domenica 12 dicembre 2004

Quando in un Paese la giustizia funziona

di EUGENIO SCALFARI

"Si ode a destra uno squillo di tromba / a sinistra risponde uno squillo". Oppure: "Se voi suonerete le vostre trombe noi suoneremo le nostre campane". Scegliete voi, cari lettori, quali di questi due celebri motti sia più adatto a rappresentare le due sentenze susseguitesi di poche ore e rispettivamente riguardanti Silvio Berlusconi (tribunale di Milano) e Marcello Dell'Utri (tribunale di Palermo).

A me sembra più adatto il primo: dà conto dei fatti, la magistratura ha parlato, è stata finalmente messa in condizioni di andare a sentenza dopo anni di esame delle carte processuali e (nel caso Berlusconi-Previti) di impedimenti processuali e legislativi pervicacemente frapposti dagli imputati e dai loro difensori per guadagnar tempo e far scorrere il più possibile i termini della prescrizione. Poi ci si lamenta per le lentezze della giustizia quando sono stati proprio due imputati eccellentissimi a farla avanzare col passo del gambero e della lumaca.

Il secondo motto configura piuttosto lo spirito dei commenti alquanto esagitati diffusi dai dirigenti del centrodestra subito dopo la condanna di Dell'Utri: la sentenza di Palermo vista come rappresaglia dei giudici palermitani rispetto a quella parzialmente liberatoria dei giudici milanesi.

Questi ultimi lodati, i primi vilipesi senza eccezioni. Commenti stonati, di fronte ai quali spicca il riserbo e la prudenza del centrosinistra, dove nessuno si è peritato di buttarla in politica, neppure quelli che hanno espresso rammarico per il mancato rifiuto da parte del presidente del Consiglio di non accettare il proscioglimento per prescrizione, applicato dal tribunale ad uno dei capi d'imputazione, come la carica che ricopre avrebbe dovuto consigliargli.

In realtà le sentenze dei due tribunali rappresentano l'essenza della normale e corretta attività di giurisdizione affidata alla magistratura giudicante in libera dialettica con la pubblica accusa, le parti civili e la difesa degli imputati e, soprattutto, sono il risultato della libera valutazione dei fatti e l'applicazione ad essi delle norme vigenti.

Può darsi che i giudici dell'appello emendino la condanna a Dell'Utri o può darsi che la confermino. Sulla base delle risultanze emerse in processo, per quello che ne è stato ampiamente riferito dai giornali, a noi sembra che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa sia stato ampiamente provato. Il collegio giudicante comunque, dopo aver discusso per ben tredici giorni in camera di consiglio e dopo sette anni da quando l'inchiesta della Procura ebbe inizio, ha concluso in modo limpido e netto per la colpevolezza.

Dell'Utri, nella sua dichiarazione successiva alla condanna, ha anche ribadito che proseguirà nella sua attività politica e adempirà all'importante incarico che Berlusconi gli ha affidato di organizzatore della campagna elettorale di Forza Italia. È un suo diritto: innocente presunto fino a sentenza definitiva.

Certo l'accusa per la quale è stato condannato è molto pesante. La sensibilità d'una persona normale opterebbe piuttosto, se non sulle dimissioni dalla carica di senatore, almeno sull'astensione da incarichi di rilievo che hanno come destinatari nientemeno che gli elettori. Ma la sensibilità morale è ormai una merce rarissima. Pensare di trovarla nell'anima di Marcello Dell'Utri equivarrebbe a sognare ad occhi aperti. Infatti nessuno ci ha mai pensato.

È stata invece sorprendente la solidarietà "umana" manifestatagli con pubblica dichiarazione dal presidente della Camera alla vigilia della sentenza. Casini ricopre una carica costituzionale molto elevata. L'amicizia personale, se del caso, la si esprime in forme strettamente private. Esternata pubblicamente getta un'ombra di interferenza nei confronti del potere giudiziario che Casini avrebbe potuto e anzi dovuto rigorosamente evitare.

* * *

Più complessa, pur nelle venti righe del suo dispositivo, è stata la sentenza del tribunale di Milano nei confronti di Silvio Berlusconi. I colleghi D'Avanzo e Giannini ne hanno già ampiamente scritto sul nostro giornale di ieri.

Aggiungerò poche osservazioni ai loro commenti. A me sembra che i giudici milanesi non siano stati pusillanimi né che abbiano scelto una via mediana e indolore usando un eccesso di sottigliezza giuridica. Dovevano giudicare tre capi d'imputazione che configuravano tutti e tre la corruzione di magistrati. In un caso l'imputato è stato assolto con formula piena (regalo di gioielli nel corso d'un viaggio di vacanza).

In un altro caso, che configurava una corruzione connessa ad un processo specifico, l'imputato è stato assolto sulla base dell'articolo 530 del codice di procedura penale che consente l'assoluzione se le prove non sono ritenute sufficienti. Nel terzo caso (denari versati dalla Fininvest al magistrato Squillante) la prova (hanno detto i giudici) è stata raggiunta ma, con la concessione delle attenuanti, il reato risulta prescritto e quindi l'imputato è prosciolto.

