di Nando Dalla Chiesa
Alla fine è passata pure lei. Con il successo di pubblico (ossia di senatori e ministri e sottosegretari in aula) delle grandi occasioni, Palazzo Madama ha approvato ieri la legge ad personam più esplosiva tra quelle prodotte a grappoli dalla Casa delle libertà. È passata la legge S.P.: Salva Previti, Senza Pudore, Smonta Processi, Scaccia Pensieri, del Santo Protettore. E Senza Papà, visto che l’originario primo firmatario Edmondo Cirielli ha ritirato il suo nome dopo l’intrusione della norma Previti.
Benché le burocrazie parlamentari, con qualche crudeltà, ancora lo additino come il colpevole di una legge di cui si è vergognato lui per primo. Ripetiamolo: è una legge per abbattere i tempi della prescrizione e mandare libero Cesare Previti dai suoi guai presenti con i tribunali della Repubblica. E per mandare liberi insieme con lui -parola in aula del sottosegretario Vitali, consultare il resoconto stenografico di martedì 26, seduta antimeridiana- altri 180mila (180 mila!) imputati all'anno. Insomma, salvarne circa un milione in cinque anni per salvarne uno una volta sola. Come senso di responsabilità, e come cultura della sicurezza, e come certezza della pena, non c'è male davvero. E saranno coincidenze, ma se i giorni immediatamente successivi all’11 settembre il Senato era impegnato ventre a terra nell'approvazione del falso in bilancio, nei giorni immediatamente successivi alle bombe di Londra lo abbiamo ritrovato impegnato ventre a terra nell'approvazione della Salvapreviti. Anche questi sono titoli da esibire davanti alla comunità internazionale. Due periodi da incubo globale, due leggi personali, due urgenze assolute: le leggi medesime. Ma è questa oggi, in fondo, la cifra delle nostre istituzioni parlamentari. Ed è bene rifletterci.
Perché, fra l’altro, questo è avvenuto il giorno dopo che Carlo Azeglio Ciampi ha firmato la legge di riforma dell'ordinamento giudiziario. E lo ha fatto in un contesto che ora va ripassato attentamente. Diciamo subito, dunque, che il presidente della Repubblica non poteva fare altrimenti. Ma non perché la legge di riforma fosse costituzionale. Piuttosto perché si è trovato davanti a una inedito dilemma. Egli ha dovuto scegliere, più precisamente, tra l’equilibrio politico-costituzionale del Paese (ossia la costituzionalità della nostra vita politica e istituzionale) e la costituzionalità di una singola legge. E responsabilmente ha scelto il primo corno del dilemma. Ciò non toglie che resti tutta intera la complessità e la gravità della partita che si è aperta nelle ultime settimane intorno al Quirinale e che continua con la fragorosa approvazione di una nuova legge incostituzionale come quella di ieri.
I giorni scorsi infatti sono stati segnati dagli stupefacenti attacchi della seconda e della terza carica dello Stato contro il Consiglio Superiore della Magistratura, organo a rilevanza costituzionale presieduto proprio dal presidente della Repubblica. Le ragioni sono note e sono state peraltro esplicitate dai protagonisti: aver messo, il Csm, all’ordine del giorno la discussione del nuovo testo della legge di riforma, attività perfettamente rientrante nelle sue attribuzioni istitutive. Domanda: la seconda e la terza carica dello Stato ignoravano forse che la legge attribuisce al Csm il compito di redigere pareri sulle norme che riguardano il funzionamento della giustizia? È francamente impossibile crederlo. Più sensato pensare che entrambe abbiano agito su motivazioni e spinte di parte, temendo che il parere del Csm potesse confortare, in una qualche misura, l'ipotesi di un secondo rinvio della legge alle Camere. E che, essendo la riforma dell’ordinamento il cuore di un perverso e ferreo patto di potere interno alla maggioranza -legge Castelli contro legge Salvapreviti, appunto-, presidente del Senato e presidente della Camera non abbiano fatto altro che condurre un attacco preventivo (quasi, si starebbe per dire, sul filo della sovversione costituzionale) contro il Csm ma soprattutto contro Ciampi, che con la sua firma aveva autorizzato l’ordine del giorno contestato.
Tra l’altro vi è una ragione di più per ritenere grave quanto è accaduto. Ragione che invece è sfuggita quasi del tutto agli osservatori e agli stati maggiori della politica. È infatti successo che lo stesso legislatore abbia sciolto ogni dubbio circa la natura incostituzionale della legge. Come si sa, la scuola che riteneva possibile un secondo rinvio (capeggiata dall’ex presidente della Corte Costituzionale Leopoldo Elia) poggiava sulla considerazione che l'emendamento anti-Caselli era stato introdotto nella legge dopo il rinvio alle Camere. E che quindi la legge, almeno in quella sua parte, attingeva una natura “nuova e diversa” da quella precedentemente licenziata. Ebbene, subito dopo gli attacchi del presidente del Senato e del presidente della Camera verso la coppia Csm-Quirinale, il senatore Luigi Bobbio, relatore della legge in Senato e proponente dell’emendamento anti-Caselli, ha nitidamente fatto sapere con pubblica dichiarazione, proprio mentre erano in corso le valutazioni del capo dello Stato, quale fosse la ratio della innovazione legislativa. E ha testualmente spiegato: «(la norma) impedisce che un magistrato con propensione a coltivare trame investigative sconfessate dai tribunali vada alla Procura antimafia».
Ora, a parte la considerazione che il lavoro di Caselli a Palermo è stato coronato da centinaia di condanne definitive e nei casi più infuocati (Andreotti, Dell’Utri) da nessuna “sconfessione”, tali non essendo né la prescrizione né l'insufficienza di prove né la condanna in primo grado; a parte questo, dicevo, la realtà si è venuta configurando in questo modo. Presidenti di Senato e Camera attaccano il Csm (e con esso il presidente della Repubblica) mentre si accinge a giudicare della costituzionalità della legge, passata alla Camera con voto di fiducia. Il presidente della Repubblica non può non porsi il problema delle conseguenze che una sua scelta (anche se pienamente legittima) può avere, in queste condizioni, sul quadro costituzionale complessivo, tanto più mentre si è aperto un conflitto diretto con il presidente del Consiglio sulla possibile data delle nuove elezioni politiche. Mentre il capo dello Stato compie le proprie delicatissime valutazioni, il legislatore, nella persona del relatore e proponente della norma più contestata, invece di ammorbidire il senso della propria innovazione lo espone nella forma più schietta e squadrata, spiegando a distanza che quella è una legge incostituzionale in quanto intenzionalmente “contra personam”. Il presidente a sua volta non può non sentire la sfida, riceve la conferma che si tratta di una legge incostituzionale nella lettera e nello spirito, ma sa anche (perché gli è stato fatto capire) che un suo nuovo rinvio scatenerebbe il cataclisma proprio sul piano dei più generali equilibri dell'ordinamento costituzionale.
Ecco la questione. Può un capo dello Stato essere messo nella condizione di dovere scegliere tra queste due alternative? Quanto si è deteriorato il nostro ordinamento perché questo sia possibile? Quanto sono effettivamente salde e più forti del gioco politico le nostre (plurime) garanzie costituzionali? Sta sempre più la politica logorando le nostre istituzioni? Non sono domande oziose. E d’altra parte se per far finire un processo se ne fanno finire centoottantamila l’anno, nessuno davvero può stare tranquillo.
tratto da l'Unità del 28/07/2005
giovedì 28 luglio 2005
La vergogna della legge S.P. /2
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1 commento:
di male in peggio.... io la vedo nera, peggio del'argentina o giù di lì....
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