tempo è breve. Per questo (mi permetto di aggiungere) ci vuole un cambiamento. Cambiamento di musica e di suonatori.
Post scriptum. Diliberto. Vuole incontrare Berlusconi in un pubblico dibattito. Là dove spetta unicamente al leader del centrosinistra confrontarsi con il suo avversario sulla base di regole stabilite in comune, il segretario dei Comunisti italiani si alza sulla punta dei piedi per farsi notare e si prenota al posto di Prodi.
Berlusconi ovviamente ne sarebbe felice. Scontrarsi con la sinistra radicale che pretendesse di parlare a nome di tutta l'Unione per lui è il cacio sui maccheroni.
Diliberto avrà spero notato di essere sempre inserito nei pastoni televisivi nonché invitato ai vari talk show. Il motivo non dovrebbe sfuggirgli: ciò che dice fa molto comodo alle emittenti di centrodestra. Se un Diliberto non ci fosse i vari Vespa delle nostre televisioni se lo inventerebbero.
Perciò Diliberto meno parla e meglio fa, più parla e più fa danno. Ogni mezzo per cento che riuscisse a guadagnare al suo partito procura almeno il doppio di perdita alla coalizione di cui anche lui fa parte. Perciò se Diliberto chiederà a Prodi "vengo anch'io" nell'interesse comune bisognerà rispondergli "no tu no". E se poi nemmeno lo chiederà ma ci andrà, bisognerà dirglielo lo stesso. Un po' di umiltà non guasterebbe.
(5 marzo 2006)
http://tinyurl.com/erp33
ANCORA per un po' il circo politico vivrà di sondaggi, poi arriverà finalmente il giorno del voto e si vedrà se la realtà effettiva sarà eguale o diversa da quella virtuale.
L'ultimo della serie, pubblicato ieri da Repubblica, è stato effettuato da Demos-Eurisko su un campione di 1500 persone nel periodo 27 febbraio-1 marzo e vede in testa di cinque punti il centrosinistra. Confrontato con il precedente del 14-15 febbraio, il vantaggio della coalizione guidata da Prodi è cresciuto dello 0,7 per cento. In quindici giorni non è poco, anche se le cifre non scontano ancora i possibili effetti del viaggio americano di Berlusconi (ma neppure i dati Istat sulla crescita zero del Pil e la perdita di oltre centomila posti di lavoro). Chi vivrà vedrà. Ma intanto ci sono alcuni aspetti del sondaggio che si prestano a qualche considerazione.
Alla domanda "chi dia maggiori garanzie di lavorare nell'interesse di tutti" il 41,3 per cento degli intervistati indica Prodi e il 28,3 Berlusconi.
Ancora più schiacciante è il divario nella successiva domanda "chi tutela di più le persone deboli e bisognose": Prodi registra il consenso del 44,2 mentre Berlusconi incassa uno striminzito 26 per cento.
Altre domande danno esiti opposti. "Chi tiene più unita la propria coalizione?": Berlusconi 42,4 Prodi 27,9; "chi sa parlare meglio alla gente?": Berlusconi 54,3 Prodi 25,9. Un record, anche se viene fatto di pensare che se il metro di giudizio decisivo fosse fondato su questo quesito Benigni darebbe forfait a tutti e forse Bonolis e Baudo supererebbero il presidente del Consiglio. Ma gli italiani non hanno bisogno di comici o di presentatori, il 9 aprile sceglieranno il capo del governo e sanno che un Paese non si governa con le battute.
La domanda su chi dei due riuscirà a rilanciare l'economia dà un risultato alla pari; l'altra su chi ha meglio affermato la presenza dell'Italia nel mondo vede Berlusconi in vantaggio. Esaminiamo queste due risposte che ci fanno entrare nel merito della discussione. E cominciamo dall'ultima.
Quando Berlusconi formò il suo governo nel giugno del 2001 ereditò in politica estera una situazione di notevole prestigio in Europa - dovuta anche all'ingresso dell'Italia nella zona Euro - e ottimi rapporti con gli Stati Uniti dell'era clintoniana e con la Comunità internazionale rappresentata dall'Onu. Eravamo presenti in Bosnia sotto la bandiera delle Nazioni Unite e in Kosovo sotto quella della Nato.
In Medio Oriente in amichevole equilibrio con Israele e con l'Autorità palestinese. In cinque anni molte cose sono cambiate. Il terrorismo ha fatto la sua cruenta comparsa sulla scena mondiale, Bush ha lanciato la terza guerra mondiale per debellarlo, ha sgominato con l'appoggio compatto del mondo intero il regime dei talebani in Afghanistan. Poi, un anno dopo, lanciò la guerra preventiva contro l'Iraq dividendo la Comunità internazionale e l'Europa e cavalcando la contrapposizione tra Occidente e Islam radicale.