Sentenza pusillanime? Ho già detto che a me non sembra. La sola, vera questione sta nella concessione delle attenuanti generiche. Potevano concederle o negarle. E quindi prosciogliere (come hanno fatto) o condannare.

Giuridicamente cambiava molto; politicamente e moralmente non cambia quasi nulla. La sentenza ha infatti accertato che Berlusconi ha versato 500 milioni di lire a Squillante (già condannato nel processo collaterale a otto anni di reclusione) per corromperlo.

È uno dei reati più gravi previsti dal nostro codice. Il fatto che il decorso dei termini lo abbia prescritto non cambia nulla nel giudizio morale e politico. Sempre che, naturalmente, i giudici di appello non modifichino e capovolgano la sentenza di primo grado in senso assolutorio per l'imputato.

Qualcuno ha scritto che la sentenza smentisce l'impianto accusatorio della Procura. Non mi pare. Un'assoluzione per insufficienza di prove e un proscioglimento per decorrenza di termini non distrugge un bel niente, al contrario conferma almeno per la metà l'impianto accusatorio. Allo stesso tempo dimostra l'indipendenza e la terzietà del collegio giudicante rispetto al Pubblico ministero. Che si vuole di meglio e di più? Non dobbiamo essere rispettosi del libero convincimento dei magistrati? Non è su di esso che si basa soprattutto l'indipendenza della giurisdizione? E non è quello il bene da tutelare ad ogni costo e che (sia detto qui incidentalmente) la riforma della giustizia approvata pochi giorni fa dal Parlamento ed ora alla firma del presidente della Repubblica, fa di tutto per condizionare e financo impedire?

* * *

Mi restano ancora da fare poche osservazioni su due questioni importanti: le connessioni politico-morali tra il processo Dell'Utri e Berlusconi; i rapporti, in generale, tra la politica e l'attività di giurisdizione.
Sulla prima questione non c'è che constatare come nell'intero processo Dell'Utri si veda in filigrana l'ombra di un convitato di pietra; nell'opera mozartiana si tratta del Commendatore, qui il convitato di pietra è un Cavaliere.

Tutta l'attività di Dell'Utri nella sua presunta collaborazione esterna con l'associazione mafiosa si svolge, in Sicilia come a Milano, nell'interesse della Fininvest e fa parte integrante della storia della Fininvest ai suoi albori, alle sue prime affermazioni imprenditoriali, alle sue iniziali e consistenti accumulazioni finanziarie. In sede giudiziaria il processo riguarda esclusivamente Dell'Utri; ma in sede politico-morale riguarda direttamente anche Berlusconi. I due sono legati a filo doppio come, su un altro versante, Berlusconi è legato a Cesare Previti.

Fini e Follini (e Bossi e Tremonti) conoscono perfettamente questa realtà. Il loro silenzio, anzi la copertura blindata che hanno sempre dato al Capo su questo terreno, pesa come un macigno sulla fragilità dei loro piccoli strappi e minime ribellioni. Simul stabunt, simul cadent.

E ora la questione del rapporto tra la politica e la giurisdizione. "Sarebbe ora - scrivono molti dei nostri terzisti in servizio permanente effettivo - che politici e magistrati comprendessero di svolgere due attività separate e distinte nelle quali debbono reciprocamente guardarsi dall'interferire". "In democrazia non è vero che la legge sia eguale per tutti". "I politici non possono esser giudicati dai magistrati, rispondono soltanto ai loro pari e al popolo degli elettori".

Queste affermazioni contengono una verità ovvia e una pericolosa bugia. La verità ovvia sta nel fatto che la giurisdizione non può avere ingresso nell'attività legislativa del Parlamento così come governo e Parlamento non possono avere ingresso nelle attività istruttorie e processuali. Ma - ecco la nefasta bugia - il politico che commetta reati comuni, tanto più se li ha commessi prima di ricoprire un qualsivoglia ruolo politico, è soggetto alla legge e alla giurisdizione né più né meno d'ogni altro cittadino. Non può invocare alcuna particolare immunità né alcuna particolare indulgenza né alcun foro speciale. Salvo il caso in cui si tratti non già di reati comuni ma di reati politici, per i quali infatti esistono speciali procedure che culminano nell'impeachment, cioè nello stato d'accusa votato dal Parlamento e rimesso per il giudizio alla Corte costituzionale.

È singolare che i nostri terzisti confondano tra loro concetti così elementari e incalzino i magistrati affinché rispettino il ruolo dei politici astenendosi dall'applicare anche a essi quel sindacato di legalità la cui esistenza distingue lo Stato di diritto dai regimi totalitari. O si tratta di ignoranza delle norme ordinamentali e dei principi del diritto, oppure si tratta di malafede partigiana.
(12 dicembre 2004)

http://www.repubblica.it/2004/l/sezioni/politica/dellutri/gustiscalfari/gustiscalfari.html

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