Berlusconi scelse di slancio di fiancheggiare Bush insieme a Blair e ad Aznar. Si creò la coalizione dei volenterosi.
L'Onu si spaccò. L'Europa si spaccò. A tre anni e mezzo da quelle vicende e da quella scelta quali sono i risultati? In positivo una forte amicizia con Bush e con l'America conservatrice. In negativo una perdita secca d'influenza in Europa aggravata dal fatto che per cinque anni il governo italiano non ha fatto altro che picconare poteri e autorità della Commissione europea puntando su una sempre maggiore libertà di movimento dei governi nazionali a danno dell'unità economica e politica dell'Europa. Salvo accorgersi proprio in queste ultime settimane che l'Europa è il solo scudo per noi, vaso di coccio, sia in economia, sia rispetto alle crisi del Medio Oriente, sia nella questione dell'immigrazione.
L'alleanza tra Europa e Usa è certamente un punto fermo e imprescindibile, ma la marginalizzazione italiana in Europa è il risultato negativo della politica estera berlusconiana. Dell'Europa siamo parte integrante, tra i sei paesi che la fondarono. Quella è la piattaforma sulla quale dobbiamo muoverci e farci valere. In economia e in politica. Da questo punto di vista l'azione italiana è stata un fallimento che neppure la vittoria della Merkel in Germania ha migliorato.
Se poi consideriamo la posizione italiana in Medio Oriente, il quadro diventa ancora più fosco. Siamo in Iraq da tre anni e mezzo. Per aiuti umanitari? Briciole. Per istruire la polizia irachena e la guardia nazionale?
Il comandante in capo americano in Iraq ha dichiarato pochi giorni fa: "Non esiste un solo battaglione iracheno che sia in grado di opporsi efficacemente alla guerriglia se non fosse aiutato dalle truppe della coalizione. Allo stato dei fatti le cose stanno così".
Ho riportato testualmente: non un solo battaglione. Sapete perché? Perché polizia ed esercito iracheni sono stati costituiti inquadrando entro un'apparenza legale le milizie armate dei vari partiti: milizie fedeli all'ayatollah al Sistani, milizie fedeli al mullah Muqtada al Sadr, milizie curde e perfino milizie sunnite. Esse partecipano agli scontri con le bande di guerriglia non già per impedirli ma per alimentarli. Ecco perché una polizia irachena e un esercito iracheno non esistono: sono composti da bande di fazione alle quali non abbiamo un bel niente da insegnare.
Sicché l'Iraq, pur dopo elezioni che hanno registrato notevole affluenza, resta un pantano dal quale non si verrà fuori se non tra cinque anni e forse più a meno di non decidere seguendo il metodo di Zapatero.
Quali vantaggi ha ricavato l'Italia dalla scelta "americana" di Berlusconi (al netto della medaglia "endurance freedom" ricevuta dal "premier" nel salone della portaerei "Intrepid")? Nessun vantaggio. I paesi europei che non hanno mandato truppe in Iraq possono negoziare con l'America con buone chance di successo per i loro interessi. Noi no, abbiamo dato e non ricevuto. Salvo l'appoggio elettorale di Bush a Berlusconi. Ad personam ancora una volta perché questo è il canone berlusconiano di governo e di vita. Saggiamente alla domanda "chi darà maggiori garanzie di tutelare l'interesse di tutti" solo il 28 per cento degli interpellati ha fatto il suo nome.
Ma c'è l'economia e qui le note sono ancor più dolenti. Sono di due giorni fa le cifre consuntive dell'Istat per il 2005. Il Pil non è aumentato neppure di uno 0 virgola, è rimasto immobile come già lo era stato nel 2003. I consumi sono addirittura andati indietro dello 0,1 per cento sull'anno precedente. L'avanzo primario, che il centrosinistra lasciò al 5,6 del Pil, è sceso allo 0,6 e nei primi due mesi dell'anno in corso è andato sotto zero.
La produzione industriale è ferma o recede. L'occupazione stabile è diminuita di centomila unità. La bilancia commerciale registra un vistoso passivo. Il fabbisogno di cassa è in aumento e infatti il debito pubblico cresce per la prima volta dal 1993. Siamo di nuovo al 108 per cento sul Pil e il trend prevede quota 110 per la fine dell'anno.
Aggiungo che questi catastrofici risultati sono stati attenuati spostando al 2007 e al 2008 spese già previste e scritte con apposite leggi: aumento di pensioni, sconti contributivi, passaggio del trattamento di liquidazione ai fondi pensione con relativi compensi alle imprese, bonus di vario tipo a categorie di anziani e di bebè. Il tutto senza alcuna copertura. Ultimo e clamoroso esempio: il decreto sul condono dei contributi previdenziali degli agricoltori, fervorosamente voluto dal ministro Alemanno e respinto dal Quirinale perché avrebbe causato al bilancio una perdita di 5 miliardi di euro. Cinque miliardi, diecimila miliardi di lire, quasi l'entità d'una manovra finanziaria.
Si dirà che anche il programma di centrosinistra prevede costose misure per rilanciare un'economia che non riesce ad intercettare la ripresa di Eurolandia, già in atto nel resto del continente. Ma non è vero. Il programma di Prodi ha indicato le possibili fonti di copertura: taglio di tutti gli incentivi alle imprese a fronte del taglio di 5 punti del cuneo fiscale; revisione degli studi di settore sui redditi provenienti dal terziario commerciale; soprattutto recupero di larghe fasce di lavoro nero e di reddito sommerso.
Generalmente l'opinione pubblica e anche gli specialisti sono scettici sul possibile recupero del sommerso, l'esperienza infatti è stata finora negativa. Ma non perché sia impossibile l'emersione dal nero. Non ci sarebbe niente di più facile, basterebbe servirsi delle pagine gialle degli elenchi telefonici.
In realtà finora quella lotta non si è voluta fare perché avrebbe creato problemi di occupazione e anche di esistenza di imprese.
Problemi seri ma governabili con piani a medio termine guidati da agenzie pubbliche di coordinamento. Questa questione sarà decisiva e può caratterizzare una riforma duratura del fisco, tale da consentire un investimento che abbia le caratteristiche di una scossa sul rilancio della domanda.
Resta il grande tema d'un aumento della produttività e della competitività del sistema Italia, che langue da molti anni. Ne ha parlato ieri il neogovernatore della Banca d'Italia Draghi e ha detto sagge parole. La responsabilità principale incombe sulle imprese, con le innovazioni di prodotto, lo stimolo della concorrenza e un mercato che si liberi dai vincoli e dal protezionismo che ancora lo opprimono.
Ai governi spetta la responsabilità di liberalizzare il sistema e di elevare l'efficienza dei servizi, specie di quelli dei quali le imprese sono gli utenti principali a cominciare dall'energia, dai trasporti e naturalmente dalla scuola. Pubblica soprattutto.
Ce la possiamo fare, ha detto Draghi, ma ha aggiunto: "Il tempo è breve" e si riferiva all'aumento dei tassi da parte della Banca centrale europea. Per gli altri paesi di Eurolandia, già in corsa per la ripresa, un aumento dei tassi nominali che li porti a misura dell'inflazione corrente mantenendo così i tassi reali intorno allo zero, non rappresenta alcun handicap. Ma non per l'Italia, dove l'assenza di un avanzo primario rende il bilancio estremamente vulnerabile e il peso degli interessi sul debito schiacciante.
Il tempo è breve. Per questo (mi permetto di aggiungere) ci vuole un cambiamento. Cambiamento di musica e di suonatori.
Post scriptum. Diliberto. Vuole incontrare Berlusconi in un pubblico dibattito. Là dove spetta unicamente al leader del centrosinistra confrontarsi con il suo avversario sulla base di regole stabilite in comune, il segretario dei Comunisti italiani si alza sulla punta dei piedi per farsi notare e si prenota al posto di Prodi.
Berlusconi ovviamente ne sarebbe felice. Scontrarsi con la sinistra radicale che pretendesse di parlare a nome di tutta l'Unione per lui è il cacio sui maccheroni.
Diliberto avrà spero notato di essere sempre inserito nei pastoni televisivi nonché invitato ai vari talk show. Il motivo non dovrebbe sfuggirgli: ciò che dice fa molto comodo alle emittenti di centrodestra. Se un Diliberto non ci fosse i vari Vespa delle nostre televisioni se lo inventerebbero.
Perciò Diliberto meno parla e meglio fa, più parla e più fa danno. Ogni mezzo per cento che riuscisse a guadagnare al suo partito procura almeno il doppio di perdita alla coalizione di cui anche lui fa parte. Perciò se Diliberto chiederà a Prodi "vengo anch'io" nell'interesse comune bisognerà rispondergli "no tu no". E se poi nemmeno lo chiederà ma ci andrà, bisognerà dirglielo lo stesso. Un po' di umiltà non guasterebbe.
(5 marzo 2006)
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